Il libro di Segev, giornalista e storico israeliano non affronta il conflitto tra ebrei ed arabi, ma analizza invece il significato che il genocidio di sei milioni di ebrei perpetrato dai nazisti, la Shoah, ha avuto per la formazione dei cittadini di Israele (identificati dall’autore in un ideale settimo milione). Anche leggendo questo saggio si hanno delle sorprese: si scopre che prima lo yishuv (la comunità di ebrei presenti in Palestina prima della fondazione di Israele) e poi il giovane Stato israeliano ebbero un atteggiamento di condiscendenza e talora di disprezzo nei confronti degli ebrei della Diaspora (che definivano “il resto”) e dei reduci dell’Olocausto. Ai primi veniva rimproverato lo scarso entusiasmo con cui avevano aderito alla causa di una patria ebraica, che necessitava di una massiccia immigrazione per poter nascere e sopravvivere: degli ebrei di Germania «soltanto uno su dieci si rifugiò in Palestina», e molti di coloro che emigrarono negli anni ’30 ebbero seri problemi di inserimento, abituati com’erano agli standard di vita europei (molti di loro erano liberi professionisti, commercianti, impiegati). Colpisce riscontrare in quante occasioni gli ebrei di Palestina definirono questi immigrati con il termine di “materiale umano”. Questi immigrati dovevano, nelle intenzioni dello yishuv, essere riplasmati per forgiare un modello di “ebreo nuovo”, disposto a lavorare e difendere la terra acquisita. Perciò l’Agenzia ebraica in Europa distribuì i certificati di immigrazione operando una selezione, che si basava su età, salute, attitudini professionali, ma anche su condotta morale ed opinioni politiche, in forza di una sorta di manuale Cencelli ante litteram («ogni partito cercava di aggiudicarsi il maggior numero possibile di certificati per i propri iscritti e simpatizzanti»). Quanto allo sterminio degli ebrei in Europa, le notizie che giungevano in Palestina non suscitarono inizialmente grandi reazioni: un articolo sulle atrocità commesse dai tedeschi a Karkov, in Ucraina, fu messo in seconda pagina «con un titolo a una sola colonna, preceduto dall’annuncio della grande vittoria della squadra dello yishuv a Damasco». Segev rimprovera all’Agenzia ebraica di non essersi impegnata maggiormente, quando furono chiare le dimensioni del genocidio, nel salvare gli ebrei europei («soltanto pochi si salvarono per intervento del movimento sionista»), ma ammette:
Benché sia indubbiamente vero che i dirigenti dello yishuv avrebbero potuto dimostrare maggiore compassione ed empatia verso gli ebrei d’Europa, è anche vero che non avrebbero potuto fare di più per salvarli. […] L’Olocausto segnò la sconfitta del sionismo, il suo fallimento. In sostanza non era riuscito a convincere la maggioranza degli ebrei d’Europa a recarsi in Palestina finche erano ancora in tempo. Poi, nel momento del bisogno, il movimento era stato troppo debole per aiutarli davvero.
Quando i superstiti approdarono in Palestina, l’accoglienza dello yishuv fu tutt’altro che entusiastica: venivano ritenuti dei rifiuti sociali, dei disadattati incapaci ad adeguarsi all’ideale di uomo nuovo che Israele voleva costruire; oltretutto il loro arrivo in Palestina prima del 1948 comportava, a causa della limitazione delle quote di immigrazione imposta dal mandato britannico, una restrizione degli accessi di elementi ritenuti più adatti alla vita dei kibbutz. Nessuno, nello yishuv, voleva ascoltare il racconto delle loro drammatiche esperienze (il che per molti superstiti fu un vero trauma): la Shoah non costituiva un modello ideale per il nuovo Stato di Israele, che poneva come ebreo ideale il combattente di Masada, disposto a morire anziché essere preso prigioniero; «le vittime venivano biasimate per essersi lasciate uccidere dai nazisti senza lottare per la vita o almeno per il diritto ad una morte onorevole» ed ai superstiti (che nel lessico dello yishuv cominciarono ad essere chiamati “saponi”) veniva quasi rimproverato il fatto di essere sopravvissuti; invece la rivolta del ghetto di Varsavia venne esaltata, come esempio di ebrei della Diaspora che non erano andati incontro alla morte passivamente. Una svolta nell’elaborazione dell’Olocausto in Israele si ebbe con il processo a Eichmann nel 1961: secondo Segev, più che di un processo si trattò di uno psicodramma collettivo, in cui gli Israeliani, identificandosi con le vittime dello sterminio, finalmente introiettarono l’esperienza della Shoah, che venne accolta come patrimonio collettivo, come valore di cui non vergognarsi, ma su cui fondare il senso di appartenenza allo Stato. Questo nuovo atteggiamento troverà il suo estremo sviluppo in Menahem Begin:
grande divulgatore dell’Olocausto, seppe più di ogni altro diffonderlo e politicizzarlo. Maestro nell’uso del gesto simbolico, non si lasciò sfuggire nessuna occasione per brandire l’Olocausto come un’arma con cui combattere le sue battaglie politiche e rafforzare la propria immagine.
Purtroppo questo atteggiamento ha portato Begin ad affermare che «Nessuno, in nessuna parte del mondo, può fare la morale al nostro popolo» in risposta alle critiche sollevate dall’opinione pubblica internazionale all’operato di Israele («Un’affermazione analoga compare nella risoluzione del Consiglio dei ministri dopo la strage nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila avvenuta nel settembre del 1982»). Oggi una delle più importanti scommesse per il futuro di Israele è decidere cosa fare del retaggio della Shoah.
La consapevolezza dell’Olocausto, al pari della religione e dell’ideologia sionista, svolge un ruolo primario nel dibattito sui valori fondamentali cui dovrebbe ispirarsi la società israeliana. Secondo alcuni sarebbe meglio che gli israeliani dimenticassero l’Olocausto, dal momento che ne traggono insegnamenti sbagliati. Certo, la scuola e le celebrazioni ufficiali alimentano spesso lo sciovinismo e l’idea che lo sterminio nazista giustifichi qualsiasi azione purché giovi alla sicurezza di Israele, compresa la repressione della popolazione palestinese nei Territori occupati. […] Parlare dei rischi che comporta il culto della memoria non significa però sostenere che gli israeliani farebbero bene a dimenticare l’Olocausto. Non possono e non devono dimenticare. Quello che devono fare è trarne conclusioni diverse. L’Olocausto chiede a tutti noi di tutelare la democrazia, combattere il razzismo e difendere i diritti umani. […] Certo non sarà facile inculcare gli insegnamenti umanistici dell’Olocausto finche Israele lotterà per difendersi e per giustificare la propria esistenza. Ma farlo è essenziale. È questo il compito del settimo milione.
Tom Segev, Il setttimo milione. Come l’Olocausto ha segnato la storia di Israele.
Mondadori Le Scie 2001, pp. 532, € 20,14, Trad. C. Lazzari
Idem
Mondadori Oscar 2002, € 9,00
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