Un rarefatto romanzo epistolare, costituito di lettere mai spedite, che qualcuno, forse il giovane che si racconta, forse uno sconosciuto, scrive ad un altro possibile se stesso, privo di volto e di parole. Lo scrivente, un traduttore dell’Est a Parigi per studio, allude ad un delitto: l’omicidio di Franz, l’amante intellettuale e benestante:
E per tutto il tempo non faccio che pensare alla mia confessione, a quelle poche parole che devo pronunciare riguardo alla mia vita terrena e al mio delitto da nulla.
Non cerca assoluzioni ma l’occasione di osservare dall’esterno una vita che non gli appartiene e che non rivendica. Divaga, ricorda l’infanzia in una piccola città dell’Estonia,
un ammasso di case gettato sul bordo di un paesaggio piatto (..) dalle vie dissestate e dagli edifici cadenti» dove «gli unici messaggeri della trascendenza nella notte (..) sono i tram
una terra di inverni troppo bui e di estati troppo chiare, svuotata di identità e di futuro dalla presenza sovietica, che, anche dopo la pace, vive in un’economia di guerra. Andarsene è l’unica scelta, ma non ci sono posti dove andare: da bambino i lunghi viaggi sul «treno di legno» lo conducevano soltanto alla fattoria dello zio, in una campagna altrettanto sporca e tediosa della città. La fuga all’ovest, «a precipizio e tuttavia continuando a guardarmi indietro» rende solo coscienti di provenire da altrove.

Emil Tode
Il rancore e il disprezzo che il narratore nutre per l’amante è il frutto inevitabile della soddisfazione priva di fantasia di Franz per la riuscita sociale e della sua incapacità di mettersi in gioco senza la corazza della cultura e dello status, contrapposte all’impotenza del giovane, che è insieme economica e generazionale, ad una indifferenza caparbiamente scambiata per libertà. Franz è odioso, compiaciuto di sé fino all’ottusità, rivendica diritti sull’amante, non capisce e non riesce a credere che il giovane selvaggio «che lui aveva catturato nella giungla e addomesticato» possa rifiutare «un’occasione come quella che ti sto offrendo per tornare in quel… in quel… in quel…». Il giovane, che lo ucciderà perché non riesce a troncare altrimenti la loro relazione impari, è un’ombra affacciata sul vuoto, che provoca malessere e che, forse, ci assomiglia, perché come lui ignoriamo chi siamo. Una creatura ambigua che non ci offre alternative accettabili: se non vogliamo, se non sappiamo essere come Franz, siamo condannati a camminare, senza desiderio e senza capacità di fermarci.

Tallinn
Lo stile di Tode è dimesso e ipnotico, la narrazione scorre lenta, attenta a luci e colori, gesti minimi, fruscii di pagine e silenzi, spezzata dal clangore dei carri della spazzatura, dal rombo di un treno lontano, da scoppi di voce, indifferente al profilo della città, all’identificazione dei luoghi, ai grandi avvenimenti. Tutto trascorre, niente vale la pena di essere fermato, lo scrivente è comunque lontano, perché proviene da una terra sull’orlo che non è più e non è ancora diventata, e quel confine se lo porta dentro: «se ci si trova esattamente su quel confine non si può essere visti né dall’una né dall’altra parte».
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Emil Tode, Terra di Confine, Iperborea 1997 [Ed. orig. 1993], pp.172, € 10,50, trad. F. Rosso Marescalchi, intr. Pirkko Peltonen
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