Serio, come forse solo i narratori russi e yiddish sanno essere, nutrendo la serietà di vicende surreali e di ironia, è Picnic sul ghiaccio di Andrei Kurkov (Garzanti, 2000, ed. or. 1996). Protagonista e vittima trasognata della vicenda è Victor, di Kiev, giunto alla soglia dei quarant’anni senza una famiglia e senza un avvenire sicuro. Victor mantiene con lavori saltuari se stesso, un piccolo appartamento e Misha, bipede sensibile e tendente alla depressione. Che Misha sia un pinguino è la prima delle invenzioni surreali di Kurkov, la prima frattura narrativa che trasformerà questo «giallo» in una esplorazione gogoliana della nuova realtà ucraina. Scaricato dallo zoo per mancanza di fondi, Misha il pinguino diventa il compagno paziente di Victor, lo attende nell’appartamento che spesso piomba nel buio a causa di problemi cronici nell’erogazione dell’elettricità, grato quando il suo umano riempie la vasca da bagno regalandogli un misero surrogato di oceano. A tempo perso Victor scrive racconti, brevissimi e dalla vena tetra, che ogni tanto sottopone ai quotidiani cittadini. Il direttore di «Stolichnye Vesty» lo «scopre» e gli propone di scrivere, ben remunerato in dollari, dei «coccodrilli», i necrologi su personaggi famosi della città, da archiviare in attesa della loro dipartita. Attratto dal lauto stipendio, ma anche dall’insolito genere letterario, adattissimo alla sua propensione alla brevità e alla tetraggine, Victor si getta anima e corpo nell’impresa: per ogni VIP il direttore procura a Victor il repertorio d’archivio, sottolineando in rosso le informazioni da includere assolutamente nel necrologio e Victor scrive una paio di colonne piene di pathos, cantando i meriti del defunto e rivelando pubblicamente cose che il morto aveva nascosto con ogni cura. Pettegolezzi, forse, ma non tanto innocui, dei «si dice» che riguardano risvolti poco edificanti della carriera e della vita privata del morituro e che alludono ai beneficiari della sua morte. Victor lavora bene e finalmente i suoi sforzi vengono premiati: il giornale pubblica il suo primo coccodrillo, firmato modestamente «un gruppo di amici» (questioni di sicurezza aveva detto il direttore) poi altri, sempre più spesso, e sempre vivamente apprezzati. Assorbito dal lavoro Victor non esce quasi di casa, scrive, consegna i coccodrilli, incassa lo stipendio e non si fa domande; da poco in casa sua è arrivata anche Sonja, il terzo bipede dello strano sodalizio, una vivace umanina di quattro anni, lasciata da un conoscente in fuga, sempre per ragioni di sicurezza. Kiev intanto va a rotoli: per strada sono agguati e guerra per bande, non c’è bisogno di andare in Cecenia per beccarsi un proiettile vagante. Ma a Victor il lavoro non manca mai…
Spassoso, grottesco, graffiante Picnic sul ghiaccio disseziona la nuova società dell’ex Unione Sovietica, fotografa impietoso i nuovi potenti, affaristi senza scrupoli collusi con vecchie e nuove mafie, funzionari e militari del vecchio regime riciclati, gente che non è mai stata comunista e che mai sarà democratica, fedele soltanto a se stessa e al proprio ristretto clan. E ai gradini intermedi e inferiori della piramide sociale ogni sorta di gente, dai bravi picciotti che amano gli animali, persino i pinguini, a chi si arrabatta in piccoli commerci, affarucci e taglieggiamenti se appena il grado o la posizione lo consentono, come il medico ospedaliero che cura un vecchio pinguinologo amico di Victor: «E il dottore che cosa dice?», chiese Victor. «Dice che se gli do l’appartamento, posso vivere ancora tre mesi.».
Si ride amaro (e si ride tanto) leggendo dell’esistenza quotidiana di Victor, dove l’assurdità è eletta a modo non tanto di vivere quanto di sopravvivere, delle visite notturne dei suoi «amici» che, dopo aver abilmente forzato la doppia serratura, depositano in bell’ordine sul tavolo di cucina regali per Sonja e il pinguino, o buste piene di dollari; delle cene funebri in onore dei protagonisti dei suoi coccodrilli, cui è obbligato a presenziare in compagnia del pinguino, della richiesta (fedelemente esaudita da Victor) del pinguinologo moribondo: «Ascolta, quando morirò, devi assolutamente dare fuoco al mio appartamento […] Sono le mie cose… Io ci sono affezionato, non voglio lasciarle qui…».
Iniziato con l’entrata in scena di Misha la vicenda surreale di Victor si conclude con un ultimo colpo di scena assolutamente all’altezza del romanzo. Basterà dire che in qualche modo Victor otterrà la notorietà e l’apprezzamento che ritiene di meritare per la sua opera letteraria, e soprattutto politica. Piccola nota finale: il numero di refusi e sviste di Picnic sul ghiaccio è francamente sconcertante!
La menzogna e il sospetto sono la normalità in I pinguini non vanno in vacanza di Andrei Kurkov.
Seguito di Picnic sul Ghiaccio, il romanzo ritrova Viktor, giornalista specializzato in coccodrilli [articoli «preventivi» da pubblicare sui quotidiani in caso di morte di personaggi molto noti, N.d.R.] nascosto in Antartide, nella stazione scientifica Vernadskij, per sfuggire a una vendetta politica. Per salvarsi, Viktor si era imbarcato al posto del suo protetto, il pinguino Miša; memore della promessa fatta, dopo qualche mese di esilio, Viktor torna a Kiev per imbarcare il pinguino sulla successiva nave per Vernadskij. Purtroppo le cose non sono così semplici: mentre Sonja, la ragazzina che Viktor alleva come una figlia, sta benissimo, il pinguino è sparito, passato fra mani di vari pezzi grossi della politica locale sino a finire nello zoo privato di un «affarista» ceceno, Cha’aev. A Viktor, legato a Kiev soltanto dall’affetto per Sonia, non sembra affatto irragionevole seguire le tracce del suo amico col becco fin nel cuore della Cecenia. Dopo un soggiorno breve ma indimenticabile, Viktor ritorna a Kiev dove – in un susseguirsi di avventure deliranti che lo vedranno diventare collaboratore per le questioni umanitarie di uno strano tipo di deputato e patrocinatore di una squadra di armwrestling formata interamente di reduci dell’Afghanistan privi di gambe – finalmente Viktor riuscirà a riportare Miša là dove ogni pinguino felice dovrebbe stare.
Questo seguito in tono minore e un po’ sfilacciato[1] – tanto da far sospettare che Kurkov l’abbia scritto soprattutto per bissare il successo di Picnic sul ghiaccio, – ha il suo momento di gloria nelle ottanta pagine dedicate a una Cecenia divenuta luogo geometrico metafisico delle responsabilità politiche e dei sensi di colpa di Mosca. Con fiuto e abilità Kurkov sceglie di raccontarla dal punto di vista assurdo di alcuni «schiavi» di Cha’aev che si prendono cura dei cadaveri scomodi. Il servizio di cremazione sfrutta l’oleodotto Druûba – «tutta l’economia “nera” della Cecenia era basata sul furto di petrolio da questo oleodotto» – ed è usato indifferentemente dai combattenti ceceni e dall’esercito federale per rendere spicci onori funebri ai loro caduti e, all’occorrenza, per far sparire i corpi di vittime o di scagnozzi di questo o quel caporione locale. Viktor e gli altri becchini improvvisati lavorano e vivono lungo il Druûba, vedendo del conflitto russo ceceno soltanto l’esito terminale, i cadaveri, immersi un perenne crepuscolo che trasforma la foresta nell’anticamera del limbo.
Il resto del romanzo non è, francamente, all’altezza di questa visione, anche se non mancano le pagine spassose e le sintesi riuscite della quotidianità del nuovo corso russo, all’insegna del fai da te e del si arrangi chi può, tra furbetti rampanti, carrieristi in cerca di opportunità e navigatori politici di lungo corso.
La legge della lumaca funziona sempre […] solo che io e te, girala come vuoi, siamo lumache più o meno normali. Io ho cercato di diventare una lumaca a due teste – hanno più diritti e una vita più lunga – ma è venuta fuori un’altra lumaca a due teste e mi ha rimesso a posto […] Le lumache a due teste hanno due casette… quella normale criminale e quella normale statale, ci arrivi?
A osservare tutto gli occhi di bottone del pinguino, visitatore fuori luogo e fuori tempo ma non privo di dignità e di ragion d’essere:
Il pinguino rimase immobile con il corpo e con lo sguardo e, alla fine, Viktor considerò la sua presenza come una necessità, la presenza di un’entità superiore, che guardava lui, Viktor, che guardava tutto quello che faceva e che pensava.
Miša, testimone muto e straniato della vita di Viktor, le conferisce significato, scopo e centro di gravità. Sotto il suo sguardo inumano verità e menzogne, dubbi, paure, minacce, la doppia faccia di un paese che sta rapidamente diventando altro da sé, pur continuando a essere ciò che è sempre stato, acquistano consistenza e contemporaneamente si rivelano per ciò che sono: giochi continui di lumache mono- o bicefale, con una o con due casette.
[1] Nella recensione a Picnic sul ghiaccio lamentavo la grande quantità di refusi nel testo; a distanza di sei anni nulla è cambiato; alcuni sono veniali, come a p. 14: «sé stesso» (accento ridondante), ribadito a p. 79 e poi a p. 385. Alcuni però sono davvero suggestivi, come a p. 13: «L’immagine dei funerali di un tempo gli invocò un dolce ricordo». La mancanza di editing ha reso sibilline frasi certo non memorabili come, a p. 62, «E tacque di nuovo, osservando di lui come per controllare la sua reazione», ma ci ha regalato personaggi di grande carisma, come Vesna a p. 428: «Vesna diede un’occhiata. Aveva il sorriso di una persona molto convinta di sé». Beata lei! Noi mortali, per la maggior parte, ci (auto)convinciamo poco. Provare con «molto sicura»?Il protagonista de L’Angelo del Caucaso, di Andrei Kurkov (Garzanti, ed. or. 2000. trad. di Cristina Moroni) è un russo che vive a Kiev, nella neonata Ucraina. Fa il guardiano notturno e vive tranquillamente, senza preoccuparsi di nazionalità, nazionalismi e traffico di droga. Senonché pare difficile sopravvivere in qualche angolo dell’ex Unione Sovietica senza essere coinvolti in una o tutte e due le questioni.
Costretto a fuggire da Kiev e munito di un misterioso documento che sembra alludere a un tesoro nascosto in un’antica fortezza del Kazakhstan, Kolja Sotnikov diventerà suo malgrado bersaglio di una frenetica caccia da parte di fanatici nazionalisti ucraini, ex militari falliti, mafiosi, terroristi, agenti di scalcinatissimi servizi segreti e vari altri soggetti di ogni tipo e genere. A spingere i suoi persecutori strampalate teorie mistiche o pressanti interessi criminali. In Kazakhstan incontra la bella e affascinante kazaka Gulja, cedutagli in sposa dal padre che temeva le chiacchiere della gente sulla figlia tanto bella e ancora nubile e Gulja diventerà la sua fedele (e preziosa) compagna di ricerca e di fuga.
Dopo molti colpi di scena, aggrovigliate spiegazioni e controspiegazioni, inseguimenti, fughe, vendette, agguati e minacce Kolja riuscirà a ritornare a Kiev, se non più ricco certamente più felice in compagnia di Gulja.
La situazione creatasi con il crollo dell’Unione Sovietica ha molto di drammatico ma anche molto di assurdo e grottesco e gli incontri e le avventure di Kolja nascono probabilmente da una forzatura minima della realtà. Un camaleonte dotato di poteri magici non sembra così al lettore molto più improbabile di un servizio segreto tanto a corto di fondi da apparire una replica del gruppo TNT di Magnus & Bunker, di un traffico di droga camuffato da import-export di prodotti per neonato o di una giovane kazaka laureata in medicina che conduce una vita da nomade.
Un libro sicuramente godibile, quindi, anche se non privo di difetti. Un ritmo non perfettamente dosato, qualche caduta di inventiva e qualche forzatura sono i principali. Nulla di tanto grave da compromettere il piacere della lettura, ma sicuramente sintomi di minore concentrazione rispetto all’ottimo Picnic sul ghiaccio.
Ultimo romanzo di questa serie dedicata a Andrei Kurkov, L’ultimo amore del presidente, ed.or. 2004. Protagonista del romanzo Sergei Bunin, nella finzione romanzesca il presidente ucraino appena eletto. Bunin non è un ex-burocrate ex-comunista ma un soggetto decisamente inatteso nel panorama ex-sovietico. Un individuo di umili origini, con un passato incerto e all’epoca – dal 1975 in poi – poche speranze per il futuro. Il romanzo si apre all’indomani dell’operazione al cuore subita dal presidente e con i piccoli, ridicoli incidenti che si suppone possano accadere al presidente di una giovane repubblica. Tra questi curiosamente immancabili, tenendo conto che il romanzo è stato scritto nel 2004, le discussioni con Vladimir Putin sullo status della Crimea e sull’opportunità di elezioni per partiti organizzati su base etnica… Da queste due date, il 1975 e il 2015 si dipana la storia personale di Bunin dalla sua giovinezza confusa fino alla maturità, al lavoro presso il ministero dell’economia e l’elezione come presidente della repubblica ucraina, elezione ripetutasi nel 2016.
Bunin è un uomo tranquillo, con una certa passione – sia pure non smodata – per le gonnelle, ama condividere il suo tempo libero con altri maschi e un certo numero di alcoolici, come molti ebrei ha timore della Mamma e vive in compagnia di un sottile senso di colpa del quale non riesce comunque a liberarsi. Ed è proprio questa sua caratteristica, un’ingenuità venata di una delusione inconsciamente preventivata, a fare di Bunin un personaggio in qualche modo fuori dall’ordinario, un felice incontro tra un Candide deluso e un Forrest Gump reso cinico dalla realtà postsovietica. Attorno a lui crescono complotti, minacce, aggressioni, congiure ma Bunin riesce a sfuggirvi aiutato dal suo candore e dalla sua intolleranza apparentemente immotivata per taluni personaggi e talune situazioni. I dialoghi imprevedibili, apparentemente normali, le risposte banali a domande complesse e le osservazioni geniali alle considerazioni più quotidiane, i bozzetti maliconicamente buffi dei piccoli eventi della sua gioventù, i ritratti fulminanti di alcuni personaggi di contorno: il genio di Kurkov non manca mai di illuminare in modo inatteso la realtà quotidiana dell’universo post-sovietico. Un mondo apparentemente frizzante e ricco di iniziative personali ma profondamente segnato dal permanere delle figure della burocrazia e del potere della defunta URSS e dall’apparire di soggetti dai contorni equivoci, dotati di poteri sovranazionali, terminali della mafia russa divenuta evidente e che finisce per determinare non poche delle scelte politiche dei neonati stati indipendenti.
Un libro che straordinariamente non ha perso nulla della sua attualità, arrivando a presentare svolte e sviluppi della realtà del mondo orientale che, immancabilmente, prendono di sorpresa noi occidentali.
Quattro libri nati con lo scopo dichiarato di divertire il lettore e che, sia pure in misura diversa, centrano il loro obiettivo. Ma nonostante questo non best-sellers annunciati o prodotti di serie dell’industria culturale. Quattro romanzi artigianali, verrebbe da definirli, nati da gusti, disgusti e visioni della realtà del tutto personali. Possono incontrare o meno il favore del lettore, com’è ovvio, ma sono a loro modo prodotti unici. E che sia in fondo tutta qui la differenza tra best-sellers e libri popolari?
Andrei Kurkov, Picnic sul ghiaccio, Garzanti, 2003, pp. 321, € 8,50, trad. C. Moroni
Andrei Kurkov, I pinguini non vanno in vacanza, Garzanti, ed. 2006, pp. 439, € 16,00, Trad. B. Osimo
Andrei Kurkov, L’angelo del Caucaso, Garzanti, 2003, pp.354, € 9,50, trad. C.Moroni
Andrei Kurkov, L’ultimo amore del presidente, Garzanti, 2008, pp. 513, € 9,80, trad. R. Mauro
Di seguito un’intervista a Kurkov, ucraino di lingua russa, rilasciata all’indomani degli scontri di piazza Maidan.
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