Devo confessare di aver sempre provato una certa diffidenza per Antonia Byatt, la stessa che provo per certi “giganti” del teatro shakespeariano o in generale per tutto ciò che è troppo lodato, stimato e considerato per essere davvero interessante. Spero che, a questo punto, gli amanti dell’autrice inglese non abbiano già abbandonato la recensione commentando ad alta voce: «Che ignorante!» Dopo la lettura di questa antologia i sospetti non mi hanno lasciato, ma in più di un’occasione, durante la lettura, sono stati travolti dal puro e semplice piacere della lettura. Piacere che ho provato, intenso, palpitante e malinconico con il racconto lungo che dà il titolo alla raccolta, cronaca di una vita familiare raccontata con amichevole pudore, con un fare apparentemente svagato che nasconde sotto il tono vivace e adolescenziale la precisione impietosa del ricordo rivissuto, ripensato a distanza di anni. Ecco ciò che potete trovare in questo racconto: una vita familiare fatta di calcolate disattenzioni, di fughe, silenzi, equivoci senza lieto fine ma destinati all’oblìo, giudizi obliqui e incompleti tra diseguali, anni d’infanzia passati all’ombra del mistero della vita adulta. Fino a costruire – pagina dopo pagina – una storia sedimentata e definitiva, ma, sorprendentemente, sempre aperta a successive riletture. Un racconto d’infanzia raccontato da adulti, con la matura amarezza per le occasioni non colte e le cose non comprese, uno sguardo alla vita, ciò che non sappiamo come spiegare e dobbiamo leggerne. Meno definitivi ma il più delle volte altrettanto incisivi gli altri racconti: Lacrime di coccodrillo, storia difficile di un amore nato alla maturità, La Barbona, brevissimo racconto nato dall’orrore per i centri commerciali, false città dove l’unica cittadinanza possibile è il possesso, Giaele, storia di un episodio di gioventù che racchiude in sé, compiuto, il futuro, Cristo nella casa di Marta e Maria, metafora fin troppo fortemente cercata dell’impotenza dell’arte in rapporto alla vita. Qualche riserva, viceversa, per i racconti più spiccatamente fantastici: Una lamia nelle Cevenne, e Freddo, il primo affetto da uno snervato estetismo decadente tale da abolire qualunque abbandono fantastico, il secondo un calco fin troppo evidente dei Racconti Gotici di Karen Blixen, per quanto suggestivo, debole proprio nel riprodurre la sensualità capricciosa e ossessiva dell’autrice danese.
Parlavo all’inizio di diffidenza non del tutto dissipata dalla lettura. Il problema di Byatt sta, probabilmente, nell’eccessivo controllo del mezzo letterario, nell’eleganza e nella purezza dello stile che, spesso, sorregge il testo fino a sostituirsi ad esso, soprattutto quando il tema o la vicenda non appaiono troppo promettenti. D’altro canto l’abilità calligrafica di Byatt in certe descrizioni è semplicemente spettacolare ed è forse in grado di creare sottile emozione senza l’aggiunta di molto altro. Per me non è così, e preferisco di gran lunga la trattenuta emozione di Zucchero ai toni gelidi e sognanti di Freddo. Ma può essere solo una questione di gusti.
Antonia Byatt, Zucchero ghiaccio vetro filato
Einaudi ET Scrittori, 2002, trad. A. Nadotti, F. Galuzzi – pp. 187 – € 8,50
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