
Un saggio edito da Carocci, uscito nel gennaio 2012, è uno degli ultimi che ho ospitato nella mia libreria: L’invenzione della virilità di Sandro Bellassai. A differenza della mia abituale condotta in termini di lettura, si tratta di un volume zeppo di sottolineature, commenti e note scritte a mano ai margini del testo, questo per la paura che qualcuna delle osservazioni dell’autore mi sfuggissero nel corso della lettura.
La virilità, come costruzione concettuale, è un dato indiscutibile, eterno, naturale e quindi a-storico o una condizione che varia nel tempo e che non ha nulla di naturale ma è pienamente storica? La tesi di Bellassai è evidentemente la seconda, fornendocene un esempio seguendo tre periodi ben definiti della storia contemporanea: il periodo a cavallo tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, il periodo del ventennio fascista e il dopoguerra, giungendo fino all’inizio del XXI secolo.
Nel divenire del tempo l’autore individua una variazione nella concezione e nella visione della virilità che, stimolata dalle variazioni sociali ed economiche nate alla fine del XIX secolo, conobbe una ripresa e una nuova concezione:
Nella società italiana fra Otto e Novecento, in particolare, il connubio tra virilismo, concezioni gerarchiche (razzismo, misoginia, omofobia), autoritarismo rafforzò non poco ognuno di questi elementi culturali e politici […]. Un simile conglomerato simbolico, di impianto sostanzialmente tradizionalista, […] perpetuò se stesso nella piena modernità, fino alla seconda metà del Novecento. [pag. 23]
Si consumò così il connubio tra virilità e virilismo, con la scomparsa del primo, divenuto una ovvia appendice del secondo, unica forma accettabile di ideologia:
«Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno […] Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo –, il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore, e il disprezzo della donna.»[pag. 57]

I futuristi, nel loro primo Manifesto del 1909, riunirono magistralmente i diversi elementi di un virilismo trionfante, che mentre esalta la guerra e l’aggressività, non trascura di esibire, come corollario necessario, il disprezzo per la donna.
D’altro canto la donna è quella creatura che:
Chiaramente appare, non per materiale inferiorità mentale e organica, ma per le funzioni inerenti al sesso, non può e non deve tendere a gareggiare col maschio nei lavori mentali e manuali. [L.M.Bossi, pag. 47]
E la segregazione e il disprezzo per la donna raggiunse il suo grado massimo nel ventennio fascista, con osservazioni del tipo:
I veri uomini non hanno bisogno delle donne, anzi, se ne allontanano sdegnosamente. [cit. da Traverso E. in La violenza nazista. Una genealogia]
L’amore per le donne e quello per la patria sono contrapposti [cit. da Theweleit K. in Fantasie virili]

giungendo alla teorizzazione, per la quale la donna “moderna” non può che essere una contraddizione in termini:
Essendo la donna la parte per eccellenza “naturale” dell’umanità, ed essendo natura e modernità due termini opposti e inconciliabili, se la donna era moderna non era più donna, non poteva cioè essere considerata appartenente al genere femminile. [pag 83]
E la difesa della “stirpe” dagli agguati delle femmine e dei “negri” trovò la sua definitiva consacrazione nelle leggi relative alle colonie che:
[consegnarono] a noi italiani il poco invidiabile di aver prodotto la più organica legislazione razzista della storia del colonialismo, seconda soltanto al razzismo nazista e al regime di apartheid sudafricano per ampiezza, rigore, disprezzo per l’uomo e brutale malvagità.[da Rochat G. in Il colonialismo italiano]
Con la fine del fascismo e la sconfitta, anche gran parte dei miti che accreditavano il virilismo come parte essenziale della Nuova Italia impallidiscono fino a divenire per gran parte della società sostanzialmente ridicoli:
il periodo che ebbe al centro la “grande trasformazione” degli anni ’50 e ’60 chiuse definitivamente una pluridecennale fase storica in cui i modelli di mascolinità ispirati al virilismo nella sua declinazione più autoritaria, gerarchica e violenta avevano detenuto una notevole egemonia nell’immaginario collettivo maschile. [pag. 99]
Ma in una forma depotenziata questa concezione della virilità rimase ben presente nella società. Il successo e il dinamismo nella loro accezione innanzitutto pubblicitaria divenne il nuovo marchio “maschile”, supportate da un consumismo che prometteva a ognuno un “quarto d’ora di virilità” in cambio dell’acquisto di un determinato prodotto.
Certamente l’uomo degli anni ’60 […] sarebbe dunque stato moderatamente liberale e tollerante verso le donne, ma anche incline ai piaceri della vita e ai beni voluttuari; giustamente narcisista e individualista, brillante in società e competitivo, pragmatico, scettico e cinico quanto basta. [pag. 115]

Ma a partire dagli anni ’70 l’incontro/scontro con il femminismo e soprattutto con il crescente risalto sociale delle donne, mise duramente alla prova il nuovo virilismo, nato per rassicurare la metà maschile del genere umano, creando una resistenza sorda, un virilismo “informale” basato sostanzialmente su una misoginia frammentaria e disordinata e su una resistenza i cui risultati emergono spesso in modo clamoroso:
l’impressionante ma quasi universalmente ignorato […] fenomeno della violenza maschile sulle donne [pag. 155]
Il libro si ferma alla prima decade del nuovo millennio, non senza, tuttavia, aver lanciato un segnale allarmante che possiamo verificare quotidianamente.
Un ottimo libro, basato su una ricerca storica e bibliografica di grande rilievo. Unico limite – che peraltro l’autore stesso dichiara – è la sostanziale mancanza di qualsiasi riferimento all’omosessualità maschile, un elemento che avrebbe sicuramente arricchito il volume ma probabilmente rendendolo meno immediatamente fruibile. Una lettura che consiglio volentieri ai nuovi galli e ai leoni da tastiera, oltre che ai violenti sotto traccia.
Sandro Bellassai, L’invenzione della virilità, Carocci Frecce [2011], pp. 180, € 17,00
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