Sherlock Holmes è – insieme all’inseparabile Watson, naturalmente – uno di quei personaggi letterari venuti talmente bene al loro autore da essergli, in un certo senso, scappati di mano. Da molto tempo, SH è proprietà comune dei lettori. Di solito questa forma particolare di successo è un guaio, per il personaggio non meno che per l’autore: entrambi sono destinati a ripetersi con poche variazioni, perdendo quello che gli umani chiamano libero arbitrio e che in ambito letterario significa la possibilità di sperimentare (e questo vale per l’uno e per l’altro) nuovi punti di vista, di maturare una diversa visione del mondo. Ma qualche volta autore e personaggio sono particolarmente fortunati e possono continuare a «lavorare» insieme senza perdere il diritto a cambiare. Così, per la consolazione dei lettori affezionati, certi personaggi possono sopravvivere all’autore o alla sua disaffezione, com’è accaduto a Nero Wolfe, risuscitato dalla discreta penna di Robert Goldsborough. o, in ambito fantascientifico, al viaggiatore de La macchina del tempo di H. G. Wells, grazie alla ispirazione sobria ma visionaria di Stephen Baxter. È buffo come questa sorte sia toccata soprattutto a personaggi di autori ottocenteschi: pensate a Dracula, oppure al capitano Nemo o ancora a un altro personaggio di Jules Verne, Phileas Fogg, il protagonista de Il giro del mondo in ottanta giorni, che è stato ripreso persino dall’autore di fantascienza Philip J. Farmer. Sul fronte del Novecento, così su due piedi, mi viene in mente soltanto il Dekart di Blade Runner, ripreso oltre che da K. W. Jeter – e in modo non proprio felice – anche orecchiato da decine di autori minori ed esordienti, sempre in debito con il personaggio cinematografico e poco o nulla con quello letterario – ben diverso – di Dick.
Di questi personaggi eterni SH è senz’altro un esempio particolarmente felice, che ha avuto la fortuna non soltanto di essere ripreso in maniera fedele – ma decisamente anonima – dal figlio di Arthur Conan Doyle, Adrian, ma anche di fare le esperienza più varie, persino di incontrare i marziani (nell’ormai introvabile La guerra dei mondi di Sherlock Holmes). Ovviamente il nuovo autore che si cimenti nell’arte difficilissima del resuscitare i morti deve andarci molto cauto, la monomania degli appassionati non va scambiata per mancanza di palato: gli strappi troppo bruschi, l’incoerenza del personaggio amato, uno stile inadeguato li disgustano e li rendono furenti. Prendiamo appunto SH: per natura è un anarchico individualista, ama la speculazione mentale ma la esercita in un campo ristretto, pur se in maniera molto acuta; non si domanda il significato dell’esistenza ed è più interessato al «come» di un certo comportamento umano aberrante, che al «perché». In compenso è un curioso, ben disposto ad affrontare qualunque discussione pur di ammazzare la noia, e – pregio tutt’altro che secondario per un figlio dell’Inghilterra vittoriana – non è moralista, non giudica. Insomma, è il personaggio ideale per chi volesse fargli incontrare altri personaggi – reali questa volta – della sua epoca o degli anni immediatamente successivi, utilizzando quell’immunità letteraria che consente a chi scrive di raccontare anche cose impossibili, purché lo faccia bene e le renda verosimili. Probabilmente sono stati proprio questi pregi – oltre che l’amore per il personaggio – a tentare Alexis Lecaye, autore di Einstein e Sherlock Holmes (oltre che di Marx e Sherlock Holmes, che credo non sia stato ancora pubblicato in Italia). Questa volta il primo a scendere in campo non è Sherlock ma il dottor Watson, una buona scelta narrativa che aumenta le aspettative dei lettori e protegge l’autore da eventuali goffaggini. Il buon dottore viene spedito a Berna, da un Holmes già ritiratosi in campagna ma inafferrabile come sempre, a indagare sull’omicidio cervellotico di uno pseudoscenziato interamente votato alla ricerca sul moto perpetuo. Sospettando che in realtà Holmes voglia sbarazzarsi di lui e condurre a termine misteriosi traffici privati con una donna ancora più misteriosa, Watson ha la testa altrove e non alza quasi lo sguardo quando sul ponte del traghetto per Dieppe incontra una gruppo di rivoluzionari russi raccolti attorno al loro giovane capo: un tizio dal viso molto particolare, se vogliamo: calvo, occhi stretti e obliqui, naso camuso, barbetta corta… Ovviamente gli strani compagni di viaggio giocheranno una parte non secondaria nell’indagine, durante la quale Watson non soltanto incontrerà la misteriosa amica di SH ma anche gente curiosa come un certo Mussolini, giovane socialista romagnolo (ridotto a una macchietta), e un simpatico Einstein ancora impiegato all’ufficio brevetti di Berna ma già completamente assorbito dalla teoria della relatività, un argomento che SH non si lascerà sfuggire, dando s’intende, qualche modesto contributo. Con l’aiuto di Einstein l’indagine verrà portata a termine: Holmes giungerà alla soluzione come al solito per via deduttiva, anche grazie alle sue discrete conoscenze di termodinamica; anche Watson riuscirà a venirne a capo, ma in maniera decisamente meno elegante e intellettuale. Del resto, come in altre celebri coppie investigative (in primis Nero Wolfe e Archie Goodwin), Watson è soltanto metà del duo, il braccio, non la mente…
Il romanzo è una lettura discreta, talvolta diverte davvero e nell’insieme non annoia. L’idea di accostare SH a un «personaggio» così particolare come Einstein, facendoli incontrare sull’unico terreno che possono avere in comune, il metodo di indagine, è decisamente geniale. Meno efficace l’aver tirato in ballo anche Mussolini e la rivoluzione russa, indubbiamente molto attuali nella Berna del 1905, ma davvero difficili da incastrare in un romanzo giallo già occupato dal padre della relatività. Un’altra buona scelta è stata quella di aver accordato a Watson una maggiore libertà d’azione, giocando sui suoi tic e sulla sua visione puritana del mondo: avergli fatto incontrare – proprio a lui così per bene e morigerato – un produttore ante litteram del viagra è stata un’idea decisamente carina, ma l’autore, probabilmente per prudenza, ha preferito non giocare la sua carta fino in fondo e, forse, ha perso un’occasione. Non sempre convincente lo stile, più accurato di quello di Conan Doyle, ma anche meno dotato di ritmo. Comunque non c’è male, anche se il romanzo viola la regola numero uno (o forse la numero due) del Giallo (eh già! Se vi dico qual è, poi è inutile che leggiate il romanzo). Aspetto Marx, comunque, io.
Alexis LeCaye, Einstein e Sherlock Holmes
Hobby & Work, 2002, ed. or. 1989, pp. 276, € 15,50, trad. M. Di Febo
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