Carlo Grande
La cavalcata selvaggia
(Ponte alle Grazie)
Gaspare Pribaz è un pilota militare italiano abbattuto nel Mediterraneo nel 1940. Insieme ad altri diecimila POW (Prisoners Of War) italiani viene internato a Yol, un campo di prigionia nell’estremo nord dell’India, ai piedi del Dhaula Dhar, primo contrafforte del massiccio Himalayano.
Pribaz è stato un buon soldato e un buon pilota. Un uomo corretto, pragmatico, silenzioso, patriota ma poco incline ai fanatismi politici. Testardo e orgoglioso si ritiene colpevole della propria condizione di prigioniero di guerra ed è per lui arduo se non quasi impossibile abituarsi alla vita nel campo, un’esistenza ripetitiva fatta di piccole routine e di interminabili intervalli di tempo da dedicare al bilancio delle propria vita, immancabilmente in perdita.
Qualcuno, e tra questi Pribaz, reagisce escogitando piani di fuga raffinati e complessi. Ma il fallimento anche dei tentativi meglio preparati crea disillusione e scoramento.
Così c’è chi trova conforto alla sensazione di abbandono aggrappandosi alla fede fascista, molti – e tra questi Pribaz – lo trovano nella grappa distillata clandestinamente. Ma per la maggior parte i prigionieri finiscono per attendere passivamente che la guerra finisca, in definitiva incuranti del suo esito.
Le notizie che arrivano non sono buone. L’entrata in guerra del Giappone provoca una momentanea e passeggera speranza ma nulla di più. Gli uomini diventano litigiosi, pronti a discutere e recriminare per qualunque piccolezza. Prima la caduta di Mussolini e poi l’armistizio a Cassibile sanciscono una frattura definitiva nel campo. Da una parte i fascisti più o meno irriducibili dall’altra gli antifascisti, i badogliani e soprattutto gli indifferenti. L’orgoglioso Pribaz fatica a ingoiare la sensazione di tradimento che gli dà il passaggio di campo dell’Italia, e, pur non essendo mai stato fascista, progetta di passare tra gli irriducibili. Soltanto un piccolo incidente gli impedisce di cedere a un semplice puntiglio.
Per chi non è rimasto fedele al fascismo emerge la possibilità di godere di brevi licenze. L’alpinismo sportivo, un alpinismo «eroico» condotto con scarsissimi mezzi ed enorme testardaggine, diviene così la principale ragione di vita degli ex-POW, in attesa della possibilità di ritornare in un’Italia divenuta un campo di battaglia, l’unico modo per recuperare una ragione di vita e ricostruire un’autostima distrutta nella permanenza al campo di prigionia.
La cavalcata selvaggia è un libro nitido e potente, faticosamente (e si immagina felicemente) costruito mediante testimonianze, ricordi, lettere, diari. Pribaz, personaggio immaginario solo in senso anagrafico, raccoglie in sé le ansie, i dubbi, gli slanci e le frustrazioni di una generazione cresciuta all’amor di patria e costretta a misurare il vuoto della retorica fascista e patriottarda. Uomini di buona volontà abbandonati a combattere in silenzio e con dignità contro nemici meglio armati e meglio comandati. Costretti dalla sconfitta e dal «tradimento» a reinventare le ragioni del proprio esistere e del proprio essere nel mondo.
Libro più ambizioso de La via dei lupi, La cavalcata selvaggia ne reinterpreta su uno sfondo più vasto i temi più profondi: la coscienza della fragilità umana, il rapporto profondo con la natura, la limpida intolleranza per le finzioni e le ipocrisie, l’etica della responsabilità personale e la scelta dell’autodistruzione come unica via d’uscita dalle situazioni che non ammettono risposte onorevoli. Un libro fuori stagione e poco «italiano», pieno di cieli d’alta quota, odori dell’aria, colori delle stagioni. Ricco di immagini destinate a rimanere a lungo nella mente del lettore e imperniato sull’epica della sconfitta e della solitudine. Quasi un hagakure (il codice dei samurai) della tradizione nipponica divenuto vita reale e scelta quotidiana per un pugno di italiani traditi dal fascismo e dalla monarchia. (Massimo Citi)
in uscita nel numero 31 di LN-LibriNuovi