A guardarlo, Hallgrímur Helgason, con quella sua testa glabra e lo sguardo severo – di più: glaciale – negli occhi, e quella camicia bianca abbottonata stretta sotto il collo, non gli dareste due lire. O quanto meno: non direste mai che è un brillante autore di un brillante romanzo caso letterario in Islanda, da cui è già stato tratto un film in seguito al quale questo 101 Reykjavìk è stato tradotto in tutto il mondo. E invece è proprio così. Contrariamente alle apparenze, non è un ricercato dell’FBI, non è uscito ieri da un ospedale psichiatrico e non fa parte nemmeno di una compagnia teatrale che ha messo in scena un dramma sull’olocausto con lui nel panni del geraraca nazista. Al contrario, Hallgrímur Helgason è un artista a tutto tondo: pittore, illustratore, giornalista, commediografo, attore comico. E, appunto, ispirato romanziere.
Hlinur ha trentatrè anni, una passione per i film pornografici, per la masturbazione, e per i duecento e passa canali che riesce a raggiungere grazie alla sua parabola satellitare. Il padre, semi-alcolista, convive con una ragazza più giovane, e Hlinur si trova a condividere la casa con la madre. Anche la madre convive con una ragazza più giovane: lesbica ma dall’identità sessuale comunque un po’ confusa, Lolla è una delle figure chiave del romanzo. Adorato dalla madre con un impeto che ha un che di italico (sfumatura che temo apprezzeremo soltanto noi), forte del suo sussidio di disoccupazione da paese nordico, Hlinur passa le sue giornate – e le sue nottate – vivendo, puramente e semplicemente, muovendosi senza fare alcunché, stando ben attento a non interrompere né influenzare il consueto scorrere della vita al riparo dalla quale si è costruito una sua confortevole nicchia. Attratto dalle donne (che classifica in base a quanti fiorini sarebbe disposto a spendere per una notte di sesso con loro), ma atterrito da qualsiasi cosa assomigli a un rapporto fisso, Hlinur s’intrattiene quotidianamente con Katarina, ragazza ungherese con cui comunica via chat. Le migliaia di chilometri fra loro, sedicenti innamorati dell’era internet, rappresentano una garanzia per la libertà così come piace a Hlinur.
Divertente e rocambolesco, eccessivo e grottesco, Helgason ci mostra un’Islanda davvero poco dissimile da qualsiasi altro paese occidentale: per usi e costumi, per vizi e virtù, per mentalità e luoghi comuni. Il tutto in uno stile che ha molto di «scrittore britannico dell’ultimo periodo», vedi Irvine Welsh, vedi Tibor Fisher; una scrittura rapida, dal taglio molto cinematografico, quasi un enorme monologo in cui Hlinur si racconta interamente come in una lunga, e quanto mai catartica, confessione finale.
È grazie a un editore intelligente come Guanda che l’Italia scopre un autore come il quarantareenne islandese Hallgrímur Hellgason, sia pure limitatamente a quel 101 Reykjavik che, come ci ha premurosamente spiegato, costituisce solo una parte della sua opera. Opera eclettica, decisamente eclettica: non solo per la disparità di tematiche o di stili o di generi di cui si compone, ma per la varietà dei mezzi stessi con cui Hellgason si esprime. Accanto all’Hallgrímur scrittore di successo esistono altri alter ego che amano occuparsi di pittura, cinema, sceneggiature, poesie. O fumetti: come per quanto riguarda la saga di Grim, personaggio che non fa che caricaturizzare il suo creatore, ivi dipinto con due lunghe zanne da tricheco e intento a proferire acidissimi commenti sul mondo che lo circonda…
Qual è la funzione di Grim, il tuo alter ego dei fumetti? E soprattutto, perchè dipingerti/dipingerlo così… brutto?
Quando vuoi esprimere te stesso senza necessariamente esporti in prima persona, è buona cosa avere a disposizione un alter ego. E se ti prendi gioco del tuo stesso personaggio – rendendoti di aspetto poco piacevole, ad esempio – è poi assai più facile prenderti gioco anche delle altre persone.
Quali erano gli obiettivi e le prerogative che avevi in mente quando nel 1995 ti sei seduto a un tavolo e hai cominciato a scrivere 101 Reykjavik?
Sostanzialmente volevo scrivere un romanzo attorno alla figura di Hlinur Björn. È lui la vera causa di questo libro. I tratti principali del suo personaggio li avevo in mente sin dal 1990, e con lui giocavo in vario modo, usandolo nei miei programmi radio ad esempio, assumendo io stesso le sue caratteristiche e il suo pensiero. La cosa rendeva la gente veramente arrabbiata, arrabbiata che una persona così orribile potesse addirittura dirigere un programma in radio! Nessuno aveva capito infatti che io stavo essenzialmente recitando una parte, la parte di Hlinur Björn nella fattispecie. Mi è sempre parso un bel personaggio, divertente e insieme innegabilmente triste. Attraverso di lui rappresento estremizzandola un certo tipo di società, fatta di un modo di vivere molto superficiale, dove la gente trova più naturale confrontarsi con una realtà mediata dalla televisione che con la vita reale. E poi trovo che rappresenti un qualcosa di nuovo nel panorama islandese: ho trovato molto stimolante scrivere un libro su un uomo che odia tutto quello di cui noi siamo così orgogliosi, vale a dire tutte quelle cose che finiscono in «-tura» – cultura, natura, e letteratura!
Eppure Hlinur ha una dimensione che inevitabilmente trascende le sue radici, il suo contesto islandese, così come lo stesso tuo romanzo non è un romanzo esclusivamente islandese.
Certo. Certi personaggi della mia generazione o di quella successiva alla mia, erano esattamente come lui: gente che ha fumato troppo erba quando era giovane, che è andata troppo fuori dai binari della vita ordinaria, con il risultato di essere lasciati ai margini della vita stessa. Spettatori neutrali di un gioco a cui non partecipano, ma che si limitano a osservare dicendo tra sé e sé ogni tanto: «Wow, man!». Sanno tutto del rock’n’roll, del cinema e del calcio, ma niente delle loro madri, delle loro nonne, della famiglia, delle donne, dell’amore o dei bambini. Hlinur è il compendio di questa tipologia umana, rappresenta più una certà realtà sociale – non specificatamente islandese, come hai potuto intuire – che non la realtà di un singolo.
Hai parlato di Islanda, com’era logico aspettarsi. Ma in genere si parla poco di Islanda, e dell’Islanda e degli Islandesi si sanno i soliti luoghi comuni che anche noi italiani, universalmente dipinti a base di mafia, pizza e mandolino, ormai malsopportiamo.
L’Islanda è una presenza costante e molto forte nei miei lavori. Non riuscirei ad ambientare una mia storia in un contesto che non conosca più che bene, e quindi ancorarla a dei posti, a dei luoghi a me familiari. Ritengo l’ambientazione una parte molto importante di un racconto o di un romanzo. Gli Islandesi sono un popolo speciale. Amano la letteratura più che gli altri popoli e hanno una forte relazione con essa. Ho sempre avuto reazioni molto forti dalla gente, quando pubblico un racconto, ricevendo una risposta tale che non può voler dire altro che quanto scrivo viene letto molto. Ed è una situazione ottimale per uno scrittore, direi. L’Islanda è il paradiso per uno scrittore. Perché la gente non si limita a leggere le tue di storie, ma vorrebbe che tu innanzitutto raccontassi le loro: vorrebbero che tu usassi loro e i loro personaggi per popolare tutte le storie che scriverai in futuro! Una volta incontrai un ragazzo in un aereoporto, era vagamente ubriaco. Stava tornando a casa per una qualche festa organizzata in serata, e mi fece promettere che avrei parlato di lui nel mio prossimo libro: perché, sosteneva, se poteva dire alla festa che io gli avevo promesso tanto, tutte le ragazze avrebbero fatto follie per dormire con lui! Questo fu uno dei migliori complimenti che abbia mai ricevuto, e un buon esempio di come la letteratura occupi un posto particolare nel cuore di tutti gli Islandesi.
Hlinur, l’anti-eroe del tuo libro, sembra quasi il tuo opposto. Abbiamo imparato a conoscere Hallgrímur Helgason non solo come scrittore, ma anche come pittore, fumettista, attore, poeta, e la cosa potrebbe far pensare che tu sia una macchina in continuo movimento, che non conosca requie. Hlinur invece si lascia vivere, senza fare assolutamente nulla, nell’ozio più assoluto. Una sorta di Oblomov moderno. Qual è la relazione tra voi due? Davvero siete così agli antipodi o invece quanto c’è di Hlinur in Helgason, o quanto di Helgason in Hlinur…
Hlinur vive dentro ciascuno di noi, o per lo meno: dentro ciascuno di noi maschi! Ho avuto un periodo abbastanza difficile nei due anni successivi alla pubblicazione del libro, quando la gente pareva identificare me con Hlinur, e non accidentalmente, ma con assoluta convinzione. La gente è sempre molto superficiale in queste cose, e dimentica il vero ruolo della fiction. Io non sono Hlinur, ma Hlinur è o era una parte di me. Lui venne fuori dalle mie labbranell’estate del 1990, semplicemente, come se si trattasse di un miracolo. Io l’ho generato, io l’ho fatto nascere, e lui è il mio figlio: il mio orribile, prigro, irresponsabile bastardissimo figlio, che amo teneramente!
Quali furono le prime reazioni della critica alla pubblicazione di 101 Reykjavik?
Quando il libro venne pubblicato nel 1996, tutto quello attorno a cui ruotavano i commenti era la masturbazione! La gente parlava solo di quello. «Ma si masturba a ogni pagina!», «Questo è orribile! Una masturbazione infinita!». Reazioni più che normali se consideri che gli islandesi non sapevano che cosa fosse la masturbazione nel 1996. Ora comunque hanno imparato.
Il regista islandese Baltasar Kormákur ha diretto il film omonimo tratto dal tuo romanzo, film che per altro non è mai stato licenziato in Italia. Qual è la reazione di uno scrittore quando vede il proprio romanzo trasposto in una cornice così diversa, come può essere appunto la dimensione cinematografica? Sei soddifatto del risultato?
Mi piace il film, per quanto sia diverso dal mio libro. Il personaggio di Hlinur è meno marcato, come se fosse una versione soft dell’Hlinur del romanzo. Ma è comunque un buon personaggio nell’ambito di un buon film. E che il film sia buono lo dimostrano tutte le attenzioni che ha ricevuto, ha vinto un sacco di festival ed è stato distribuito in tutti i principali paesi… meno l’Italia, e di questo mi dispiace molto. Ho sempre dato al regista carta bianca, e trattandosi di un film, del suo film, era giusto che fosse così. Io ho semplicemente curato un po’ la sceneggiatura, e mi sono limitato a fare capolino sul set di tanto in tanto. In quei momenti ho provato delle sensazioni particolari, come ad esempio quando mi sono ritrovato nella casa di Hlinur, una casa che avevano montato negli studi. È stato come sedersi nel proprio cervello, fisicamente dentro il proprio racconto. Penso che questa esperienza abbia influenzato il mio romanzo successivo, The Author of Iceland, pubblicato nel 2001: la storia di un vecchio e famoso scrittore che muore e si sveglia all’interno di un suo racconto, che aveva scritto cinquant’anni addietro.
Pensi che il successo di 101 Reykjavik abbia aiutato la gente a scoprire le altre tue opere – siano esse racconti, romanzi o dipinti – o abbia invece finito per mettere in ombra queste ultime? Penso sia un interrogativo costante che molti scrittori si pongono: dopo aver realizzato un libro di successo, si rischia che il loro nome venga sempre collegato al medesimo titolo…
Io spero che possa funzionare da introduzione ai miei altri lavori. The Author of Iceland è un tipo di romanzo completamente differente, su di un uomo nato nel 1912 e ambientato in campagna. È stato ricevuto assai meglio di 101 Reykjavik, in Islanda, dove comunque sono soprattutto noto per il mio secondo romanzo, uscito nel 1994, dal titolo Things Are Going Great. Spero che i miei libri vengano maggiormente tradotti. Sento di avere così tanto da scrivere, ancora: o almeno, così spero. Libri, commedie, sceneggiature. Questo è solamente l’inizio!
Trovi che la tecnologia abbia contribuito a riavvicinare le persone? Prendi ad esempio la storia d’amore virtuale tra Hlinur e Katarina. O anche quell’immane mole di informazioni che Hlinur si digerisce tramite la tv via satellite…
Non so. Tutte queste cose nuove hanno creato una maggiore distanza tra le persone, e forse hanno reso le persone più sole. I giovani sono tendenzialmente single, vivono da soli e le loro nonne vivono anch’esse sole nei loro appartamenti. Tutti sono più soli, ma in realtà non lo sono mai. Abbiamo tutti il nostro cellulare, l’e-mail, internet e la Tv. Penso che i telefoni cellulari abbiano cambiato la nostra vita più di quanto non lo stia facendo internet. Puoi essere raggiunto ovunque, dovunque tu sia: non sei mai solo. Questo è stato davvero un grande cambiamento.
Personalmente, mi piacciono le nuove tecnologie perché trovo si adattino bene alle mie esigenze. Ad esempio: io odio parlare al telefono. Semplicemente, non mi piace usarlo. Forse l’uomo non è fatto per parlare al telefono. Forse gli fa male. E quando inventarono gli sms, per me si aprirono le porte del paradiso. Sento molto di più i miei amici ora tramite sms di quanto non facessi in passato chiamandoli al telefono. È un tipo di contatto differente. Hai maggiore controllo, e la stessa cosa si può dire dell’e-mail. Entrambe le cose – gli sms e le e-mail – mi hanno liberato dalla schiavitù di rispondere al telefono, cosa che adesso non faccio mai, infatti: quando mi chiamano, si inserisce la mia segreteria telefonica che comunica il mio indirizzo di posta elettronica. Questo ha rappresentato per me uno dei più grandi cambiamenti della mia vita. La mia anima ora è in pace. E oltretutto ho sentito che i ragazzi flirtano abitualmente con le ragazze tramite sms, rendendo le cose molto più facili di un tempo. In un certo senso questo ci riporta indietro al Medioevo, quando i messaggeri portavano da un capo all’altro del regno lunghe lettere d’amore. Siamo sopravvissuti alla tortura del XX secolo con tutto questo disperato silenzio interrotto da rumorose e fastidiose chiamate sul telefono, e siamo entrati nell’era della pace dello spirito: l’armonia portata dalle nuove tecnologie!
Parliamo dell’Hallgrímur Helgason pittore…
Quando hai 19 anni e i tuoi genitori ti chiedono che cosa vuoi fare nella vita, non puoi dire: voglio fare lo scrittore. È molto più facile dire: andrò alla scuola d’arte. E fu quello che feci, andai alla scuola d’arte. Per un anno. Non mi piacque molto, al tempo, non ti insegnavano niente, nessuna tecnica particolare, volevano semplicemente che tu «esprimessi te stesso». Ragion per cui iniziai a dipingere per conto mio, imparando tutto per conto mio, e così andai avanti. Dipingevo cose assolutamente old-fashion, salvo poi evolvermi successivamente. E finalmente, dopo aver passato tre anni della mia vita nella giungla d’artisti di Manhattan senza molto successo, mi trasferii a Parigi e trovai il mio stile, tenni le mie mostre nelle gallerie eccetera eccetera, ma poi incominciai a scrivere, e scoprii che si facevano anche più soldi così. La conseguenza fu che se prima passavo a dipingere sei mesi all’anno, ora ne passo tre settimane scarse. Questo è fondamentalmente il motivo per cui mi sono inventato il fumetto di Grim, fatto al computer, e stampato da un computer con una nuova tecnologia come la stampa digitale. Questo mi consente di avere più disegni in meno tempo, e alcuni di questi li puoi trovare nella mia homepage: www.birtingur.is/hallgrimurhelgason.
Ed è esattamente dove li ho trovati. C’è qualcosa che le arti visive ti consentono di esprimere, che invece non puoi esternare attraverso una poesia o un romanzo?
Domanda difficile. Tutte le idee che mi vengono in mente, vengono fuori anche con ben chiaro il mezzo con cui realizzarle, come fossero marchiate: questa è per un racconto, questa per una poesia, questa per una sceneggiatura, un articolo, un quadro, un cartone… Ragion per cui non ho mai pensato alla difficoltà di esprimere un concetto con un mezzo diverso che non sia quello a cui avevo già naturalmente pensato.
Divertenti i commenti sulla poesia che si trovano sul tuo sito. «Penso che quegli scarni volumetti dei giovani poeti siano i libercoli più privi di speranza che puoi trovare in assoluto», dici. E soprattutto: «Le mie poesie non sono scritte come forma di protesta verso la poesia moderna, astratta e priva di forma. Sono state scritte per disgusto della poesia moderna, e perché scrivere poesie in metri e rime è decisamente più divertente».
La poesia oggi è un caso senza speranza. Nessuno la compra, nessuno la legge, nessuno la vuole. Nessuno sembra nemmeno volerla scrivere. Alcuni scrittori pubblicano un libro di poesie, ma poi passano a «cose più serie» come scrivere racconti, romanzi o sceneggiature. Penso che la poesia moderna abbia in realtà distrutto la poesia. La gente la trova noiosamente astratta, non la capisce e non ne ha rispetto. È per questo che non condivido la teoria per cui sarebbe il pubblico che ha rinunciato a leggere poesie: è la poesia che è morta, uccisa dagli stessi poeti. O quanto meno, per me è morta. La cosa che ho cercato di fare personalmente è stata quella di trovare una via d’uscita, tornando indietro alle radici, senza essere così inguaribilmente serioso, ma scrivendo anzi ironici poemetti e poesie sentimentali o le elegie dedicate alla mia defunta nonna materna. Insomma, tutte quelle cose che nessuno si aspetterebbe da un poeta del XX secolo. I miei libri di poesia hanno venduto bene, in confronto agli altri, ma è ancora uno shock per me dare alle stampe un libro che, dopo tre romanzi di buon successo, è comunque destinato a essere un prodotto invisibile sul mercato. Forse il rap si evolverà in una nuova forma di poesia e salverà dall’estinzione quella che è la più antica forma d’espressione letteraria dell’uomo.
Ultima domanda. In questi anni ci siamo fatti sonore scorpacciate di Bjork, ma non mi vorrai mica dire che l’Islanda non è capace di produrre altri artisti di valore?
I Sigur Ròs sono il miglior gruppo del pianeta, al momento. Sono quattro ragazzi islandesi delle periferie di Reykjavik che suonano indistintamente chitarre elettriche e violini, mischiando rock e musica classica. Il famoso quartetto di archi americani The Kronos Quartet (che aveva già lavorato per Elvis Costello, N.d.A) suonerà due loro pezzi nel prossimo tour, e i Sigur Ròs hanno anche un loro brano nella colonna sonora di Vanilla Sky. Se hai i soldi per comprarti un unico cd all’anno, scegli i Sigur Ròs. E poi c’è Emiliana Torrini, cantante italo–islandese che vive a Londra e delle quale ti innamorerai in capo a due minuti sentendola cantare. E se sei timido, di temperamento artistico e hai ventidue anni, dovresti anche sentirti qualcosa dei Mùm. Ma se hai invece un animo devoto al metal, i Minus sono la band giusta per te! O se, invece, hai 67 anni e hai rinunciato a comprarti delle scarpe nuove, i bravi vecchi Mezzoforte potrebbero essere pane per i tuoi denti!
101 Reykjavik
TEA due, 2003
pp. 360, € 8,00
trad. S. Cosimini
Il più grande scrittore d’Islanda
Guanda, 2003
pp. 488. € 16,00
trad. S. Cosimini
Toxic
ISBN ed., 2010
pp. 291, € 15,00
trad. S. Cosimini
da LN-LibriNuovi n. 21 – marzo 2002