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    TerraNova

    Un padre sui generis per i giallisti svedesi

    • di Silvia Treves
    • Agosto 9, 2014 a 5:29 pm

    epidemia

    Avendo ormai alle spalle una notevole quantità di letture di narrativa «nordica» di svariati generi, – dal mainstream, al thriller al poliziesco, al gotico, all’horror – non potevo lasciarmi scappare questo romanzo di Per Wahlöö un autore noto soprattutto – e forse a un numero ristretto di lettori – per una serie poliziesca scritta a quattro mani con la compagna Maj Sjöwall.
    Si tratta di un romanzo inconsueto, difficile da catalogare: fantapolitica? Distopia? Fantascienza apocalittica? Conte philosphique? Per brevità – e per chiarire subito che si tratta di un’opera di valore ma non «facile» – lo inserirò nella nobile categoria della narrativa speculativa. Per inquadrare il romanzo, però, occorre dedicare qualche riga al suo autore.
    Per Wahlöö (1926 – 1975) crebbe a Stoccolma e, dopo la laurea, lavorò a lungo come giornalista, occupandosi di cronaca nera e questioni sociali. Negli anni Cinquanta si impegnò in cause politiche radicali correndo rischi personali sino alla deportazione dalla Spagna di Franco nel 1957.
    Il suo primo periodo narrativo include romanzi impegnati, che trattano di abusi di potere ed esplorano il lato oscuro della società sono per lo più testi distopici, come Mord på 31 (1965 – Il 31° piano – trasposto in film con il titolo di Kamikaze 1989) e Stälspranget (1968 – Primavera d’acciaio), che Einaudi ha proprio quest’anno ripubblicato nella collana Stile Libero, con il titolo L’epidemia. Protagonista di entrambi i romanzi è l’ispettore capo Jensen.
    Nel 1961 Wahlöö, che all’epoca era sposato, incontrò la giornalista Maj Sjöwall, madre single di una bimba dopo due divorzi. Entrambi erano membri del partito comunista. L’esito di quest’incontro fu un legame profondo – durato sino alla morte di lui – e un sodalizio intellettuale e artistico di tutto rispetto, che sfociò in una serie di romanzi attentamente pianificata indicata complessivamente come Storia di un crimine. Scritta a quattro mani in dieci anni, un capitolo ciascuno e spesso la sera, dopo aver messo a letto i bambini, la serie è composta da dieci indagini a partire da Roseanna (1965) fino ai Terroristi (1975). L’ultima storia fu pubblicata poco dopo la morte di Wahlöö che da tempo era molto malato ai polmoni e al pancreas e che, a causa di una dose eccessiva di morfina, entrò in coma e non ne uscì più.
    Scritti con uno stile che è stato definito «cronistico, parsimonioso, spartano e pieno di dettagli attentamente osservati», tutti i volumi avrebbero dovuto, nelle intenzioni degli autori, formare un unicum, un romanzo di trecento capitoli.
    Edita negli anni Settanta da Garzanti, la serie è stata in parte ripubblicata da Sellerio. Per avere informazioni più dettagliate sull’argomento e per leggere un buon commento sulla politica editoriale italiana verso il genere giallo (noir, poliziesco, thriller forsense e via dicendo). Vi consiglio l’ottimo articolo di Luciana Viarengo su Paginauno n. 10, dicembre 2008 – gennaio 2009.

    wahloo

    E veniamo a L’Epidemia, scritto nel 1968. Il titolo italiano è adeguato e suggestivo, anche se personalmente preferisco quello originale, Primavera d’acciaio, per la sua consonanza con l’atmosfera del romanzo.
    Il campo visivo del lettore è limitato allo sguardo del capo ispettore Jensen, funzionario di un mai nominato paese nordeuropeo, descritto come «un uomo di costituzione normale e aspetto ordinario, con corti capelli grigi ed espressione impassibile». Taciturno e solitario, Jensen è caratterizzato fin dalle prime righe come uno di quei rappresentanti dello Stato che sentono tutto il peso e la responsabilità del loro ruolo: fedele alle leggi del paese ben oltre ciò che deve al governo del momento, Jensen non mette in dubbio l’operato dei politici ma si limita a fare il proprio lavoro meglio che può. Gravemente ammalato (un dettaglio che riecheggia, o che prevede in maniera inquietante la vicenda personale successiva di Wahlöö), Jensen si reca all’estero per sottoporsi a un trapianto di fegato molto rischioso e, contro ogni pronostico, ne esce vivo e abbastanza in salute qualche mese dopo. Proprio in tempo per ricevere da un ministro in esilio la richiesta prioritaria di tornare in patria. Scopre ben presto che le frontiere sono chiuse e il paese è completamente isolato dal resto del mondo. Accetta comunque l’incarico, rientra nella capitale e scopre che vi infuria una letale epidemia, che i politici e l’élite socio-economica sono fuggiti all’estero e che ciò che resta del governo è costituito da un corpo di sanità militare.
    Jensen torna al suo appartamento, indossa la propria divisa, si aggira per luoghi che un tempo gli erano famigliari. Assiste alla presa in carico, che ha tutto l’aspetto di un sequestro, dei nuovi malati che continuamente vengono scoperti e ha con la nuova polizia medica incontri tutt’altro che rassicuranti. In poche parole il paese, fino a pochi mesi prima sostanzialmente governato da una sorta di consociativismo “democratico” onnipresente e privo di vera opposizione, è ora completamente collassato. Ciò che resta della popolazione è disinformato, ha paura non solo dell’epidemia, ma anche dei medici militari, dei vicini che spesso denunciano i casi di contagio e degli sciacalli che razziano gli appartamenti vuoti.
    Chi cercasse nel romanzo la storia di un’indagine poliziesca resterebbe deluso: le informazioni che Jensen raccoglie, e che solo in parte lo aiuteranno a capire la situazione, scaturiscono da osservazioni casuali, più che dalla sua indubbia esperienza come detective. Sarà l’incontro con un vecchio collaboratore ad aprirgli definitivamente gli occhi.
    Leggendo le descrizioni della capitale deserta nella quale Jensen si muove con occhi stupefatti e sempre più distaccati, il lettore è indotto a pensare a un paese scandinavo, la Svezia in primis, ma anche un qualche paese baltico. L’atmosfera plumbea, le auto della polizia, le ambulanze che accorrono ovunque, la delazione, evocano un clima da dittatura fascista o da cortina di ferro, luoghi come la Romania di anni addietro.
    In realtà il tema profondo del romanzo non è la dittatura, di qualunque colore, ma la fragilità di un sistema di governo che solo apparentemente si regge sul consenso informato, la capitolazione di una socialdemocrazia sempre più di rappresentanza che – dichiarando di lavorare «per il bene del popolo» – in realtà restringe sempre più il suo ruolo di libero firmatario del contratto sociale, trasformandolo in una plebe priva di consapevolezza. Inevitabilmente il pensiero va al modello scandinavo, del quale numerosi altri giallisti di oggi ci hanno mostrato i difetti, ma anche alla realtà attuale, replicata in diversi paesi europei, di una democrazia logorata, manipolata da mezzi di informazione privati e non difesa dall’adeguarsi al ribasso di quelli pubblici… Perché il controllo, altro tema profondo del romanzo, si esplica in molti modi che, nei sessant’anni trascorsi dall’uscita de L’epidemia, si sono rinnovati e rafforzati.

    steel spring
    E questo mi porta all’ultimo, interessante, aspetto del romanzo di Wahlöö: il giudizio sul romanzo di molti lettori, in gran parte affascinati dalla serie di Martin Beck ma poco entusiasti di L’epidemia e dell’opera che l’ha preceduto, convinti che Jensen sia soltanto un proto commissario Beck e che i dieci romanzi di Storia di un crimine rappresentino la la miscela equilibrata fra critica sociale e narrativa psicologica.
    Probabilmente hanno ragione, se non altro, perché il giallo è un genere quasi perfetto per esplorare la società dall’altro e/o dal basso, portando a galla il marcio e la violenza, la ribellione individuale, l’impotenza e l’avidità. Ma ritengo che L’Epidemia resti un grande apologo: freddo, impassibile, con un mondo che implode su se stesso e una spiegazione peggiore e impensabile, come impensabile è il potere quando cessa di essere rappresentativo. E che, nonostante sia terribilmente cupo, lasci quel briciolo di speranza nella capacità di salvarsi di una società. Una salvezza che si può soltanto intravvedere nella nebbia, e che quasi sicuramente non verrà raggiunta, ma che qualcuno può almeno immaginare.
    Qualcuno dei commenti che ho letto collocava l’autore a fianco di scrittori come Zamyatin, Capek, Orwell e Dürrenmatt. Dürrenmatt mi pare un riferimento particolarmente azzeccato.

    .
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    Per Wahlöö, L’epidemia
    Einaudi Stile libero 2014, pp. 216, € 13,00, Trad. R. Zatti

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