La versione di Barney di Mordecai Richler, Adelphi, è un romanzo interamente basato sulla menzogna o quantomeno sulla parzialità. Protagonista e io narrante è Barney Panofsky, impresario televisivo della TV canadese, ebreo non osservante con tre matrimoni falliti alle spalle.
Barney Panofsky racconta – sia pur disordinatamente – la propria vita, allinea i propri errori, cerca di affrontarli onestamente ricordando anche i momenti nei quali si è comportato come un verme, si sforza di discolparsi dalle accuse più gravi (tra le quali quella di aver assassinato il suo migliore amico) e ammette la propria scarsa sensibilità, la propria cecità e grossolana faciloneria. Il lettore tuttavia si rende conto ben presto che all’interno della finzione-diario si annida un’ulteriore finzione. Infatti le pagine di Panofsky sono state chiosate, commentate, probabilmente anche riviste e riorganizzate da uno dei suoi figli, Michael Panofsky. D’altro canto il lettore non possiede alcuno strumento efficace per stabilire quanto vi sia di falso e autoassolutorio nel racconto di Barney, se non basandosi sulle contraddizioni interne, sulle versioni non del tutto coerenti, sull’insistere su certi particolari o momenti.
Barney, per quanto simpatico, dotato di verve e comunicativa, ricco di uno humour tipicamente yiddish che gli permette di considerare con scetticismo le altrui vanità, non è esattamente un innocuo brav’uomo. Si è arricchito grazie ad alcuni programmi televisivi pericolosamente idioti, ha sempre provato un’invidia imbarazzante e un livore detestabile per alcuni amici di gioventù dotati di un talento artistico che lui non possiede e ha l’abitudine di trovare nel succedersi degli eventi – nel destino, si direbbe – la giustificazione anche ai suoi comportamenti più condannabili.
Un superficiale con qualche tratto decisamente puerile, un narciso beone, un impreditore cinico, un cascamorto imbarazzante, un padre assai poco assiduo e un fanatico di hockey su ghiaccio. Quanto basta e avanza per detestarlo. Eppure non è così. Gli errori e le misere scuse che Barney allinea nel proprio diario, la debolezza e la fragilità che esprimono impediscono al lettore di giudicarlo severamente. Ciascuno commette i propri errori, ciascuno ha molto o poco di cui pentirsi, quasi nessuno può riuscire a essere assolutamente onesto con se stesso e con gli altri. L’umana debolezza dell’insopportabile Barney Panofsky è anche la nostra. Perdonandolo, sia pure con una smorfia, stringendosi nelle spalle e scuotendo la testa, si accetta di non essere perfetti, di mentire a noi stessi decine di volte al giorno. Di essere anche noi, probabilmente, legati alla nostra sorte, ciechi quando non riusciamo davvero a vedere ciò che ci circonda, un po’ meschini, insensibili e – perché no? – un po’ stupidi. Succede, eccome se succede.
Richler è riuscito attraverso il personaggio di Barney a raccontare l’umana debolezza, la condizione che più di tutte cerchiamo di rimuovere e cancellare. Barney non riesce a perdonarsi perché fatica a riconoscere il proprio peccato e percorre e ripercorre instancabilmente lo stesso cerchio di pensieri e di rimorsi. Nel farlo riesce comunque a divertire il lettore, che per lo spazio delle pagine del libro riesce a riconciliarsi anche con la propria disperazione. E al termine della lettura si ha nettamente la sensazione di avere a lungo sorriso a un funerale, perché divertimento e disperazione sono molto più vicine di quanto ci piaccia credere.
Mordecai Richler, La versione di Barney
Adelphi, gli Adelphi 2005, pp. 490, € 13,00, trad. Matteo Codignola
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