L’antologia L’uomo che fece ritorno, editore Einaudi, è la prima opera di Ikezawa Natsuki a essere tradotta in italiano. La traduzione è di Antonietta Pastore, ovvero la stessa di gran parte delle opere di Murakami Haruki tradotte in Italia.
E una certa «assonanza», – la somiglianza di modi nel narrare, un sottile legame con la narrativa fantastica, l’uso della prima persona – richiamano alla memoria l’autore de L’uccello che girava le viti del mondo e di Dance dance dance.
Izekawa Natsuki, ci informa l’aletta della terza di copertina, è nato nel 1945 a Hokkaido (la più settentrionale delle grandi isole giapponesi) e vive nell’isola di Okinawa. Oltre a questa vocazione insulare, di lui apprendiamo che è laureato in fisica e che nel 1993 ha ricevuto il premio Tanizaki.
Non sono particolari da trascurare al termine della lettura. Nella narrazione di Ikezawa, infatti, si colgono temi tipici della science-fiction e caratteristici di uno scrittore di formazione scientifica – il misterioso individuo del primo racconto, Still life, potrebbe con un minimo scarto diventare un alieno extraterrestre, l’amabile Diplodocus così accuratamente descritto nel secondo racconto (Ja Caika) essere parte di un esperimento genetico futuro, la città del racconto che dà il titolo all’antologia essere l’enigmatica rovina di una remota megalopoli aliena. Tuttavia non è possibile né utile inserirli in un ambito di genere. Per Ikezawa, infatti, il ricorso a suggestioni fantascientifiche fa parte di una strategia narrativa concepita per evidenziare solitudine e l’estraneità. Estraneità che i suoi personaggi insieme incarnano e avvertono. Dovendo riferire una sensazione sintetica provata nel corso della lettura parlerei di «freddezza». Non come atteggiamento in qualche modo progettato dall’autore, ma come emozione. Freddezza come rarefazione, sonorità netta dei dialoghi e delle descrizioni, di luoghi e pensieri. La freddezza dei grandi spazi, del cielo lontano e della terra vuota di presenze.
Non devi credere che il mondo esista per te. Il mondo non è un recipiente per contenerti. […] oltre a quello che si erge all’esterno, c’è un mondo anche dentro di te. Puoi provare a immaginarlo, è un immenso crepuscolo interiore. Al confine tra queste due dimensioni sta la tua coscienza […] È difficile guardare le stelle nel modo giusto […]
Narrare la vita e il pensiero su quel confine è lo scopo dei racconti di Ikezawa. Un raccontare da una grande distanza, descrivere un filo di luce adagiato sull’orizzonte in un cielo vuoto e indifferente.
Il paradosso nasce proprio dall’uso della forma più personale di racconto – quello in prima persona singolare – per costruire storie «a sottrarre», dove il protagonista acquisisce una sempre maggiore coscienza dell’impersonalità degli universi interiore ed esteriore.
Eppure non si tratta di storie «tristi» o «deprimenti». Ikezawa è un autore dal grande talento visivo, nei suoi racconti il legame enigmatico dei personaggi con i fenomeni naturali è essenziale alla narrazione, ne costituisce la ragion d’essere.
Facile cogliere nelle sue pagine una distaccata e algida ironia, un malinconico sentimento del buffo e del paradossale, anche se più evidenti sono gli influssi religiosi legati alla mistica del vuoto e dell’assenza, caratteristica anche di molta arte e architettura nipponica.
Leggere Ikezawa è un’esperienza unica e preziosa.
Izekawa Natsuki, L’uomo che fece ritorno
Einaudi Arcipelago 2003, pp. 228, € 12,50, trad. Antonietta Pastore
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