Non è particolarmente originale affermare che lo studio dell’evoluzione della congrega umana costituisca uno dei capitoli più affascinanti delle ricerche sulla storia della vita e, contemporaneamente, uno dei terreni più delicati e infuocati su cui si confrontano diverse concezioni del mondo. Ma è d’altra parte assolutamente vero ed è sufficiente ripercorrere con spirito critico la storia delle scoperte susseguitesi in paleoantropologia negli ultimi cento e cinquanta anni e soprattutto la storia delle interpretazioni di queste scoperte entusiasmanti per rendersi conto di quanto, come non mai nella scienza moderna, la ricerca delle nostre radici abbia dovuto fare i conti con la nostra difficoltà a guardarci serenamente allo specchio.
In effetti questo gradevole e accattivante volume può essere letto su almeno due distinti piani. Il primo è quello più precisamente «scientifico». La storia della paleoantropologia (e della parallela paleoprimatologia) è una storia di eventi, i ritrovamenti dei reperti fossili, ma soprattutto è una storia di problemi, di grandi problemi, che nascono dall’intreccio del dato di «campo» con le metodologie di laboratorio, con le nostre (e del ricercatore) specifiche aspettative e con la teoria biologica che supporta l’interpretazione dei dati.
Il capitolo delle scoperte di campo è sicuramente quello più romantico. Dalle ossa rinvenute nella valle del fiume Neander a quelle del pitecantropo di Giava, dal bambino di Taung a Lucy, la nostra storia è costellata di sorprese, peraltro col passar del tempo sempre meno casuali, che una dopo l’altra hanno impresso colpi possenti al volano della paleoantropologia. Sorprese che sono ben lungi dall’essere finite, anche se ogni volta sembra (al pubblico più che agli specialisti) di essere arrivati alla chiave di volta. Basti pensare al paleontologicamente recentissimo Homo floresensis, alto un metro, col volume cerebrale di circa un terzo di quello umano, ma incredibilmente umano e moderno per moltissimi aspetti, saltato fuori pochi anni fa da una grotta nell’isola di Flores a raccontarci una storia non certo perfettamente «a tono» con le convinzioni fino allora diffuse.
Si diceva poi del lavoro di laboratorio. Fino a pochi decenni fa lo studio dei fossili era centrato quasi esclusivamente sul piano dell’anatomia. Pur meritoria e sempre più sofisticata quest’area di indagine ha evidenziato sempre più i propri limiti. L’introduzione delle metodiche molecolari, con gli studi comparati degli acidi nucleici e delle proteine ha aperto finestre di luminosità inimmaginabile pochi anni fa sulle relazioni filetiche tra le specie e i gruppi di specie e promette, procedendo con l’affinamento delle tecniche, di fornire dati che permetteranno di proporre risposte ben più profonde di quelle formulate finora ai problemi della paleontologia. Non a caso gli autori insistono a più riprese sull’importanza di queste metodologie e ne enfatizzano i risultati.
Per quanto riguarda le teorie scientifiche vorrei qui far riferimento alle problematiche relative alla classificazione delle entità «ominoidi» tanto attuali quanto fossili. A proposito soprattutto delle ultime ricorderei, come aspetto collaterale ma emblematico, la gran fioritura di nomi che ha per decenni accompagnato qualunque osso venisse rinvenuto in campo. A un certo punto gli stessi paleontologi si trovarono nella necessità di porre rimedio alla diaspora nomenclatoriale, per potersi orientare finalmente tra i vari Parantropi, Sinantropi, Ziniantropi, Australopiteci, giavanensis, pekinensis, gracilis, robustus, faber, ergaster ecc. ecc. Ma per tornare all’asse del discorso, vorrei sottolineare come i nomi in zoologia non possano essere slegati dall’impianto classificatorio nel quale si situano le entità alle quali li attribuiamo. Per essere più chiaro: mezzo secolo fa il cladismo, proposto dall’entomologo tedesco Willi Hennig, pose tutti i sistematici di fronte a un problema preciso. Se classifichiamo due entità biologiche nello stesso gruppo immediatamente superiore (due specie nello stesso genere, ad esempio) significa che esse sono realmente sorelle in senso evolutivo, cioè derivanti dallo stesso antenato più prossimo, e non semplicemente che si assomigliano. Il discorso vale anche al contrario. Se raggiungiamo la ragionevole convinzione che due entità biologiche condividano, esse sole, un antenato comune non possiamo far finta di niente. Ci piaccia o no le dobbiamo classificare assieme. La portata di questo ragionamento che, critiche di merito a parte, ha finito per costringere, se non altro, i sistematici a un rigore fino allora inesistente, è enorme. Si potrebbero fare molti esempi, desunti dalla zoologia e dalla paleontologia, di casi in cui questa logica ha messo in crisi impianti classificatori che andavano bene solo per il «senso comune», ma torneremo sul problema tra poco relativamente agli ominoidi.
E qui veniamo al secondo livello di lettura del libro. È sempre vero che l’interpretazione dei dati «reali» da parte dei ricercatori passa anche attraverso l’ottica con cui il ricercatore stesso guarda la realtà. Non c’è da scandalizzarsi, nessuno è al di sopra delle parti, l’importante è essere sufficientemente onesti. Però, in particolare per quanto riguarda il problema dell’origine e delle parentele della specie umana, è evidente che l’idea del mondo dello specialista e le aspettative del contesto sociale nel quale i medesimi hanno operato e operano sono di grande peso nell’indirizzare lo sguardo e il pensiero degli antropologi.
Mamma gorilla con il suo piccolo |
Proviamo a questo punto a riannodare i fili di questi discorsi: è d’altra parte ciò che fa il libro di cui stiamo parlando, con l’ambizione di proporre una sintesi aggiornata dello stato delle ricerche. Oggi siamo giunti, tra le tante, a due importanti consapevolezze relative alla nostra storia evolutiva e alle parentele che ci legano ai nostri più prossimi cugini. La prima di queste consapevolezze è data dal fatto che la nostra storia non appare più come una marcia diretta verso il «meglio» (noi) dove a ogni gradino dell’evoluzione una specie raccoglie la fiaccola dell’umanizzazione da quella precedente per consegnarla, decine di migliaia di anni dopo, corredata di nuove acquisizioni evolutive (soprattutto legate alla bipedia, alla manualità e al volume cerebrale), alla specie successiva. La storia appare sempre più simile invece a un cespuglio dove molte entità hanno popolato un arco di tempo di alcuni milioni di anni, in parte convivendo, in parte succedendosi, mantenendosi o estinguendosi non già in virtù di meriti o demeriti assoluti (valutati al gran torneo dell’ominazione) ma in relazione ai proprii adattamenti specifici storicamente determinati. La seconda consapevolezza riguarda le nostre parentele: se andiamo a vedere quello che realmente ci separa dalle altre scimmie più prossime (i due scimpanzé, il gorilla e l’orango) ci rendiamo conto che le cose stanno forse un po’ diversamente da quello che abbiamo a lungo supposto. Noi siamo incontestabilmente diversi da tutti gli altri animali, grandi scimmie comprese, per via dell’incredibile sviluppo delle nostre facoltà intellettive. Da un punto di vista zoologico questo fatto indica che in noi si è avuta una veloce e pervasiva evoluzione di un carattere (o di un gruppo correlato di caratteri) ma questo non indica affatto una lontananza di parentela con le grandi scimmie, in particolare con gli scimpanzé. Esiste una classe di crostacei, per fare un esempio, i Rizocefali, in cui le condizioni di vita strettamente parassitaria sono legate all’evoluzione talmente spinta di determinati caratteri (negli adulti) da far sì che questi animali tutto sembrino meno che crostacei. Assomigliano per certi versi più che altro a funghi. Ma se si va a fondo il marchio crostaceo (in particolare nelle forme larvali) emerge con chiarezza e le parentele si svelano con precisione. Noi siamo andati molto avanti con il nostro cervello ma condividiamo con lo scimpanzé un antenato molto prossimo. In conseguenza di questa rinnovata visione alcuni ricercatori hanno di recente fatto il salto proponendo di inserire lo scimpanzé (alcuni anche il gorilla) nel genere Homo. Il confine tra il sì e il no può essere a questo punto demarcato su basi raffinate che probabilmente interessano più lo specialista che il pubblico. Ma ciò che conta è che forse un’altra rivoluzione copernicana si sta compiendo.
Gianfranco Biondi,
Olga Rickards
Il codice Darwin
Codice edizioni 2005,
pp. 188, € 15,00