Giganteschi motori (a turbina) spingevano le corazzate e i grandi incrociatori britannici e tedeschi che si scontrarono nel 1916 nella più grande battaglia navale (per numero e tonnellaggio delle unità coinvolte) della storia della marineria. La vittoria ai punti fu degli inglesi che persero più navi e più marinai ma obbligarono i tedeschi ad abbandonare il campo.
Motori a turbina di 70.000, 80.000, 85.000 cavalli vapore per vascelli dalle 20.000 alle 35.000 tonnellate, lunghi fino a 200 metri, in grado di sostenere velocità superiori ai 20-25 nodi anche in condizioni di mare mosso. Motori spinti da carbone e nafta nelle navi della Home Fleet inglese, spinti dal solo carbone per la Hochseeflotte tedesca.
La Germania aveva ben pochi possedimenti d’oltremare e non poteva contare su approvvigionamenti costanti e sicuri di petrolio. Sicché gli ingegneri tedeschi dovettero puntare tutto sul carbone, riuscendo a mettere comunque in mare navi da guerra di qualità equivalente o, in qualche caso addirittura superiore, a quelle della leggendaria flotta inglese.
Jutland, di Sergio Valzania, «Le Scie» Mondadori, non è il consueto libro di eroici scontri navali, di intrepidi ammiragli e di valorosi (e silenziosi) marinai. Racconta di mezzi tecnologici nati per la guerra e di coloro che su quei mezzi dovevano vivere, combattere e, nel caso, perire. L’affondamento di una grande nave da guerra in battaglia comportava infatti, generalmente, la morte della stragrande maggioranza del suo equipaggio.
Valzania (curiosamente oltre che giornalista e storico, appassionato autore di fantasy e fantascienza) dedica molto spazio al racconto dell’ideazione e progettazione di questi titani del mare, sottolineandone ciò che un biologo evoluzionista chiamerebbe «specializzazione». A partire dagli ultimi anni del XIX secolo, infatti, partì una rincorsa alla costruzione di navi sempre più veloci e meglio armate, anche a costo di ridurre peso e spessore delle corazzature. Una rincorsa che si prolungò fino agli anni Trenta con la costruzione (e l’affondamento) delle cosiddette «corazzate tascabili» del Terzo Reich: Bismark, Von Tirpitz e Graf von Spee.
Per una manciata d’anni tali navi furono quanto di meglio esistesse – militarmente parlando – sulla superficie marina, almeno finché non giunsero le portarei e gli aereosiluranti a spedirle in massa alla rottamazione o in fondo al mare. In loro compagnia scomparvero i grandi transatlantici e i dirigibili.
Riflettere sull’eclisse o sulla morte di una tecnologia non è un’operazione oziosa come può sembrare. La scomparsa delle grandi unità navali (intendendo qui sia le navi «marine» sia quelle «aeree») non è tanto l’effetto collaterale di un progresso immancabilmente in marcia verso sempre nuovi magnifici traguardi, ma piuttosto il sintomo di un «ambiente» che si è profondamente modificato tra gli ultimi due decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento. In quell’arco di tempo è mutato il modello di sviluppo prevalente, cambiato di segno il rapporto tra stato e mondo produttivo. Sul capitalismo «imperiale» europeo, dirigista e statalista, indebolito dal primo conflitto mondiale, ha prevalso un capitalismo moderno – essenzialmente americano –, basato su un’organizzazione produttiva razionale e standardizzata.
La vittoria dell’aereo sul grande dirigibile – o della portarei sulla corazzata – è la vittoria di un modello di società dove il processo produttivo determina la politica e dove i suggestivi giganti dell’aria e dell’acqua, nati da ambizioni di dominio e resi possibili da enormi concentrazioni di ingegno, esperienza e risorse, non possono più, semplicemente, nascere.
Non è stato questo, in fondo, anche il destino delle missioni Apollo e della «corsa allo spazio»?
Nulla di strano che esistano nostalgie o rimpianti per le grandi navi di un tempo o per le astronavi che nessuno ha mai costruito o che sia relativamente facile incontrarne tracce nella tradizione fantascientifica. Forse perché gli autori di sf sono per lo più degli idealisti disadattati (vedi «scoppiati») e quindi sentono forte il fascino non soltanto del futuro ma anche del condizionale, ovvero di ciò che è andato perduto e di ciò che avrebbe potuto essere ma non è stato.
Ma anche senza essere scrittori di fantascienza è utile riflettere che il progresso tecnologico – esattamente come l’evoluzione dei viventi – non è guidato da una tensione interna verso la perfezione ma, più semplicemente, è parte – conseguenza ma anche concausa – di un complesso di eventi e tendenze determinato da elementi politici, economici, sociali e psicologici.
Sergio Valzania, Jutland
Mondadori Le Scie 2004, pp. 258, € 17,50
Idem, Mondadori Oscar, pp. 256
N.B.: volume esaurito, rintracciabile presso Ebay.
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