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    Interzona

    Guerre antiche e guerre non troppo antiche

    • di Massimo Citi
    • Ottobre 23, 2012 a 2:35 pm

    di Massimo Citi

    La guerra del Peloponneso fu, nel suo contesto storico, l’equivalente dei conflitti mondiali del XX secolo: causò immense perdite di vite umane ed enormi rovine, esacerbò l’ostilità di classe e di fazione, divise gli Stati greci e ne destabilizzò i rapporti, minando la loro capacità di resistere a una conquista dall’esterno.


    Ai tempi della guerra di Bosnia e, più recentemente, per le campagne d’Afghanistan e d’Iraq si è spesso fatto uso in maniera spregiudicata di concetti come «civiltà» e «democrazia». Di «alleanza dei volenterosi» partiti per liberare e pacificare il Medio Oriente, sconfiggendo definitivamente i malvagi tiranni e i perfidi terroristi da essi foraggiati e sostenuti.

    In altri tempi si sarebbe parlato di «propaganda», ovvero di una forma pianificata di menzogna destinata a convincere amici e spettatori delle proprie buone ragioni. Il valore della propaganda e il suo contenuto di verità, ovviamente variabile, è definito a posteriori. A deciderlo, naturalmente, i vincitori.
    Buona parte del valore del libro di Kagan, al di là della pur efficace e incisiva narrazione di eventi politici e militari, sta nella sua capacità di cogliere e mettere in luce il legame – raramente apparso con tanta evidenza – tra guerra, politica e propaganda.
    La guerra del Peloponneso, infatti, prima che un conflitto combattuto per teatri che andavano dall’Asia Minore alla Sicilia e coinvolgendo a vario titolo altri popoli e stati – persiani, cartaginesi, etruschi, macedoni egizi –, è stata guerra politica, contrapposizione di visioni del mondo e di forme statuali.


    Alla fine del V secolo a.C. Atene era capitale di un potente impero marittimo, punto di raccordo di traffici e commerci che coprivano l’intero Mediterraneo. Città non soltanto ricca e culturalmente vivacissima ma soprattutto culla della prima forma di democrazia nella storia del genere umano.

    A essa si contrapponeva Sparta, stato continentale che traeva il suo sostentamento dalle terre dominate nel Peloponneso e nel quale un complicato equilibrio di poteri regolava – non senza problemi – la vita politica. Lo stato spartano era essenzialmente un’oligarchia latifondista su base ereditaria che dominava un vasto popolo di schiavi privi di diritti civili.
    Lo scontro tra entità politiche tanto potenti e così radicalmente diverse era inevitabile. Uno scontro che, per la prima volta nell’Antichità, fu anche guerra civile e scontro politico tra fautori della democrazia e sostenitori dell’oligarchia.
    Ma se Atene era il riferimento d’eccellenza dei democratici di tutte le comunità greche dell’epoca, Sparta poteva presentarsi come paladina della libertà politica delle piccole città e delle isole esposte al predominio economico del potente impero Ateniese, la cui flotta militare non aveva competitori nei mari della Grecia.
    Democrazia contro Indipendenza: così venne presentato (e interpretato) il conflitto, soprattutto in rapporto a necessità e contingenze militari e tattiche. Ma, come spesso accade, tali contingenze determinarono via via situazioni inedite e impreviste, tanto che non furono rari i casi nei quali città a ordinamento democratico si trovarono a battersi dalla parte di Sparta mentre gruppi di oligarchi chiesero l’aiuto della flotta ateniese.
    Un esempio per tutti: l’attacco ateniese a Siracusa, una democrazia alleata di Sparta, che segnò l’inizio della fine per Atene.


    Personaggio centrale nella decisione dell’attacco a Siracusa fu Alcibiade, abilissimo politico e stratega audace anche se non sempre all’altezza del giudizio che aveva di se stesso. Kagan riprende da Tucidide un brano dell’orazione di Alcibiade davanti all’assemblea degli ateniesi, un brano rivelatore:

    È così che si giunse a conquistare un impero, non solo noi, ma anche tutti coloro che hanno imposto il loro dominio: accorrendo, cioè, sempre e con sollecitudine accanto a coloro che invocavano il nostro aiuto, fossero barbari o greci.

    Bontà sua Alcibiade aveva il grosso pregio di parlare chiaro («È così che si giunse…»), tanto da non dover giustificare i reali intenti ateniesi con il sospetto dell’esistenza di armi di sterminio di massa. Resta però l’«accorrendo con sollecitudine», una sollecitudine quantomeno un po’ sospetta.
    È soltanto uno dei brani che Kagan estrapola da Tucidide con criteri che non solo determinano il suo severo giudizio sui governanti ateniesi ma sembrano proiettarlo anche su tempi a noi molto più vicini.
    Se infatti egli in più occasioni nega, argomentando con precisione e intelligenza, che alla base della sconfitta ateniese vi fosse «un eccesso di democrazia», ovvero il trionfo di accorti demagoghi su un popolo bue, tesi per decenni sostenuta dagli storici di orientamento conservatore, è altrettanto nitido e preciso nel mostrare i limiti di una leadership ateniese che, dopo Pericle, seguì una politica confusamente (e disastrosamente) aggressiva, spesso guidata da semplice paranoia.


    Non è la struttura democratica dello stato, in sostanza, a dover essere messa in discussione, ma errori, mancanze e difetti di chi viene chiamato a guidarlo.

    D’altro canto Kagan non è meno impietoso nel descrivere i limiti dell’organizzazione statuale spartana, da sempre condizionata dal terrore di una possibile rivolta di schiavi e dalla rigida separazione di ruoli imposta dal vincolo di nascita. Sparta fu «trascinata» alla guerra tanto dai suoi alleati – primo fra tutti la potente e ambiziosa Tebe – ma anche da un insieme di considerazioni legate alla sua natura di stato rigidamente conservatore, intimorito da qualsiasi cambiamento dello status quo. D’altro canto Kagan non manca di sottolineare che furono proprio uomini provenienti dalle classi sociali più umili di Sparta – ipomeioni («inferiori») e motaci («figli illegittimi») – ad ascendere ai maggiori gradi dell’armata, e con ottimi risultati. Una possibilità che, paradossalmente, in un’Atene democratica nella quale la ricchezza era prerogativa necessaria alla carriera politica e militare risultava decisamente meno praticabile.

    L’essere un conflitto «politico» fece della guerra del Peloponneso una delle più sanguinarie dell’Antichità. Scomparve la distinzione tra semplici civili e militari e donne, bambini e anziani furono vittime di ogni genere di orrori e atrocità. Così Kagan citando Tucidide:

    La guerra, che distrugge l’abbondanza delle cose necessarie alla vita d’ogni giorno, diventa maestra di violenze e conforma alle esigenze del momento le passioni delle moltitudini.

    La guerra del Peloponneso terminò con la sconfitta di Atene, una sconfitta della quale Sparta non seppe né volle approfittare per organizzare un proprio impero. Insediati nella loro penisola gli spartani si limitarono ad amministrare le proprie terre, congelati in una struttura statuale tanto rigida da finire per soffocarli.
    Non dovettero passare troppi anni perché la vinta Atene ritornasse a essere la città più vivace, ricca e popolosa dell’antica Grecia.
    La sconfitta ateniese fu dovuta a molte ragioni.
    Una delle principali la dispersione delle proprie forze su molte e diverse aree di guerra, conseguenza di una strategia militare dettata più da esigenze politiche che tattiche.

    Chi legge abitualmente libri di divulgazione storiografica è ben conscio che a muovere considerazioni, interpretazioni e conclusioni dell’autore del saggio sono, inevitabilmente, la sua visione del mondo e il giudizio sulla realtà nella quale si trova a vivere.
    È questo uno degli elementi che contribuiscono a rendere la lettura della storia una pratica appassionante, a patto che, naturalmente, l’autore sappia argomentare con precisione e basandosi su dati reali la propria interpretazione dei fatti.
    Da qui nasce anche la sensazione di «riconoscere» fatti e avvenimenti, e la «scoperta» che talune catene di eventi seguono percorsi familiari, come se taluni errori di giudizio e di condotta siano astorici e legati alla psicologia umana, mentre altri costituiscano costanti politiche che tendono necessariamente a ripetersi. Da entrambi gli elementi discende il valore della lettura della storia, cristallizzatosi nella frase: «Chi non conosce la storia è condannato a ripeterla».


    Che cosa ne direbbe il lettore di un governo che scatenasse una guerra mascherando pressanti motivi economici dietro altrettanti nobili principi politici, creando una situazione foriera di massacri, orrori e della morte di migliaia di innocenti? Non solo, quale sarebbe il nostro giudizio se sapessimo che tali individui sono giunti al potere esclusivamente grazie alle personali fortune e che l’andamento del conflitto è complicato ed esacerbato dai frequenti mutamenti di orientamento e priorità originati da motivi di pura e semplice propaganda e da una visione semiparanoica della realtà? Una guerra, infine, per la quale, nonostante l’apparenza, siano state impiegate forze insufficienti, creando tensioni a catena in una vasta area del mondo senza la possibilità di arrivare a una conclusione del conflitto data l’eccessiva dispersione su troppi teatri di guerra?

    Pur essendo un amante e un ammiratore della civiltà greca e della patria della democrazia, Kagan non manca di sottolineare i gravi errori della politica ateniese. Nel farlo finisce per mettere in evidenza, con la chiarezza di una sentenza senza appello, i maggiori limiti della politica estera statunitense all’inizio del nuovo millennio, pur senza mai rinunciare al rigore nella scelta dei dati e nell’interpretazione dei fatti.
    La sensazione che rimane al lettore è che se è vero che la condanna della storia è definitiva è difficile postulare l’esistenza un allibratore disposto a pagare un centesimo per l’innocenza di George Bush e del suo governo.

    Donald Kagan
    La guerra del Peloponneso

    A. Mondadori 2007, 
    pp. 518, € 22,00
    trad. Massimo Parizzi  

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