Buback è un funzionario della Gestapo (Geheim Staat Polizei: Polizia segreta di Stato), inviato a Praga nella primavera del 1945. Nazionalsocialista coerente e a suo modo onesto, ha perso la moglie e le due figlie in un bombardamento e pratica attivamente quel tipo di rimozione selettiva che permise a molti tedeschi di nascondere a loro stessi che cosa stava accadendo in Europa Orientale. Proviene da una famiglia mista e, all’insaputa dei suoi colleghi della polizia praghese, parla correntemente la lingua ceca. Morava è un funzionario della polizia del Protettorato Ceco del Reich millenario. Un buon poliziotto, giovane e inevitabilmente ingenuo. Non si occupa di politica: gli basta essere un abile funzionario di polizia e riscuotere l’approvazione e la simpatia del suo capo.
Rypl è un criminale seriale, sessuofobo, impotente e animato da confusi propositi di purificazione del mondo. Uccide vedove con un lugubre e morboso rituale che rievoca il martirio di una santa.
La guerra volge al termine. Hitler si suicida e Doenitz lo sostituisce per condurre in porto la resa della Germania sconfitta e spezzata. Tra i tedeschi chi conserva un minimo di lucidità sa l’unica speranza è nella fuga verso l’esercito americano in marcia, anche se c’è qualcuno che culla impossibili speranze di carriera nella moribonda organizzazione del Reich a seguito alla morte del Führer.
Buback è stato delegato dalla Gestapo a collaborare con Morava nella caccia a Rypl che, nella Praga minacciata dalla guerra uccide traendo da ogni sua impresa maggiore considerazione e stima di sé. Nella situazione politica e militare che precipita la caccia al criminale diviene per il poliziotto ceco e quello tedesco un ragionevole scopo di vita. Buback comunque non fuggirebbe. Si è innamorato della favorita del suo capo e teme che il loro amore affannoso e senza speranza non sopravviverebbe a una separazione.
La ferocia rituale di Rypl diviene il simbolo della patologia ideologica che ha lacerato il mondo in quegli anni. Rypl uccide senza provare effettivo rancore per le sue vittime. Lo fa perché è giusto farlo e trae soddisfazione e orgoglio nel conservare ordine ed equilibrio nelle sue autopsie su corpi vivi di donne.
In Buback la comprensione cresce e si radica, l’amore per Grete, la solidarietà con il collega ceco, l’orrore per Rypl, la guerra che volge alla fine risvegliano in lui emozioni, sentimenti, orrore. L’Oberkriminalrat Buback rimane al suo posto, confuso, colpevole ma stranamente sollevato dalla piena coscienza della sua colpa.
La caduta del Protettorato scatena il caos in città, i poteri si moltiplicano ed entrano in conflitto. L’Armata Rossa è alle porte, ci sono le prime feroci vendette, la popolazione di lingua tedesca viene rastrellata e protetta dalle autorità del governo provvisorio ma come avviene in tutta Europa vi sono gruppi di sciacalli e criminali che approfittano della situazione. L’epilogo sacrificale chiude senza sciogliere i dilemmi nati dallo sviluppo del testo, anzi rilanciandoli e complicandoli.
Pavel Kohout, drammaturgo, poeta e narratore è fuggito dalla ex-Cecoslovacchia nel 1979. È stato un comunista convinto e poi uno dei fondatori di Charta 77. Il suo L’assassino delle vedove è probabilmente, tra le altre cose, un tentativo di ridefinire a se stesso e al lettore il ruolo delle ideologie di salvezza e redenzione che per secoli hanno insanguinato l’Europa. Il nome di Jan Hus, martire della Riforma boema, ritorna più volte nel libro a tracciare un parallelo tra l’Europa del xv secolo, insanguinata dalle guerre di religione, e quella del xx secolo, devastata da una guerra nata dal fiorire delle ideologie totalitarie di eugenetica e riscatto dell’umanità.
Non a caso Rypl è un cattolico osservante che, verso il termine del libro si anima all’idea di trasformare le sue solitarie orge di sangue in autodafé.
Buback. tradito dal nazionalsocialismo del quale si sforzava di non vedere i limiti e le aberrazioni, anche quando misura fino in fondo il suo errore non riesce a liberarsi del crisma del sacrificio e del peccato. E persino Morava, uomo semplice, non resiste al fascino dell’ideologia come modello di vita e di virtù.
Un libro scomodo, doloroso. Non certo nello stile, nel racconto dei personaggi e nel succedersi degli eventi, guidati con perfetta sicurezza, ma nel suo affrontare, armato di uno humour a tratti addirittura macabro, grandi dilemmi etici senza concedere ai suoi personaggi o al lettore facili vie di fuga. Al termine del libro la liberazione di Praga, sacrificata a Yalta al regime staliniano, sarà soltanto il primo passo di una nuova oppressione consumata nel nome di un sogno ormai sfiorito. Attoniti, i suoi personaggi prendono atto che il tempo non passa e si preparano a ripetere i medesimi sterili errori e a raccontare a se stessi nuove bugie, in fondo poco diverse dalle vecchie.
Pavel Kohout, L’Assassino delle vedove, Fazi 2003, pp. 447, € 18,00, Ed. or. 1995, trad. di Letizia Kostner
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