Noi ricchi abitanti del Primo Mondo (una minoranza dell’umanità, e questo è bene non dimenticarlo) viviamo in maniera sempre più vicaria, quasi «per procura»: molto di ciò che vediamo, ascoltiamo, sentiamo emotivamente è – in realtà – stato visto, ascoltato, messo in scena» da altri; gli schermi – della TV, del cinema, del computer, del cellulare – sono ormai interfacce pervasive attraverso le quali noi «sperimentiamo» la realtà. La realtà virtuale, intesa come riproduzione ancora imperfetta delle «vere» sensazioni, è già alla nostra portata, perché non dovrebbe essere possibile, in un futuro molto prossimo, vivere «scenari» assolutamente «realistici», tanto da saturare completamente i nostri sensi e la nostra percezione del reale?
L’ipotesi naturalmente non è affatto nuova, decine e decine di anni prima del cyberpunk molti autori di fantascienza sociologica la esploravano traendone auspici favorevoli o nefasti per la nostra capacità di distinguere il reale dal virtuale, e di vivere pienamente la nostra vita sociale. Esperienze estreme conduce il gioco un passo più in là, ipotizzando l’esistenza di software sofisticatissimi, capaci di offrire all’utente realtà dettagliatissime benché limitate nel tempo e nello spazio, ricostruite a partire dai veri ricordi di testimoni diretti di particolari avvenimenti. I primi tra questi software sono stati sviluppati dalla polizia statunitense per addestrare i propri investigatori ad affrontare gli scoppi incontrollati di violenza di chi improvvisamente comincia a fare strage di parenti, vicini e passanti sconosciuti. Teresa, investigatrice e vedova di un investigatore ucciso proprio da uno di questi killer, torna in Inghilterra per cercare di superare la perdita. In realtà la donna vuol tentare l’impossibile: raggiungere il marito nello scenario di studio ricostruito sulla sua morte e alterarne lo svolgimento per salvarlo. Per conseguire lo scopo Teresa si muove nella virtualità, attraversando gli innumerevoli «scenari» confinanti con quello del marito, e mette in opera un piano complesso che il lettore riesce a comprendere soltanto seguendo con estrema pazienza i suoi vagabondaggi.
Autore di rilievo nel panorama fantascientifico anglosassone, Priest ha scritto, tra l’altro eXistenZ, tratto dal film di Cronenberg. Esperienze estreme ha un’idea di partenza molto originale e un andamento alterno, ora estremamente intrigante ora francamente faticoso fino alla noia, e uno scioglimento insoddisfacente. La debolezza maggiore del romanzo è proprio la protagonista: seguita fin troppo da vicino da Priest, la povera Teresa compie davanti ai lettori anche i gesti più minuti: mangia, dorme, cerca – e non trova – sollievo al dolore e alla solitudine nell’alcool, spia allo specchio il proprio corpo ingrassato e invecchiato, riflette, tentenna, fa piani non sempre comprensibili, si rende «pesante» agli albergatori, si cala con eccitazione crescente nell’esistenza virtuale di una giovane divetta del porno.
Noi lettori di fantascienza siamo creature pazienti, disposte non soltanto ad attuare la famosa «sospensione d’incredulità» ma anche ad aspettare che l’autore costruisca, pagina dopo pagina, interi universi alieni o mondi fin troppo simili al nostro, estranei in senso più profondo proprio perché sono tanto familiari. Il disagio che ci coglie leggendo Esperienze estreme non è noia, quindi, ma la sensazione sottile di vagare a vuoto, spiando imbarazzati dal buco della serratura una donna descritta con molto rispetto ma condannata, come il romanzo che Priest le ha dedicato, a non raggiungere il vero nocciolo della questione. Leggendo Esperienze estreme ci sentiamo, in sostanza, impotenti come Teresa nei suoi «scenari»: certi che il bersaglio è appena fuori portata del nostro sguardo e che basterebbe correggere lievemente la mira, spostarsi di poco, per vederlo, per comprendere. Ma negli «scenari», come nei sogni, spostare lo sguardo o cambiare direzione è molto, molto difficile.

Chistopher Priest
Christopher Priest, Esperienze estreme, Fanucci 2002, ed. or. 19998, pp.328, € 14.00, trad. Simona Fefè
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