«Nel nostro inconscio collettivo – o nell’ideologia dominante – si è insinuata una coscienza ferita che vive sotto il segno dell’emergenza» dicono Miguel Benasayag e Gérard Schmit, autori di L’epoca delle passioni tristi (Feltrinelli, 2004). Ma che cosa accade, si chiedono,
quando la crisi non è più l’eccezione alla regola ma è essa stessa la regola nella nostra società? La crisi nella crisi…
La crisi individuale psicologia che spinge gli utenti a rivolgersi ai servizi sociopsicopedagogici pubblici o agli psicoterapeuti privati (francesi nella fattispecie) è, secondo gli autori del saggio, inscritta in una crisi più generale della società e di una cultura il cui segno profondo è il «cambiamento di segno del futuro».
L’Occidente ha fondato i suoi sogni di avvenire sulla convinzione che la storia dell’umanità sia inevitabilmente una storia di progresso.
Questa fiducia in un futuro migliore oggi si sta perdendo. Gli occidentale, e in particolare le ultime generazioni, sono stati scippati del futuro-promessa e costretti a vivere sotto il segno di un futuro-minaccia: recessione economica, povertà, disoccupazione, inquinamento, conflitti, guerre. Questo è il nostro orizzonte, un cielo basso che forse ci siamo costruiti con le nostre stesse mani o, più credibilmente, abbiamo consentito che altri costruissero per noi. Ora la crisi di fiducia prende il colore della paura del futuro, appunto o dell’Altro, lontano o vicino che sia. I giovani soprattutto patiscono gli effetti peggiori perché sono privi delle guide adulte, i genitori, educatori, e insegnanti che, in nome di un malinteso egualitarismo rifiutano nelle loro relazioni con i giovani il peso dell’«autorità», che non è autoritarismo fine a se stesso ma è il semplice coraggio di dire «mi devi ascoltare e rispettare semplicemente perché io sono responsabile di questa relazione». La relazione tra adulti e giovani (figli, alunni, apprendisti, studenti) non è e non può essere paritaria proprio perché uno dei due contraenti e uno solo è responsabile (con tutti i limiti umani del caso) di entrambi. È ritenuto tale dalla legge e dal patto implicito fra i due. Se il principio di responsabilità-autorità viene a cadere, non resta che l’autoritarismo, nelle sue due facce: quella violenta dell’arbitrio, che si impone con la forza, e quella accattivante della seduzione che induce ad «acquistare» ogni cosa, dai prodotti alle ideologie, alle illusioni.
Venuta meno la certezza, o almeno la speranza, del futuro – e quindi il desiderio di raggiungerlo – ci resta solo la sopravvivenza: sopravvivere al presente:
il desiderio è, senza dubbio, ciò che pone in relazione con gli altri […] crea legami, mentre l’educazione finalizzata alla sopravvivenza implica che «ci si salva da soli».
Nella sopravvivenza, prima o poi, si è «contro gli altri».
L’educazione dei nostri figli non è più un invito a desiderare il mondo: si educa in funzione di una minaccia, si insegna a temere il mondo, a uscire indenni dai pericolo incombenti.
Oggi la logica aziendale che ha pervaso anche il mondo dei servizi pubblici porta a ragionare quasi esclusivamente in termini di logica economica; e strategica: da diritto dei cittadini la Sanità si sta trasformando in impresa e lo stesso vale per l’istruzione; il sapere deve essere utile, spendibile sul mercato del lavoro e così diventa gerarchico, come le professioni e un artigiano o un muratore non sono persone che potrebbero anche trarre soddisfazione dal loro lavoro, ma solo dei falliti che non hanno perso nella corsa al successo e alla ricchezza. Dalla psichiatria (e dalla medicina) della diagnosi e dell’ascolto siamo passati a quella della classificazione e della prescrizione farmacologica: ad ogni sintomo corrisponde una malattia e una cura specifica, un’ottica che va a tutto vantaggio delle multinazionali del farmaco, che vanifica le competenze anche umane degli operatori sanitari ma li sgrava di qualunque responsabilità: ho individuato la tua malattia, ti ho prescritto un farmaco, dunque ti ho curato.
Abbiamo sostituito al mondo la sua rappresentazione semplificata, un modello, un’etichetta. Eppure
il riconoscimento della persona […] non dovrebbe riguardare solo le persone che hanno problemi ma anche quelle che si considerano “normali”, affinché possano finalmente disfarsi, con loro grande sollievo, della terribile e dolorosa etichetta di “normale”, per poter assumere e abitare le molteplici dimensioni della fragilità.
Soltanto se è senza etichette l’io resta una possibilità, un «destino» (non una fatalità) unico, il nostro, fatto di scelte e di legami, di sfide e di limiti da accettare, che ogni giorno costruiamo.
Il punto di partenza degli autori (non ridurre alla norma il paziente ma aiutarlo a sviluppare la propria molteplicità) somiglia significativamente a un motto di Oliver Sax: «Non chiedere che malattia ha la persona, ma piuttosto che persona ha la malattia».
Miguel Benasayag e Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, 2004, 2013, 9ª ed., ed. or. 2003, pp. 129, € 8,00, trad. Eleonora Missana
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