La fantascienza non è proprio morta, forse.
O quantomeno certe forme tipiche della sf, come la proiezione nel futuro di un problema sociale, hanno ancora una loro possibile utilizzo. Che poi questo sia anche riuscito su un piano estetico e narrativo… beh, non chiediamo troppo.
Massimo Fini, saggista e giornalista in Il Dio Thoth (Marsilio) immagina un mondo futuro nel quale la comunicazione costituisce un bene essenziale, fondamentale e irrinunciabile, tanto che esiste un unico, colossale fornitore di informazioni: Teleworld, che ha, peraltro, definitivamente eliminato il problema del diverso schieramente politico.
In una terra depauperata di alberi, animali, una terra meccanizzata e fortemente urbanizzata, il protagonista, un megasfigato rappresentato come tale, è testimone di un paio di episodi di criminalità che Teleworld ignora. Questo lo preoccupa non poco, tanto che si chiede perché TW selezioni così misteriosamente le notizie. Ne ha ben donde, il nostro Matteo, vista che lui stesso lavora per TW e come tutti gli altri ogni giorno si sorbetta il fervorino della Grande Mousse il megadirettore dell’unica e ultima major. Al di fuori del mondo perfetto della Grande Mousse – inevitabilmente un cocainomane incallito – vivono soltanto gli UnInformed che rifiutano le notizie e vivono perfettamente e felicemente non informati.
La situazione di Matteo giunge infine a un’empasse senza uscita e a pagina 146 (su 188) il protagonista si suicida.
E qui il romanzo va in panne. A Fini non resta altro che sceneggiare (in modo un po’ affrettato) la Ragnarök del megamostro tele-radio-internautico e la conseguente fine del mondo così-come-lo-conosciamo. Ultima apparizione per il Dio Thoth (il dio della scrittura), nei panni di un semplice contadino prefeudale, che inciampa nella rovina della metropoli di TW e giunge a concepire – sia pure vagamente – il possibile ritorno di una società della comunicazione…
Che, potrebbe essere la nostra.
Forse.
Una lettura deludente, ahimé.
Dove tutti i personaggi sono chiamati a occupare un posto predefinito dall’autore, che progetta e mette in scena una denuncia della situazione della comunicazione in Italia e non solo. La fantascienza è un semplice specchio delle illusioni, in sostanza, uno riflesso rovesciato e ingrandito nel quale si potranno riconoscere senza difficoltà i Rupert Murdoch ma anche i Berlusconi, la redazione di Repubblica o Radio DJ. Al di fuori della comunicazione definitiva di un unico gigantesco media non rimane nulla, ovvero ciò che non viene raccontato dal Media – come i delitti ai quali Matteo ha assistito – non esiste. Come è scritto sulla torre di Teleworld: «Il fatto è la notizia e la notizia è il fatto».
Anche il romanzo, viene da aggiungere, è tutta un’altra cosa.
Può essere una composizione dove il protagonista NON MUORE a 3/4 del libro piantando lettore e romanzo nelle peste, dove non si inventa – sia pure con tutte le migliori intenzioni – un mondo in ultima analisi ben poco credibile per poter affermare ad alta voce che cosa minaccia – e forse ha già divorato – la democrazia.
Ho una certa (confusa) simpatia per il buon Massimo Fini, perseguitato da sinistra e da destra, Cyrano, Don Chisciotte e Bastian Contrario a oltranza, ma questo romanzo-che-non-è-un -romanzo non funziona. Al massimo provoca qualche superficiale cenno di accordo, qualcosa di molto diverso dalla partecipazione convinta e appassionata creata da una buona narrativa.
Succede.
Probabile che il mio problema sia che leggo e conosco la fantascienza.
Massimo Fini, Il Dio Toth
Marsilio, 2009, pp. 188, € 15,00
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