[Si conclude qui un rapido esame dell’ultimo capitolo del romanzo Dracula di Bram Stoker, dal testo dell’incontro finale del ciclo TuttoDracula tenuto presso la Libera Università dell’Immaginario di Torino il 21 marzo scorso. Per la parte precedente si rinvia qui. Qui invece un po’ di bilancio al termine dell’esperienza del corso.]
Attraverso le fiamme dell’inferno
(III PARTE)
6 novembre
Riprende a questo punto il diario di Mina, che procederà fino alla fine del capitolo; e inizia rammentando come fosse “pomeriggio tardi [“It was late in the afternoon” – del giorno prima, 5 novembre] quando il professore e io ci siamo avviati verso oriente da dove sapevo che Jonathan stava arrivando” – Jonathan, ma anche Dracula.
Ormai Mina e Van Helsing sono carichi di tutte le masserizie: i cavalli (rammentiamolo) sono morti, e se coperte e pellicce risultano necessarie a far fronte al gelo transilvano, in quel luogo lontano da qualunque insediamento umano occorre portare anche un po’ di viveri. Così i due non procedono molto in fretta, nonostante la forte discesa della strada; e dopo circa un miglio di marcia, Mina deve sedere. “Poi ci siamo voltati indietro e abbiamo visto la sagoma del Castello di Dracula stagliarsi nettamente contro il cielo; eravamo scesi così tanto lungo il colle su cui si trovava che da quel punto di vista la prospettiva dei Carpazi sembrava più bassa all’orizzonte [Saba Sardi: “eravamo infatti ai piedi del colle, così erto sopra di noi, che la cerchia dei Carpazi sembrava assai più bassa di esso”]. Abbiamo visto il castello in tutta la sua imponenza, troneggiante a circa mille piedi sul bordo di un ripido precipizio, e apparentemente molto staccato dalle pareti delle montagne che lo circondavano da ogni lato. C’era in quel posto qualcosa di selvaggio e di inquietante. Sentivamo un lontano ululare di lupi. Erano molto distanti, ma quell’urlio, pur attutito dalla neve che cadeva, dava un senso di terrore” [“Then we looked back and saw where the clear line of Dracula’s castle cut the sky. For we were so deep under the hill whereon it was set that the angle of perspective of the Carpathian mountains was far below it. We saw it in all its grandeur, perched a thousand feet on the summit of a sheer precipice, and with seemingly a great gap between it and the steep of the adjacent mountain on any side. There was something wild and uncanny about the place. We could hear the distant howling of wolves. They were far off, but the sound, even though coming muffled through the deadening snowfall, was full of terror”]”. Con questa veduta espressa nel linguaggio gotico del Sublime il castello maledetto riappare in chiusura di romanzo: un arcicastello erede – lo dicevamo all’inizio di queste letture – di quelli d’Otranto, di Udolpho e via via dei gotici di tutto l’Ottocento, e che prefigura quello di Kafka. Una descrizione evidentemente non naturalistica: è abbastanza ovvio che, nonostante ogni tentativo di identificazione, quest’arcicastello aggrappato a un’arcimontagna svettante sui Carpazi appartenga alle geografia dell’anima e dell’immaginario. Certo, Van Helsing ne ha bloccati gli ingressi – con un’operazione che qui rivela la sua dignità mitologica al di là di qualunque plausibilità concreta; ma esso sovrasta ancora l’orizzonte con la sua ombra malefica, e vedremo in prosieguo quale significato avesse nel manoscritto originale del romanzo questo soffermarsi sul suo profilo minaccioso circonfuso da cori di lupi.
Se la strada continua a scendere velata dal calar della neve, Van Helsing si guarda attorno e a un certo punto fa cenno a Mina di raggiungerlo: ha trovato un riparo, un punto strategico dove essere “meno esposti in caso di attacco” dei lupi. È una “una specie di tana naturale in una roccia, con un’entrata che era come una porta d’ingresso tra due macigni” (“a sort of natural hollow in a rock, with an entrance like a doorway between two boulders”), e il professore conduce Mina per mano all’interno, spiegando che lì sarà al riparo e lui potrà fronteggiare eventuali lupi uno per volta.
Poi, preparatole un giaciglio di pellicce, insiste perché mangi qualcosa. “Ma io non riuscivo a mangiare; anche solo l’idea di farlo mi provocava un senso di disgusto, e anche se mi sarebbe piaciuto compiacerlo, proprio non ce la facevo”: il metabolismo di Mina è ormai tanto aggredito dal male vampiresco da inibirle l’assunzione di cibo – un segnale niente affatto tranquillizzante, che angustia Van Helsing ma non lo spinge a insistere. Ricordiamo peraltro che l’idea di un’alimentazione solo ematica, per quanto già emersa qui e là in testi dell’Ottocento, trova la sua codificazione in Stoker: Ruthven o Carmilla non vengono riconosciuti come vampiri da questo dettaglio, ed evidentemente mangiano come i viventi. Un dettaglio che d’altra parte richiama piuttosto in termini un po’ liberi l’alimentazione dei vampiri del folklore, assetati di un sangue che si confonde in termini non naturalistici, ma vaghi e mitizzati con il fluido vitale.
Poi il professore sale sulla cima della roccia, inizia a scrutare l’orizzonte e all’improvviso grida: “Look! Madam Mina, look! Look!”, per cui la giovane scatta e si arrampica accanto a lui che le passa il binocolo indicando un punto in distanza – anche se ormai la neve turbina fitta, e si è levato un forte vento. Ma ogni tanto il biancore si dirada, e la postazione elevata permette allora “to see a great distance”: e se è legittimo domandarsi come ciò sia possibile, visto che siamo nel tardo pomeriggio del 5 novembre – quindi in un momento in cui il calar della luce non facilita la visione – dobbiamo ancora una volta non perdere di vista il contesto fantastico, visionario della scena. Come a Whitby da un lato all’altro della cittadina, come nei giardini di Londra a occhieggiare il lavoro del fabbro sulla serratura a Piccadilly, così anche qui la vista a distanza (ovviamente grazie al binocolo) è anzitutto una comoda soluzione narrativa – che non pretende il realismo, ma insieme evoca dimensioni ulteriori. La visione col binocolo richiama così quel senso del lontano nello spazio e nell’alienità, che però è reso accessibile dal gioco di lenti della narrazione a più voci, lungo tutto l’arco del romanzo; richiama la dimensione stilizzata ed esemplare di una scena di battaglia, speculare a quelle antiche narrate dal Conte, distanti l’una come le altre dal lettore che le coglie attraverso occhi altrui; richiama in qualche modo l’orizzonte escatologico su cui si celebra la battaglia finale tra Bene e Male. Per inciso ricordiamo che al cap. 7 sui fatti di Whitby, per la tecnica di allungamento della visuale attraverso più livelli di descrizione una nell’altra (il lettore vedeva con gli occhi di Mina che vedeva con quelli del cronista) si era parlato di descrizione a cannocchiale: qui la suggestione è diversa, ma sempre nel segno di una visione attraverso più lenti.
Mina vede così in distanza serpeggiare nella distesa bianca il fiume nero; e “Dritto di fronte a noi e non tanto lontano – anzi, così vicino che mi sono meravigliata che non lo avessimo ancora visto – un gruppo di uomini a cavallo che veniva di fretta nella nostra direzione. Nel bel mezzo del gruppo vi era un carro, una sorta di carriaggio lungo e basso, usato in campagna come mezzo di trasporto, che sbandava da una parte all’altra, come un cane che agita la coda, a ogni irregolarità della strada. Stagliati com’erano sullo sfondo della neve, ho potuto vedere dagli abiti che indossavano che doveva trattarsi di contadini o di un qualche genere di zingari.
Sul carro si trovava una grande cassa squadrata. Come l’ho vista il cuore mi è balzato in gola, perché ho sentito che tutto stava arrivando alla sua conclusione. La sera ormai si approssimava, e io sapevo bene che quella Cosa, fino a quel momento ancora imprigionata, avrebbe ritrovato la sua libertà e, con le molte forme che poteva assumere, sfuggire agli inseguitori [“On the cart was a great square chest. My heart leaped as I saw it, for I felt that the end was coming. The evening was now drawing close, and well I knew that at sunset the Thing, which was till then imprisoned there, would take new freedom and could in any of many forms elude pursuit” – e la suggestione di un’entità indicibile e reificata, the Thing, “fino a quel momento ancora imprigionata, [che] avrebbe ritrovato la sua libertà” non è priva di echi escatologici, si pensi in particolare al diavolo che, incatenato per mille anni, ritorna temporaneamente libero per l’ultima battaglia, Apocalisse 20, 7]. Piena di paura, mi sono voltata verso il professore, ma con mia costernazione ho visto che non era più lì. Un istante dopo l’ho visto sotto di me. Attorno alla roccia aveva tracciato un cerchio, simile a quello che ci aveva protetti la notte prima. Una volta formato il cerchio, è tornato vicino a me, e mi ha detto:
‘Almeno qui sarete voi al sicuro da lui!’”
Gli echi cifrati in questo brano possono essere tanti, neppure tutti necessariamente coscienti da parte dell’autore: Mina come Andromeda, esposta sulla roccia al mostro e dunque da difendere; Van Helsing come Merlino, che traccia cerchi per includere ed escludere magicamente (ci è ignoto peraltro se il cerchio inibisca anche la potenziale aggressività di Mina e gli eventuali ordini telepatici da parte del Conte)… Ma soprattutto c’è il carro in arrivo, in fuga ma con baldanza trionfale, che reca la “great square chest”: l’anti-Arca dell’Alleanza, la bara piena dell’Antirisorto, il contrario del sepolcro vuoto pasquale.
Poi il professore riprende il binocolo e profittando di un momento in cui la neve si dirada esamina la situazione, considerando che gli uomini del carro stanno “venendo di corsa, e frustano i cavalli, facendoli andare più veloci che possono”. Per poi aggiungere atono: “Corrono per via del tramonto! Potrebbe essere troppo tardi per noi. Sia fatta la volontà di Dio!”: ed è evidente che l’accesso al castello o la stessa difesa del cerchio sacro sono interdetti al vampiro ma non ai suoi uomini, che potrebbero rimuovere i bastioni apotropaici. Poi l’immagine è oscurata da raffiche di tormenta, ma poco dopo Van Helsing può vedere di nuovo e grida: “Guardate! Guardate! Guardate! Visto? Due uomini a cavallo li seguono di corsa, risalendo da sud. Devono essere Quincey e John. Prendete il binocolo. Guardate, prima che la neve ci nasconda tutto!” Mina allora guarda, sa che Jonathan non è tra loro ma sa anche che non è lontano: e a quel punto da nord scorge arrivare a rotta di collo altri due cavalieri, ovviamente Jonathan e Arthur. Se gli inseguimenti evocati finora ci richiamavano come detto ai grandi romanzi dell’immaginario ottocentesco (il battello de Il segno dei quattro, la slitta di Frankenstein), ora il richiamo è all’epica mistico-cavalleresca (il mezzo con cui ora lo squadra si muove non appare accidentale), forse ai santi teratomachi delle icone che combattono a cavallo contro il male, e comunque alle battaglie dell’Apocalisse. Su questo estremo orizzonte dal sapore escatologico, Stoker convoca così da direzioni diverse (due “from the south”, due “on the north side”) gli eroi delle canzoni di gesta, i giovani cavalieri che affrontano nell’Ultima Battaglia il drago e i popoli-mostri – quattro cavalieri come quelli dell’ultimo libro biblico.
Mina lo comunica al professore, che urla “di gioia come un ragazzino”, guarda anche lui finché di nuovo la neve non oscura la vista, poi afferra il proprio Winchester (ecco qui l’arma patrocinata da Quincey) e lo appoggia contro uno dei massi di accesso al loro riparo: “Stanno essi convergendo tutti […] Quando sarà il momento prenderemo noi gli zingari da tutti i lati”. Ma anche Mina prende il revolver, perché nel frattempo l’ululato dei lupi è sempre più vicino, e – scrutando col binocolo non appena la neve lo permette – si accorgono che “si stanno radunando, pronti alla caccia”. Viene da pensare che Stoker, che tanto amava gli Stati Uniti e che in Quincey potrebbe aver raffigurato Buffalo Bill che sicuramente l’aveva colpito (all’anagrafe William Frederick Cody, il Nostro l’aveva conosciuto in compagnia dell’amico-principale Irving – d’altra parte negli anni Novanta il Wild West Show di Buffalo Bill era notissimo per i tour nel Vecchio Mondo), stia qui costruendo una sorta di scatenata scena western – o piuttosto, si passi il termine, eastern.
Nel frattempo, Mina ha notato, “Era strano vedere la neve scendere in così grandi fiocchi vicino a noi, e – al di là di quella – il sole splendere sempre più luminoso a mano a mano che calava sul profilo delle montagne all’orizzonte”: in precedenza si è detto che era il tardo pomeriggio, ora è passato un po’ di tempo, ma vedremo che questo calare del sole si protrae quasi al di là dei ritmi dell’orologio, quasi mitologicamente. Possiamo intendere la nozione di tardo pomeriggio in modi diversi, ma qui ciò che rileva è ancora una volta il significato di quel tramonto: la corsa contro il tempo, mostra Stoker ai lettori, rischia di risolversi a favore del vampiro, e “Ogni istante pareva un secolo in quell’attesa”. Il vento si è fatto violento, e a tratti con raffiche furiose impedisce di vedere a un braccio di distanza, a tratti invece ripulisce l’aria permettendo la visione. “Negli ultimi tempi ci eravamo così abituati a tener conto delle albe e dei tramonti, che sapevamo con buona approssimazione quando arrivava il momento; e anche adesso capivamo che fra poco il sole sarebbe tramontato” – ma poi Stoker, per accentuare l’effetto-tensione, dilata il tempo. E così troviamo Mina a considerare come fosse difficile credere, orologi alla mano, di aver trascorso meno di un’ora (“hard to believe that by our watches it was less than an hour that we waited”) nel loro rifugio “prima che i vari gruppi che stavano convergendo arrivassero vicino a noi”. Il vento, ora “più decisamente da nord” è aumentato allontanando le nubi cariche di neve, così che Mina e il professore possono distinguere chiaramente inseguitori e inseguiti – questi ultimi in apparenza disinteressati all’incalzare dei primi, se non con l’affrettarsi “raddoppiando la velocità a mano a mano che il sole scendeva sempre più basso sulle creste delle montagne”. Una dilatazione del tempo, si è detto, funzionale alla suspence: dove però la contrapposizione tra questo tempo cosmico (il calare del sole) rallentato quasi surrealmente e l’insistita, anzi accresciuta rapidità del movimento umano – che però non ha ancora portato i due gruppi davanti a Mina – finisce con l’avere qualcosa a che fare con i paradossi del tempo che il vampiro rovescia addosso a quanti entrano in contatto con lui.
Gli uomini col carro si fanno sempre più vicini, Mina e il professore invisibili al riparo delle rocce tengono pronte le armi – e lei capisce che Van Helsing non intende farli passare. Poi sente intimare “Alt!” da due voci diverse, di Jonathan teso e di Quincey calmo e risoluto – attenzione perché saranno questi due personaggi ad avere ruolo chiave nella distruzione di Dracula; e gli zingari, pur non intendendone la lingua, devono comprendere tono e significato. Al punto che si fermano e le due coppie di cavalieri piombano loro addosso sui due lati.
“Il capo degli zingari, un uomo dal fisico davvero stupendo, che montava il suo cavallo come un centauro [“a splendid looking fellow who sat his horse like a centaur” – dove l’osservazione sull’avvenenza del capo zingaro, un po’ curiosa a considerare il punto drammatico della vicenda in cui ci troviamo, può spiegarsi ancora una volta attraverso le suggestioni indotte di tipo mitologico, per cui il capo gypsy è richiamato ai pericolosi uomini-cavallo della mitologia] ha fatto un gesto come a sospingerli indietro, e con voce tonante ha ordinato ai suoi compagni di continuare”. Quelli sferzano dunque i cavalli che balzano avanti, ma i giovani cavalieri puntano loro addosso i Winchester fermandoli – e in quel momento da dietro la roccia anche Van Helsing e Mina si alzano prendendoli di mira. Circondati, gli zingari bloccano i cavalli, ma a un ordine del capo estraggono a loro volta le armi; poi il centauro, “con un brusco strappo alle redini, ha gettato il suo cavallo davanti a tutti, e indicando prima il sole – ora molto vicino alla cresta delle montagne – e poi il castello, ha detto qualcosa che io non ho capito”. A quel punto i quattro crociati smontano (non è chiaro perché) e si lanciano contro il carro, attorno al quale, a un nuovo comando del capo, gli zingari si stringono in un movimento confuso. Mina ammette che “l’ardore della battaglia” deve far prevalere anche in lei il “desiderio selvaggio e insistente di fare qualcosa” su ogni possibile timore per Jonathan.
Questi da un lato e Quincey dall’altro cercano di aprirsi un varco, e né le lame dei nemici né l’ululato dei lupi alle spalle mostrano d’intimidirli: davanti alla fermezza delle intenzioni di Jonathan gli stessi zingari si fanno da parte e lui balza sul carro, poi, “con una forza che pareva incredibile, ha sollevato la grande cassa e l’ha scagliata oltre le ruote, per terra” (“and with a strength which seemed incredible, raised the great box, and flung it over the wheel to the ground”). Qui ovviamente, torniamo a dirlo, siamo nel mito: consideriamo che nella cassa oltre a Dracula c’è una generosa quantità di terra transilvana, per cui in teoria solo la forza di un Ercole, di un angelo o di un vampiro come il Conte permetterebbe una simile performance. Ma, appunto, questa scena non appartiene a una plausibilità realistica ma a un fantastico fortemente connotato di suggestioni mitico-religiose, e anche un povero avvocato neuropatico può ricevere la forza angelica per schiantare a terra il catafalco blasfemo.
Nel frattempo, dall’altro lato del carro, Quincey deve “impiegare tutta la sua forza per sfondare il cerchio degli tzigani”: e Mina, pur fissando senza fiato il marito, coglie con la coda dell’occhio l’americano farsi strada tra i pugnali avversari. Ai quali fa fronte “con il suo grande pugnale ricurvo”: “with his great bowie knife”, cioè quel bowie che prende nome da uno degli eroi di Fort Alamo, appunto Jim Bowie (1796-1836, in particolare a seguito della celebre rissa, nota come Sandbar Fight, 1827, che l’aveva visto trionfare con una simile arma contro avversari armati di coltello e stocco nei pressi di Natchez, Mississippi). Ma solo quando Quincey balza accanto a Jonathan – che ora è saltato giù dal carro – ed entrambi con la forza della disperazione attaccano coi coltelli dalle opposte estremità il coperchio della cassa per schiodarlo, Mina si accorge che l’amico americano tiene “la mano sinistra premuta sul fianco, e che il sangue gli scorreva tra le dita” (“his left hand he was clutching at his side, and that the blood was spurting through his fingers”). Si noti che quello che Coppola renderà, con una soluzione narrativa peraltro felicemente fluida, come un vero e proprio scontro armato al termine di uno scatenato inseguimento, qui resta qualcosa di molto più ambiguo e incerto, in un contesto di fortissima tensione che pare faticare a risolversi in un senso o nell’altro.
“Sotto lo sforzo dei due uomini, il coperchio ha cominciato a cedere, i chiodi venivano strappati con un breve stridio, fino a che il coperchio della cassa non si è rovesciato”; e a quel punto gli zingari, sotto le armi puntate di Arthur e Jack, rinunciano a resistere. Ma ormai il sole era “quasi scomparso dietro le cime dei monti, e l’ombra dei contendenti si allungava sul terreno innevato [“The sun was almost down on the mountain tops, and the shadows of the whole group fell upon the snow”]. Ho visto il Conte giacere nella cassa sul terriccio, che con la brusca caduta dal carro lo aveva in parte coperto. Era mortalmente pallido, proprio come una statua di cera, e gli occhi rossi ardevano di quell’orribile volontà di vendetta che io conoscevo fin troppo bene [“I saw the Count lying within the box upon the earth, some of which the rude falling from the cart had scattered over him. He was deathly pale, just like a waxen image, and the red eyes glared with the horrible vindictive look which I knew so well”]”. C’è qui il solito problema di come possa Mina cogliere tutto questo dalla sua postazione non così prossima, ma non importa. Mentre si noti l’espressione utilizzata: quella che ha davanti è una “waxen image” – nel romanzo il termine si trova solo qui (anche se l’aggettivo “waxen” è citato quattro volte, tre in riferimento a Dracula) – una statua di cera come quelle che, Stoker sapeva bene, riempivano il Madame Tussauds, in particolare quelle della sua Chamber of Horrors; quelle che ispireranno poi tanti film horror e che passando dai baracconi dell’espressionismo agli altri molto più popolari della Universal renderanno Dracula un mascherone da macedonia all monsters, attraverso una lunga trasformazione nell’immaginario – qui idealmente prefigurata in un’immagine tra il funerario e il babau da spettacolo. Che però nell’immagine vera/finta di cera trattiene una genuina misura di allarme.
“Mentre lo guardavo, i suoi occhi hanno colto la visione del sole che tramontava, e l’espressione di odio del suo volto si è tramutata in un’espressione di trionfo.
Ma proprio in quell’istante, ecco il colpo lampeggiante del grande pugnale di Jonathan. Io ho urlato, vedendo la lama squarciargli la gola; mentre il signor Morris gli affondava nel cuore il suo coltello ricurvo” (“As I looked, the eyes saw the sinking sun, and the look of hate in them turned to triumph.
But, on the instant, came the sweep and flash of Jonathan’s great knife. I shrieked as I saw it shear through the throat. Whilst at the same moment Mr. Morris’s bowie knife plunged into the heart”).
“Io ho urlato”, dice Mina, e non ci spiega perché: se quel grido sia di istintivo orrore, di liberazione emotiva o invece suscitato dall’impatto nel suo stesso corpo di quel doppio colpo di lama per la sua peculiare comunione con Dracula. Il drago è trafitto dai cavalieri, la principessa grida: “I shrieked”, è la sua espressione – e Max Schreck, per un bizzarro caso, sarà l’interprete del draculesco Orlok nel Nosferatu di Murnau, erede dei lutti del primo conflitto mondiale contro gli imperi del passato e già vaticinante le tirannie non-morte dei decenni successivi.
Ma quasi a prefigurare l’orizzonte di conflitti del secolo in arrivo, nel romanzo il tiranno del predatorio Oriente e in fondo del Vecchio Mondo è distrutto dalle armi concordi di un eroe inglese e di un americano: un respiro internazionalistico delle teratomachie stokeriane poi per esempio riproposto al termine dell’ultima sua opera, The Lair of the White Worm, 1911, con l’unione tra le componenti sane dell’Impero, l’esule dall’Australia Adam e la mezzosangue anglo-birmana Mimi, dopo la distruzione dell’ennesima vamp venuta dal passato.
“È stato come un miracolo; sotto i nostri occhi, e quasi nel breve tempo di un respiro, l’intero corpo del Conte si è dissolto in polvere ed è sparito alla nostra vista.
Mi sarà di sollievo per tutta la vita poter ricordare che proprio in quel momento di ultima dissoluzione, nel suo volto è comparsa un’espressione di pace che mai avrei creduto potervi albergare.
Il Castello di Dracula si stagliava ora contro il cielo rosso, e ogni pietra dei suoi spalti diroccati si disegnava nella luce del sole cadente” (“It was like a miracle, but before our very eyes, and almost in the drawing of a breath, the whole body crumbled into dust and passed from our sight.
I shall be glad as long as I live that even in that moment of final dissolution, there was in the face a look of peace, such as I never could have imagined might have rested there.
The Castle of Dracula now stood out against the red sky, and every stone of its broken battlements was articulated against the light of the setting sun.”).
Se per le vampire, con quel po’ di sadismo che influenzerà il cinema, la distruzione resta una procedura dai risvolti conturbanti, qui le modalità – una lama nella gola, l’altra nel cuore – permettono una distruzione così rapida che qualche interprete immaginerà che Dracula sia riuscito nell’ennesima trasformazione, cambiando stato della materia in tempo per sfuggire. Il testo non autorizza tale interpretazione: a partire dal dato di quell’affiorare inatteso, subito prima della sottomissione alla logica creaturale dell’“e in cenere ritornerai”, di un’espressione di pace che suggerisce la salvazione. Grazie anche – si direbbe – alle sofferenze espianti di Mina, in quella che è la vera storia d’amore del romanzo di Stoker, il faustiano stregone Dracula può giungere alla pace: e il suo castello ormai vuoto nel tramonto resta immagine di una parabola conclusa.
Anche se il significato doveva essere diverso: come il castello d’Otranto, nel primo omonimo romanzo gotico a firma di Horace Walpole, 1764, era epifania del tortuoso mondo interiore dell’eroe nero Manfred identificato totalmente con la sua dimora, nel Dracula che qualcuno ha definito l’ultimo romanzo gotico un rapporto analogo doveva intercorrere tra il Conte e il proprio castello. Che nel manoscritto originale non restava – come leggiamo oggi – a svettare nella luce del tramonto: quell’arcicastello che emergeva in sprezzo di ogni Garzantina di geografia su tutto l’orizzonte dei Carpazi, doveva scomparire come il suo signore, non per il farsi cenere di un corpo tornato umano, troppo umano ma per un cataclisma naturale. Dopo la frase: “Il Castello di Dracula si stagliava ora contro il cielo rosso, e ogni pietra dei suoi spalti diroccati si disegnava nella luce del sole cadente”, il testo continuava infatti così (traggo la traduzione da un’antologia a cura di Peter Haining, The Vampire Omnibus, 1995, con la dedica “In memoria di Peter Cushing, il più grande Cacciatore di Vampiri”, in Italia La maledizione del Vampiro, Newton Compton 2000):
“Mentre guardavamo, ci fu un tremolio della terra così terribile che ci sembrò di dondolare avanti e indietro, e cademmo in ginocchio.
In quello stesso momento, con un rombo che sembrò far tremare il cielo stesso, tutto il castello, la rupe, e perfino la collina su cui poggiava, sembrarono saltare in aria e disperdersi in frammenti, mentre un’enorme nuvola di fumo nero e giallo, che si ingrandiva sempre più in maniera tumultuosa, fu lanciata in alto con straordinaria rapidità.
Seguì una quiete nella natura circostante mentre gli occhi [echi] di quel fragoroso scoppio sembravano giungere come i rombi sordi di un tuono, quel lungo flusso continuo che riecheggia come se tremassero le basi del cielo. Poi, cadendo in una pioggia fitta da dove erano saliti, vennero giù i frammenti che erano stati scagliati verso il cielo nel cataclisma.
Da dove ci trovavamo sembrò che, come la violenta esplosione di un vulcano, l’evento avesse soddisfatto il bisogno della natura, e che il castello e la massa della collina fossero sprofondati nuovamente nel vuoto. Fummo così spaventati dalla repentinità e dalla grandiosità di quello spettacolo che dimenticammo di pensare a noi stessi…”
Come il castello d’Otranto rovinava al termine del primo romanzo gotico, anche questo castello sarebbe insomma dovuto crollare al termine del romanzo gotico pensato come ultimo o almeno definitivo: le strane forze telluriche e vulcaniche dei Carpazi evocate via via nel romanzo avrebbero qui trovato la loro epifania, ancora forse con un richiamo biblico – alla Lettera di San Paolo ai Romani 8, 22, “tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto”. Noi non sappiamo perché Stoker abbia omesso questo brano: mi sentirei assolutamente di escludere la suggestione evocata da qualche critico a proposito del lasciare aperta la strada per un sequel. Più plausibile è che l’autore non intenda eccedere in effetti speciali, stornando l’attenzione nel finale dalle dinamiche umane che a questo punto trovano il loro esito più ovvio e fondamentale. Ma nel successivo The Lair of the White Worm il mostro femmina che è insieme donna e drago verrà distrutta grazie a cariche di esplosivo: la dissoluzione dell’ologramma magico del protomodello, Lamia di Keats, viene qui rievocata con un sistema più pragmatico e materiale – che richiama al contempo proprio la scena rimossa dell’esplosione del castello nel Dracula.
D’altra parte, dal punto di vista del calendario del Dracula, e fermo restando quanto detto sull’area attrattiva della festa di Ognissanti, è intrigante notare che la distruzione del tiranno e virtualmente del castello cada il 5 novembre, coincidente con la Guy Fawkes Night, o Guy Fawkes Day, Bonfire Night, Firework Night (“Remember, remember, the fifth of November, Gunpowder Treason and Plot”…), che a fine Ottocento ha ormai perso le sue forti connotazioni di polemica religiosa e politica per assurgere a vaga festività legata ai fuochi. La rimozione dell’esplosione è legata a qualche autocensura per non far stabilire connessioni tra l’esplosione cercata da Guy Fawkes e quella del castello (con sottotesti politici che, in questo caso, Stoker non avrebbe avallato)? Non possiamo saperlo.
Comunque, anche senza bisogno dell’esplosione, gli zingari, spaventati dalla “extraordinary disappearance of the dead man” che attribuiscono agli stranieri, a quel punto fuggono a cavallo, o balzano sul carro con schiamazzi ai loro cavalieri perché non li lascino lì (i gypsy insomma come gli egiziani volti in fuga in Esodo 14, 25). E i lupi stessi, già ritiratisi a distanza di sicurezza, subito li seguono.
Ma Quincey è a terra, è caduto e si appoggia al gomito sempre premendosi il fianco che continua a sanguinare. Mina “non più trattenuta dal Sacro cerchio” (“for the Holy circle did not now keep me back”, una notazione fondamentale la cui importanza però in quel momento non sembra cogliere) si precipita da lui, come i due dottori. “Jonathan gli si è inginocchiato accanto e il ferito ha reclinato la testa sulla sua spalla. Con un sospiro, ha avuto la forza di prendere la mia mano con la sua non macchiata di sangue”; e, a smorzare l’angoscia sul volto di lei, sorride dicendosi “fin troppo felice di essere servito a qualcosa”. Qui Stoker sta presentando il classico bozzetto di gruppo sulla morte dell’eroe. Ma ecco che all’improvviso Quincey se ne esce in un: “Oh, Dio!”, si sforza di sollevarsi a sedere e puntando un dito verso Mina, esclama che “per questo vale la pena morire! Guardate! Guardate!”.
“Il sole si trovava ora proprio sul filo delle montagne [ci aspetteremmo che fosse già tramontato, ma quasi come nel libro di Giosuè 10, 12 il sole è parso fermarsi o almeno rallentare], e il suo rosso bagliore ha illuminato il mio viso, tanto che mi sono trovata immersa in una luce rosa. Come per un identico impulso tutti e quattro gli altri sono caduti in ginocchio e un pietoso “Amen” è uscito spontaneo dalle loro labbra [torniamo all’immaginario misticheggiante sui cavalieri del Graal dell’iconografia d’epoca], mentre gli occhi seguivano l’indicazione del morente, che ancora ha detto:
‘E ora Dio sia lodato che tutto questo non è stato invano! Vedete? Neppure la neve è più bianca e immacolata della sua fronte! La maledizione è stata vinta!’.
E così è morto, accompagnato dal nostro amaro dolore, con un sorriso e silenziosamente, quell’uomo valoroso”. Così Mina, che scrive il giorno dopo – e solo ora comprendiamo quale sapore, insieme di gioia e di sofferenza, avvolga queste pagine.
Nota
Per la Nota finale, scritta sette anni dopo, la voce passa a Jonathan che aveva avviato la storia. “Sette anni or sono siamo tutti passati attraverso le fiamme dell’Inferno” (“Seven years ago we all went through the flames”): sette anni, che dal 1893 della datazione plausibile dei fatti (che Stoker cela per mantenere all’apologo un valore più ampio e meno condizionato dal tempo), conduce forse non casualmente alla data tonda, simbolica di un Tempo Nuovo, 1900. Quanto quel secolo sarebbe stato nel segno del vampiro è per Stoker ancora impossibile immaginare. Si noti che la traduzione “fiamme dell’Inferno” utilizzata sia da Lunari che da Saba Sardi, per quanto indubbiamente evocativa, perde probabilmente qualcosa del significato originale: “we all went through the flames” sembra recare piuttosto il significato di “siamo stati tutti vagliati col fuoco”, quello di una prova durissima che purifica, non di un fuoco che danna.
Sono passati sette anni, dunque, “ma la felicità di taluni di noi, da quel tempo in poi, è valsa la pena di quel che abbiamo dovuto patire. Per Mina e per me si è aggiunta la gioia della nascita di nostro figlio proprio nel giorno dell’anniversario della morte di Quincey Morris. Sua madre – lo so – cova la segreta convinzione che qualcosa dello spirito del nostro coraggioso amico sia passato in lui. I suoi nomi di battesimo raccolgono insieme tutti quelli della nostra piccola pattuglia, ma per noi è Quincey” (“And the happiness of some of us since then is, we think, well worth the pain we endured. It is an added joy to Mina and to me that our boy’s birthday is the same day as that on which Quincey Morris died. His mother holds, I know, the secret belief that some of our brave friend’s spirit has passed into him. His bundle of names links all our little band of men together. But we call him Quincey”). Visto che il 5 novembre, data della morte di Quincey, è anche quella della morte di Dracula, Stoker lascia al lettore fantasioso la possibilità di immaginare un’altra reincarnazione (a dirla con Jack, cap. 26: “We shall not rest until the Count’s head and body have been separated, and we are sure that he cannot reincarnate”) – ma può trattarsi di una suggestione maliziosa sfuggita al controllo dell’autore. Non sappiamo in quale anno sia nato Abraham Quincey Arthur John Harker detto familiarmente Quincey – “our boy’s birthday is the same day as that on which Quincey Morris died” – ma non sarebbe strano immaginare il 1894, cioè il successivo.
Comunque Jonathan annota che “In the summer of this year we made a journey to Transylvania” – la coppia, ma plausibilmente anche il figlio non più piccolissimo – “ritornando sui luoghi che sono stati, e sono, così gravidi di vivide e terribili memorie. Ci sembrava quasi impossibile credere che le cose che avevamo visto con i nostri occhi e sentito con le nostre orecchie fossero davvero cose vere e realmente vissute” (“and went over the old ground which was, and is, to us so full of vivid and terrible memories. It was almost impossible to believe that the things which we had seen with our own eyes and heard with our own ears were living truths”). Precorrendo il mondo dei Dracula’s Tour, l’avventura transilvana si chiude insomma con una vacanza come quelle di Stoker alla base del romanzo, quelle che spalancavano la sua fantasia, e che permette agli Harker di tornare (dice il traduttore) “sui luoghi” – ma Stoker usa il termine “over the old ground”: quel terreno di cui una porzione speciale era stata portata in casse in Inghilterra e avevano dovuto inseguire nuovamente fin lì. Sembra quasi impossibile credere di aver davvero vissuto quegli eventi: “Ogni traccia di quel che era accaduto era stata cancellata. Solo il castello si ergeva al suo posto come un tempo, a dominare una landa desolata” (“Every trace of all that had been was blotted out. The castle stood as before, reared high above a waste of desolation”). Tutto è cancellato, tranne quel castello corona di una Terra Desolata: il luogo dell’Anti-Graal è ormai terra di silenzio, di memoria e di assenza. Se Stoker sembra qui prefigurare, con beffarda lungimiranza, i castelli vuoti dei citati Dracula’s Tour, raggiungibili ormai attraverso qualunque agenzia di viaggi, invece raggiungibile non è questo castello: anche se sfuggito all’esplosione, nella sua improbabilità geografica resta come detto un luogo estraneo agli atlanti, una dimensione anzitutto interiore.
Al ritorno a casa dal viaggio, è dunque normale che i coniugi Harker riparlino di quella storia che ha avuto un peso così determinante nella loro vita – e alla quale ormai possono “tornare senza angosce, dato che anche Godalming e Seward sono tutti e due felicemente sposati” (“When we got home we were talking of the old time, which we could all look back on without despair, for Godalming and Seward are both happily married”: sul punto sarebbe interessante sapere di più, quali profili di donne abbiano corteggiato e cosa possano aver narrato loro – ma Harker non si sbottona). Così finiscono con il desiderare di riprendere in mano la documentazione dell’avventura: e “Dalla cassaforte in cui le avevamo riposte tanto tempo fa, dopo il nostro ritorno, ho tirato fuori le nostre carte. Siamo rimasti colpiti dal fatto che, in tutto l’enorme materiale conservato, non vi è nulla che possa essere considerato un documento oggettivo! Il tutto si riduce a una grande quantità di fogli scritti a macchina, a eccezione degli ultimi diari di Mina e di Seward e miei, e del memorandum di Van Helsing. Difficilmente potremmo chiedere a qualcuno, anche se lo volessimo, di considerare il tutto come prove di una vicenda così assurda” (“I took the papers from the safe where they had been ever since our return so long ago. We were struck with the fact, that in all the mass of material of which the record is composed, there is hardly one authentic document. Nothing but a mass of typewriting, except the later notebooks of Mina and Seward and myself, and Van Helsing’s memorandum. We could hardly ask any one, even did we wish to, to accept these as proofs of so wild a story”). Insomma quelle pagine appaiono all’occhio tecnico dell’avvocato Jonathan, ma anche a sua moglie col suo solido buonsenso, come prive di ogni peso di prova, parole che non convincerebbero nessuno. Ed è del resto il tema che ci ha accompagnato in tutta questa nostra avventura: il rapporto tra autografo e dattiloscrittura, tra forma epistolare e agenzie di certezza, tra dati offerti e interpretazione del lettore – con quanto attiene alla sospensione dell’incredulità richiesta a chi si accosti al romanzo. Qualcosa che, sulla svolta del nuovo secolo, riprende il meglio delle riflessioni del fantastico dell’Ottocento (si pensi a Carmilla) e le radicalizza nel dialogo con le nuove provocazioni filosofiche e scientifiche del problema della conoscenza, rivelando il vampiro come una creatura anzitutto interiore. Lo scorcio, in fondo, è già su quella storia virtuale, manipolabile e infinitamente manipolata, che vedrà trionfare Dracula nel Secolo Nuovo e infine nel multiverso postmoderno di internet.
Ma a questa sorniona considerazione di inattendibilità con cui Stoker gioca a far chiudere al perplesso Harker il resoconto dell’avventura, una risposta più profonda e meditata giunge dall’alter ego di Stoker, Van Helsing, che come a teatro conclude per il pubblico: e tenendo il piccolo Quincey sulle ginocchia da buon nonno putativo, spiega che quella testimonianza resta valida per loro e la loro storia personale.
“Non dobbiamo fornire prove, non chiediamo a nessuno di credere a noi! Questo bambino saprà un giorno quale donna straordinaria e coraggiosa è sua madre. Lui già conosce la sua dolcezza e le sue amorevoli cure; più tardi capirà anche come alcuni uomini abbiano tanto amato lei, da molto osare per la sua salvezza” (“We want no proofs. We ask none to believe us! This boy will some day know what a brave and gallant woman his mother is. Already he knows her sweetness and loving care. Later on he will understand how some men so loved her, that they did dare much for her sake”).
Richiamando insomma a una verità interiore dell’apologo: un’avventura che sotto ogni mascherata vampiresca celebra l’osare molto in nome di un amore umano in sé fragile, destinato ad affrontare il tempo e a restare memoria (sulla Terra, almeno) senza pretendere arroganti sopravvivenze. Se Dracula, alle vampire che gli rimproveravano di non essere capace di amare, aveva risposto di riandare al passato per ricordarlo – ma un simile amore non aveva lasciato nulla – al contrario il piccolo Quincey può trarre dal passato ciò che semplicemente rafforza la propria esperienza di amore fatto carne.
Per dirla con altre parole, un approccio alla maschera equivoca e imbarazzante del vampiro interpella in modo personale il singolo lettore o spettatore, le categorie del suo tempo e della sua storia interiore, le rifrazioni di timori o speranze più o meno confessate o confessabili – comprese quelle sul suo bisogno di amore. Parlare di vampiri è indubbiamente fare riferimento ai miti di una società (quella di Stoker o la nostra), ma anche ai nostri miti interiori, a importanti parole-chiave della nostra vita profonda: l’itinerario che abbiamo affrontato è un assaggio a questo approccio.
La firma di Jonathan Harker, narratore dell’inizio e della fine di questo romanzo, sigla il tutto.
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