Era il 10 febbraio 1948. Due anni e mezzo dopo la disfatta tutti vivevano affannati, appassionatamente immersi nelle “cose cattive”, sempre più protesi verso il gioco d’azzardo e le ruffianerie […] Tutti avevano un volto dal brutto colorito e tutti vivevano con grande vitalità provando un estremo piacere ad arrangiarsi. […] esistono uomini che non hanno alcuna fretta. Godono fama di essere sicuri di sé. Restano in attesa, oscillando con indolenza come carte moschicide, che le vite degli altri vi s’invischino, come mosche. Uomini simili concludono la loro esistenza convinti che le mosche siano stupide. Ma in realtà ne esistono anche di intelligenti, che non finiscono sulla carta moschicida.
Racconto breve, intenso, nel quale nulla accade e tutto viene visto e percepito con una lucidità che sconfina nella follia, disgusto affascinato per i particolari volgari della corporeità altrui, desiderio di perdersi e di sporcarsi che convive con l’aspirazione all’ascesi, bisogno di ordine e attrazione per il disordine. Il clima interiore e quello esterno del disastroso primo dopoguerra sono in consonanza: caos e violenza fuori, – l’«anarchia» sul quale il protagonista fantastica a non finire – l’immaginaria «inflazione» metafora di ciò che sta per divenire il Giappone, del dissolvimento di ogni valore, risultato temuto e insieme desiderato, tema quasi ossessivo per Mishima, che lo ha affrontato già in Confessioni di una Maschera.

Yukìo Mishima
Profanare, “lacerare” la piccola Fusako, figlia dell’amante defunta – lolita maliziosa come tutte le bambine e ansiosa di entrare nel mondo degli adulti, vivendo le misteriose esperienze della madre proprio con l’amante di lei – diventa per Kazuo il perno delle fantasie, l’atto di trasgressione per eccellenza che lo farà finalmente precipitare dall’altra parte, nel nuovo Giappone, recidendo legami, rimpianti, pastoie, consumando la vera lacerazione.
Yukìo Mishima, Una stanza chiusa a chiave, ES 2003, pp.87 € 12,50, trad. L. Origlia
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