L’occhio dell’evoluzione si presenta come un manifesto della dissidenza, la difesa di quello sfondo, di quel contorno «muto, manipolato, sfuocato» che gioca un ruolo fondamentale [nella teoria dello sviluppo] ma viene spesso ignorato.
Telmo Pievani, dalla presentazione all’edizione italiana
L’Occhio dell’evoluzione parte da una domanda fondamentale: esistono davvero due dimensioni separate e contrapposte, l’innato e l’acquisito, che condizionano lo sviluppo della nostra identità umana? Appena posta, questa domanda ne genera numerose altre, alle quali è impossibile sfuggire: esiste veramente una «natura umana», universale? Che cosa significano termini quali «biologico», «genetico». «trasmissione», «informazione», «evolutivo»? La grande disinvoltura dei media e del grande pubblico nell’usarli è pericolosa, perché una conoscenza inadeguata di termini tanto importanti per la qualità delle nostre vite apre la porta a innumerevoli manipolazioni. Ad esempio: se non riusciamo nemmeno a definire senza ambiguità «naturale» in ambito umano, a quale pilastro appoggeremo affermazioni che molti danno per scontate quali «i maschi umani e le femmine umane (o i neri e i bianchi, o gli eterosessuali e i gay, come preferite) sono naturalmente diversi» e in base a quali criteri affermeremo che esistono, in ambito biologico, i normali e i devianti? Il terreno sul quale si muove Oyama non è soltanto quello dove le discipline scientifiche della vita s’incontrano e si scontrano, ma quello fangoso e scivoloso nel quale le società pretendono di edificare le loro fondamenta.
La studiosa offre un metodo d’indagine critico e privo di punti fermi aprioristici; usandolo semina dubbi e scardina certezze sul dualismo biologia (nature)/ ambiente (nurture). Apparentemente inconciliabili, il punto di vista innatista e quello ambientalista hanno in comune la rigidità della loro concezione, dice Oyama: da una parte la biologia come entità plasmante ineluttabile e inevitabile, dall’altra l’ambiente come forza condizionante che «scrive» sulla tabula rasa del nuovo individuo. Un compromesso che assegni a entrambi due porzioni variamente complementari di responsabilità (con l’inevitabile implicazione: se assegni una porzione maggiore alla biologia sei un reazionario, se la assegni all’ambiente sei un pericoloso radicale e se, salomonicamente, opti per il fifty-fifty sei un progressista moderato – o forse un blando reazionario – …) è, a ben vedere, un po’ troppo patetico.
Convinti che occorra ripensare interamente la questione, Oyama e altri studiosi propongono, in antitesi con le «correnti ultradarwiniste della sociobiologia, della psicologia evoluzionista e della genetica comportamentale odierna» una visione che consideri lo sviluppo un’intersezione di influenze e di livelli interdipendenti che sfumano uno nell’altro, e chiamano questo approccio integrato DST – Developmental Systems Theory – Teoria dei sistemi di sviluppo).

Susan Oyama
Con «sistema di sviluppo» Oyama intende una «mescolanza eterogenea e casualmente complessa di entità e di influssi interagenti che producono il ciclo vitale di un organismo. Il sistema include l’organismo stesso con i suoi cambiamenti, poiché esso contribuisce al proprio futuro, tuttavia include al contempo molto altro». Si passa, cioè, da un concetto di «trasmissione ereditaria di tratti» a quello di «costruzione continua dello sviluppo e alla trasformazione degli organismi e del loro mondo in cicli di vita che si ripetono».
Questo punto di vista modifica la nostra interpretazione dell’evoluzione. Cambia l’intelaiatura entro la quale parlare di eredità: «sistema mutevole di interagenti […] e di risorse che creano e ricreano un organismo e i suoi ambienti lungo tutto il ciclo di vita». In altre parole, l’eredità viene concepita come insieme di risorse per lo sviluppo di individui o anche come «creatore» di differenze nelle popolazioni.
Nell’articolare – in maniera molto dettagliata e complessa – il proprio pensiero l’autrice contesta la concezione piuttosto diffusa (alla Richard Dawkins) che l’evoluzione sia in sostanza una «evoluzione di geni» Il problema, dice, è come mantenere una visione evoluzionista senza accettare la nozione di uno sviluppo diretto geneticamente e influenzato solo in maniera complementare dall’ambiente.
In realtà, dice Oyama, a essere trasmessi non sono i «tratti», ma i mezzi (o risorse) per lo sviluppo.
… dobbiamo considerare non solo i geni ma anche i vari stati dell’organismo e le modalità con cui uno stato si trasforma nel successivo. Il potenziale lo si concepisce forse in maniera più fruibile come una proprietà […] del fenotipo e non del genotipo. È il fenotipo che può venire modificato oppure no, indotto e sviluppato in una certa direzione oppure no: il suo potenziale si modifica quando ogni interazione con l’ambiente modifica la sua sensibilità. […] Klopfer ci esorta (1973, p. 27) a considerare la cellula «un dispositivo per generare informazioni, non un dispositivo per contenere informazione. La sua capacità di generare informazione, […] di produrre determinati composti, dipende dall’ambiente circostante reso organizzato e prevedibile.
Susan Oyama
Le risorse per lo sviluppo includono non soltanto i geni, ma la macchina cellulare necessaria al loro funzionamento, il sistema riproduttivo materno, le cure parentali, le interazioni di cospecifici e, nel caso delle specie a maggiore psichismo, la cultura. Per dirla in maniera suggestiva: «i corpi e le menti sono costruiti, non trasmessi».
Ma se il dualismo nature/nurture è ingombrante e fonte di confusione, perché ha coperto l’intero cielo della biologia? Secondo l’autrice ciò è dovuto in parte alla storica mancanza di confronto tra gli studi sull’evoluzione e gli studi sullo sviluppo: l’embriologia è tuttora esclusa dalla sintesi neodarwiniana. Un altro elemento è sicuramente l’accettazione rigida del famoso dogma centrale della biologia di Crick (il flusso informativo procede dai geni alle proteine e mai viceversa), che affida al genoma l’intera questione. In realtà, se la gamma dei fenotipi possibili per ogni genotipo è frutto di tutte le possibili interazioni tra genotipo e ambiente, perché definire i «limiti di sviluppo» solo in termini genotipici? «l’ereditarietà non atomistica, ma sistemica e interattiva».
Naturalmente Oyama e compagni non stanno affatto proponendo di abbandonare il riduzionismo metodologico in favore di una visione generalistica, olistica finché si vuole ma inutilizzabile nella sua infinita complessità per fare, empiricamente, della scienza. Stanno semplicemente sgombrando il campo da equivoci e cercando di rendere i termini della questione non ambigui.
Ma, al di là del piacere della speculazione intellettuale di chi si occupa di evoluzione e di genetica, perché il punto di vista di Oyama è così interessante e «nuovo»? Che cosa cambierebbe nella vita quotidiana di tutti noi la DST venisse accolta dalla maggior parte della comunità scientifica?
Ecco, pensiamo allo sviluppo mentale del bambino, alla sua crescita: un seguace delle DST assegnerebbe al bambino un ruolo importante nell’influenzare le selezionare le proprie esperienze, ossia nel costruire il proprio «fenotipo». Un seguace dell’«imperialismo genetico», come Oyama chiama la visione biologista estrema, glielo assegnerebbe solo formalmente, attribuendo poi ogni azione causale ai suoi geni. E la questione farebbe una bella differenza per quanto riguarda la scelta dei metodi educativi, vero? E, di sicuro, un fautore della DST non sosterrebbe che l’intelligenza in è interamente o in grandissima parte ereditabile e pertanto è inutile «coltivarla» spendendo soldi in programmi scolastici e interventi di sostegno e recupero). L’adozione della DST renderebbe un po’ più difficile giustificare discorsi tipo «non sono io che sono razzista, sono loro che…»
Oyama affronta alcune applicazioni «sociali» del dualismo (e della DST) nella seconda parte del saggio, intitolata significativamente Guardando noi stessi. In particolare nel settimo capitolo, Essenzialismo, donne e guerra: reclamare troppo o troppo poco) l’autrice sostiene (a ragione) che punti di vista apparentemente inconciliabili come quelli dell’ala estrema della sociobiologia e del femminismo «radicale» convergono a causa della loro visione essenzialista, intendendo per essenzialismo «l’assunto che gli esseri umano possiedono a monte una natura universale, una natura più fondamentale di qualsiasi variazione possa esistere tra noi e che in un certo senso è sempre presente».
Chiarire che cosa significhino davvero per noi termini carichi di risonanze, speranze e timori come «natura» o «evidenza biologica» è fondamentale, Oyama con questo saggio coraggioso e coerente, ci suggerisce che possiamo fare a meno del vecchio pensiero dualistico ma restiamo in dovere di chiarire i termini che usiamo e il contesto di riferimento:
Poiché ognuno di noi in misura maggiore o minore influisce ed è influenzato dagli altri e poiché ci coinvolgiamo a vicenda nella formazione stessa in quanto persone le implicazioni morali delle nostre teorie (e le implicazioni teoriche delle nostre morali), come pure il contesto di atteggiamenti che le permea, meritano la nostra più seria attenzione.
Susan Oyama, L’occhio dell’evoluzione. Una visione sistematica della divisione tra biologia e cultura, Giovanni Fioriti editore, 2004, pp. 264, € 22,00, trad. S. Ferraresi, curatore ed. italiana T. Pievani
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