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    Moda e Cultura

    • di Silvia Treves
    • Agosto 10, 2013 a 4:31 pm

    mercanti di stile

    Secondo me l’autonomia introdotta dal management dei musei è una specie di cancro o di virus da cui i nostri musei malati potrebbero non guarire mai. La nostra reazione a questa crisi è decisiva per stabilire se vogliamo la civiltà o no.

    Chi l’ha detto?

    a) Vittorio Sgarbi

    b) Sergio Cofferati

    c) Vivienne Westwood

    Se avete risposto:

    a) Siete dei buoni. Lo so, le conversioni fanno sempre piacere e «si fa più festa in cielo per un peccatore pentito…». Ma qui siamo in Italia, non in paradiso.

    b) Siete della vecchia guardia, eh? Bravi, tenete duro. Però attenti, nemmeno il Cinese può tenere sott’occhio tutto: non è un demiurgo, è soltanto umano.

    c) Siete andati per esclusione vero? Dite la verità, non sapete nemmeno chi sia, Vivienne Westwood. Beh, visto che avete indovinato, ve lo dico io: è una stilista britannica, un’intellettuale coerente che, nel 1990, andò a picchettare il Museo di Storia Naturale di Londra insieme a sessanta studiosi in sciopero contro il licenziamento. E fece colpo, perché indossava una delle sue creazioni: calzamaglia rosa e foglia di fico strategica, come le statue greche!

    vivienne-westwood

    Vivienne Westwood

    La dichiarazione di Westwood dimostra che moda e stilisti non sono, non sempre, almeno, argomenti frivoli e quasi insultanti in un mondo fatto per due terzi di «meno fortunati». È possibile parlarne in maniera intelligente, suggerendo riflessioni sulla creatività, la produzione di beni e la visione del mondo di chi li propone e di chi li acquista, come fanno gli autori dei tre libri che vi propongo per questo numero.

    Comincio da Mercanti di Stile, Le culture della moda dagli anni ‘70 a oggi (Editori Riuniti, 2002), a cura di Paola Colaiacomo e Vittoria C. Caratozzolo, una raccolta di contributi scritti tra il 1967 e il 1999 con tre riflessioni personali di Elsa Schiaparelli (1954), Christian Dior (1956) e Mary Quant (1966); un volume ricco di spunti che guarda alla moda da vari punti di vista, senza mai dimenticare che l’abito e i suoi accessori sono non soltanto i beni di consumo più diffusi dopo il cibo ma anche uno strumento di comunicazione sociale, una sorta di linguaggio che può essere analizzato. Proprio questo intreccio tra contesti vestimentari e culturali è il tema – giunto ormai alla dignità accademica – dei fashion studies.

    Qualunque sia la provenienza dell’abito – haute couture, prêt-à-porter, produzione di serie ultra economica o rivendita di usato – ogni tappa della sua vita ha a che fare con la creatività: «La creatività non ha limiti purché entri in osmosi con la competitività che oggi esiste», afferma John Galliano, stilista della Maison Dior e titolare di un proprio marchio. E ha ragione, perché atti apparentemente passivi come comprare e vestire oggi non significano necessariamente accettazione supina di ciò che propone la moda dell’anno ma anche scegliere, accostare e reinventare – pur nell’ambito tutt’altro che trascurabile delle proprie disponibilità finanziarie, di tempo e di taglia – un proprio «stile». Mercanti di stile si occupa di due aspetti ben precisi della creatività della moda occidentale: creare modelli e creare modi efficaci di venderli, due atti complessi che ripescando la tradizione e reinterpretandola, trasformano «ieri» in «oggi» e precorrono il «domani».

    Ma allora non c’è differenza tra la creazione di uno stilista e quella di un artista? C’è eccome, perché uno stile o si vende o non esiste, la vendita è il suo sbocco inevitabile e necessario e lo trasforma in un ennesimo bene di consumo. Questo è accaduto a partire dal XIX secolo, quando il «lusso» proprio dei nobili si è progressivamente trasformato in «eleganza», un’espressione tipicamente borghese, cessando di essere «distinzione» per divenire semplice chic, copiabile, falsificabile, alla portata di tutti (purché forniti di mezzi, s’intende!) e non più unicum. Coco Chanel, prima vera mercante di stile, lo dimostrò alla grande facendo digerire a tutte le donne che ambivano all’eleganza (e potevano permettersela), il famoso semplicissimo abitino nero, di jersey opaco, che si richiamava direttamente all’abituccio decoroso dei subalterni, delle operaie, della working class. Prima, nei secoli XV, XVI e XVII l’abito ornato era una prerogativa di classe, una dichiarazione di potere, tanto è vero che gli abiti più ornati erano spesso quelli maschili. Con l’ascesa della classe media impegnata in attività professionali, l’abito maschile diviene più sobrio, invariabile, simbolo della costanza di un tipo diverso di potere, non più associato al tempo libero, quello dell’ostentazione, ma all’impegno professionale ad alto livello; l’ostentazione divenne così piacere e onere della donna che non lavorava e la moda borghese sottolineò di volta in volta drammaticamente le differenze sessuali accentuando ora il seno, ora la vita, ora i fianchi, ora il sedere, ora le gambe. Lo «stile» attuale, però, non è soltanto imposizione di modelli dall’alto, ostentazione di potere, esibizione della propria femmina davanti ad altri maschi o autoesibizione femminile per accalappiare un maschio potente. Oggi lo stile è affare di entrambi i sessi e può essere – nei limiti di cui sopra (innanzitutto soldi e taglia fisica, due pesantissime selezioni a monte) – qualcosa di più: autoidentificazione, stile di vita, adesione a modelli culturali non soltanto vestimentari. Da almeno vent’anni gli stilisti coltivano una loro continuità nel tempo che consente di identificare a colpo sicuro le loro creazioni rispetto a quelle degli altri, quindi oggi parlare di «moda» non ha più molto senso, meglio parlare di molti «stili», che non si soppiantano l’un l’altro anno dopo anno, ma convivono nel tempo in pluralistica diversità. La scelta di uno «stile» definisce il «dove» di un acquirente piuttosto che il «quando». In quanto linguaggio e ambito di autoidentificazione l’abbigliamento è stato, negli anni passati, anche «bandiera sub-culturale» e contestazione di precedenti modelli di vita. Ad esempio la scamiciata corta di Mary Quant, da indossare rigorosamente con collant nero, fu a suo modo una rivoluzione o, almeno, un emblema di una rivoluzione giovanile. E fu, contemporaneamente, la prova che i «giovani» erano diventati un segmento di mercato allettante e lo strumento per imporre a chi la indossava ben precisi movimenti e atteggiamenti e – prima di tutto – precise misure fisiche (alla Twiggy, per intenderci). Fu, infine, un’efficace dimostrazione che l’abito fa il monaco, suggerendo la confusione tra l’abito, chi lo indossa e il personaggio, un tema che ha spesso affascinato la letteratura fantastica [1].

    mary quant

    Mary Quant

    Ovviamente la forza sovversiva dello stile (e della moda) non va presa troppo sul serio: tutte le contestazioni vestimentarie sono state velocemente assorbite dal mercato: come dice Richard Martin, uno dei saggisti del volume, una delle caratteristiche della seconda metà del XX secolo è «la brama di metabolizzare l’antisociale», ma quest’ansia di digerire le spinte stilistiche che provengono dal basso è anche un’ammissione che esse sono sufficientemente chiare e dichiarate da non poter più venir ignorate. Un buon esempio è costituito, oggi, dallo stile vintage, un termine che indica l’accostamento originale di capi di vestiario di diversa provenienza, spesso recuperati sulle bancarelle o dal rigattiere, una miscela che recupera e ricicla superando i confini tra stili diversi, nata al di fuori del circuito ufficiale della moda e ormai ufficializzata sulle pagine di tutti i settimanali specializzati e non. E chi cavalca, oggi, sulle pagine dei medesimi settimanali l’ambiguità sessuale, il queer, l’androginia? La moda ufficiale e la pubblicità, dando ai lettori il brivido di una trasgressione a rischio zero. Ma «il campo dei codici vestimentari è terreno di lotta per il controllo del potere di definire le situazioni e noi stessi; del potere di creare significato», osserva Elisabeth Wilson e ha quindi anche qualità irriducibili di resistenza e sovversione. A differenza di altre culture alternative, il femminismo non sempre se ne è reso conto o ha avuto la fantasia vestimentaria di altre subculture (per favore non tiratemi fuori i gonnoni a fiori e gli zoccoli, eh!), in parte a causa della propria eterogeneità sociale e del proprio – comprensibile – rifiuto dell’esibizione femminile imposta.

    Interessante la tesi di Richard Martin:

    In realtà gran parte dell’ostilità prodotta dalla moda è dovuta al fatto che è un’arte socialmente troppo compromessa, troppo ambiziosa, e anche esageratamente protesa alla scalata sociale.

    La moda, osserva Martin, provoca e contemporaneamente attrae, per natura enfatizza l’individualità, l’unicità del fruitore, e contemporaneamente uniforma, riservandoci qualche sorpresa. Ad esempio la famosa blusa alla marinara di Jean-Paul Gaultier, che coniuga il decoro obbediente della divisa e la trasgressione violenta della pelle, richiamando alla mente amici attraenti ed equivoci di Querelle de Brest piuttosto che marinai rassicuranti o ragazzine delle colonie estive. E le ambientazioni promozionali di Calvin Klein della metà degli anni novanta, simili a quadri di Edward Hopper, dove giovani spostati di lusso si aggirano fra moquette scadenti, esibendo la propria disponibilità sociale, sono scelte provocatorie e «ripugnanti» che se metabolizzano i conflitti sociali sono anche un richiamo al classismo della società americana all’emarginazione e alla demotivazione della gioventù. Non si tratta di scelte casuali o semplici trovate pubblicitarie, dice Martin,

    la recessione mondiale degli anni novanta ha esercitato un impatto culturale profondo, non da ultimo proprio sulla moda […] Un prolungato declino economico, la rinnovata previsione di un abbassamento del tenore di vita e del diffondersi della disoccupazione tra i ceti impiegatizi sono cose che […] promuovono il senso della solidarietà , non già il darwinismo [sociale N.d.R.] e il disinteresse tipico degli anni ottanta.

    Mi piacerebbe crederlo. L’Italia non mi pare ben avviata sulla strada della solidarietà sociale, ma potrebbe non fare testo: in fondo siamo sempre la periferia dell’impero… forse arriveremo alla fase solidale con i soliti quindici anni di ritardo, dopo che finalmente, con i soliti quindici anni di ritardo, avremo afferrato che persino negli States, quelli del sogno americano e della libera impresa, ci sono limiti (ad esempio in fatto di amministrazione aziendale e bilanci) che non si possono superare impunemente…

    «La giustizia sociale la si può perseguire anche attraverso la proposizione di un diverso tipo di abbigliamento», conclude Martin. Certo che i tempi cambiano. In passato (caricati di speranze troppo fideiste) i miti rivoluzionari erano Mao o il Che… adesso abbiamo gli stili di Klein e Gaultier. Non credo (e non lo crede Martin) che gli stilisti di moda negli ultimi anni stiano davvero lottando per la giustizia sociale, ma forse stanno prendendo coscienza «dell’incessante ruolo dell’immaginazione nello e sull’ordine economico».

    Una citazione a parte merita il contributo di Vivienne Westwood, che rivendica alla moda la funzione di coltivare il dubbio. La stilista rievoca il clima della Londra della moda degli anni ottanta e novanta, il gruppo raccolto intorno al suo negozio e atelier, i legami con il mondo della musica, le trovate «pubblicitarie» che, a ben vedere, erano sempre qualcosa di più: provocazione, dichiarazione di appartenenza, richiesta ai «clienti» di farsi qualche domanda scomoda… Mica poco.

    Paga e un po’ stordita dalle immagini di sé (e di possibili noi) sapientemente proposte dalla grande Moda, dubbiosa sulle sue possibili funzioni e preda di vaghi sensi di colpa per la frivolezza intellettuale coltivata nelle pagine precedenti, ho deciso di approfondire un argomento indicato come «di tendenza» nei soliti settimanali leggendo un libretto che speravo sufficiente a conferirmi almeno una patina di competenza. Mi è andata bene, il tema di Wabi-Sabi per artisti, designer, poeti e filosofi di Leonard Koren (Ponte alle Grazie, 2002, ed. or. 1994) è ben lontano dalla «moda» e potrebbe piacere anche al redattore della rubrica di narrativa giapponese, al quale mi sono ben guardata dal passare il saggio.

     

    wabi sabi

    Avete presente Morte di un maestro del te? Toshiro Mifune vi recita la parte di Rikyu, il più famoso maestro del té giapponese del XVI secolo, che impose lo stile wabi-sabi nella cerimonia. Ecco, il film può essere un efficace test per misurare il vostro grado di sensibilità al wabi-sabi: se vi siete addormentati dopo mezz’ora dall’inizio del film, come un mio conoscente, forse questo approccio al mondo non fa per voi (io ho visto il film senza perdermi una scena, ho comprato la cassetta e me la sono rivista in santa pace, da sola. E tutto questo prima di leggere il libro, e senza il ricatto della compagnia di amici intellettuali frequentatori di cinema d’essai!).

    «E a noi…?»

    A voi… niente, ovvio, tranne che vi tocca questa recensione. Ma non girate pagina, non sto allontanandomi poi troppo dall’argomento:

    Il wabi-sabi è profondo, multiforme e sfuggente, sembrava l’antidoto perfetto all’idea di bellezza imperante [alla fine degli anni sessanta, N.d.R.] – così fasulla, stucchevole e istituzionale – che a mio parere stava anestetizzando la società americana. Da allora sono giunto alla conclusione che il wabi-sabi ha un legame con molti dei movimenti antiestetizzanti più radicali che invariabilmente nascono dagli spiriti giovani, moderni e creativi: il beat, il punk, il grunge, o come si chiamerà il prossimo.

    Un tempo i due termini, wabi e sabi, erano distinti, il primo si riferiva a una condizione emotiva di isolamento o solitudine, di interiorità e cammino spirituale, il secondo significava freddo, scarno, con riferimento a produzioni umane materiali, anche artistiche e letterarie. Il wabi-sabi è l’antitesi del modernismo, la sensibilità estetica che ha maggiormente segnato la società industrializzata occidentale tra la metà e la fine del XX secolo e quindi la maggioranza degli apparecchi, delle macchine, della automobili e degli oggetti lisci e minimalisti prodotti dalla seconda guerra mondiale in poi. Il modernismo esprime fede nel progresso, mira a controllare la natura e la tecnologia, implica una logica razionale, una rappresentazione modulare e geometricamente organizzata delle forme, è freddo, chiaro, brillante, funzionale. Al contrario, il wabi-sabi implica una visione intuitiva del mondo (ma adesso non fatevi venire in mente qualche riferimento facilone alla new age): è relativo, nega il progresso ed è orientato al presente, non crede nel controllo della natura (intesa come tutto, uomo e pensiero compresi) organizza le forme in maniera «organica», morbida, incompiuta, usa materiali naturali e grezzi, accetta il degrado, l’usura, l’oscurità e la contaminazione come elementi di espressione, predilige l’irregolarità, l’unicità, la semplicità; in un certo senso il suo ideale è l’inesistenza, il nulla. «Le cose wabi-sabi hanno un aspetto spontaneo, inevitabile», i colori non sono mai netti: grigi di infinite gamme, marroncini, neri, color senape e color carta riciclata. È uno stile essenziale e pulito, mai sterile o sterilizzato. E soprattutto «il wabi-sabi non è un filosofia umanistica, né riguarda la sacralità della vita, la qualità dei rapporti interpersonali, il bene e il male» (vi avevo avvertito che la new age non c’entra niente). Ovviamente la produzione in serie di oggetti (o abiti) wabi-sabi è un ossimoro, un assurdo. La produzione in serie ha bisogno di forme geometriche, linee dritte cerchi perfetti e una «moda» wabi-sabi non ha alcun senso. Ma i primi tentativi di produrre abiti di ispirazione wabi-sabi ci sono già stati, non crediate. E le citazioni sono già reperibili anche nei settimanali popolari. Una dimostrazione in più che la moda (se non lo stile) è – forse anche al di là delle intenzioni di chi la crea – un moloch che macina tutto. Esistono probabilmente anche delle convergenze: nella stagione 1982-83 il marchio Comme de Garçons propose maglie artificialmente sforacchiate a intervalli irregolari (in serie, ovviamente, programmando appositamente il telaio). Personalmente ritengo l’esito (documentato da una fotografia) piuttosto pacchiano ma vengo spesso accusata di intransigenza…
    Il saggio, scorrevole e niente affatto pomposo, si occupa soprattutto di oggetti e di architettura, ripercorre le tappe dello sviluppo di questo ideale estetico, suddivisibile in due periodi distinti: prima e dopo Sen no Rikyu, è ricco di illustrazioni (in bianco e nero, manco a dirlo) e vale lettura o l’eventuale acquisto per un regalo a un amico motivato alla lettura.

     

    psicoanalisi della moda

    Non potevo lasciarmi scappare Psicoanalisi della moda di Eugénie Lemoine-Lucciani (Bruno Mondadori, 2002, ed. or. 1983); ero convinta che l’autrice «ci accompagna [sse] con uno stile di scrittura affascinante e creativo alla scoperta dei misteri del vestito … [che] fornisce un’identità e supporta il desiderio», utilizzando l’esperienza, i ricordi e la propria pratica di psicoanalista «ma anche le letture di fashion più mondane», come garantisce la quarta di copertina. Ho apprezzato altre volte la collana «Testi e pretesti» di Bruno Mondadori, quindi mi limiterò a dire che alcune scelte editoriali possono trarre in inganno, fin dal titolo che in originale suona La robe. Essai psychoanalytique sur le vêtement. Come dire «L’abito», ovvero l’atto di vestirsi. Non «la moda». Anzi, no, non mi limiterò: ho la sensazione che la traduzione del titolo sia una scelta arbitraria ai limiti della correttezza; la sua natura di saggio psicoanalitico sul significato dell’abito e non delle tendenze attuali e passate della moda è la ragione principale, credo, di una traduzione molto tardiva del testo, diciannove anni dopo la pubblicazione originale, quindi avrebbe potuto essere meglio chiarita. La lettura, comunque, non è stata inutile, ma un po’ più faticosa del previsto a causa dello stile «affascinante e creativo» dell’autrice e delle sue complesse scorribande nei territori di Freud e Lacan. «Laddove appare il vestito comincia anche la socializzazione», dice Lemoine, l’abito è stato fondamentale nell’instaurazione della gerarchia sociale. L’abito, insomma, dichiara, mentre il corpo nudo no. «La moda ha valore di linguaggio ma anche di sintomo». Di più:

    Il vestito si guarda. Non serve che a questo: attirare lo sguardo, fissarlo altrove [rispetto al sesso N.d.R.] ma comunque abbastanza vicino, sui bordi. In questo modo, essa controlla almeno un po’ l’angoscia […] è un modo grazie al quale il soggetto in crisi può riemergere, letteralmente affinché lo si veda. È un’invocazione.

    In questa luce, peraltro interessante, vengono ad esempio interpretate scelte apparentemente dettate soltanto da un’esigenza di originalità, come il taglio asimmetrico degli abiti femminili (ripescato quest’anno dal lontano passato: era «di moda» negli anni venti, come ho scoperto in vacanza, visitando un bel museo del costume); in realtà l’asimmetria esprimerebbe la duplicità e/o l’ambiguità sessuale del soggetto.

    Se già non conoscete Orlan può valer la pena leggere il saggio finale che Lemoine le dedica, anche se purtroppo l’autrice si rivolge, evidentemente, a iniziati che non hanno bisogno di informazioni sull’artista. Dato che il saggio è del 1983 le successive, ancora più radicali, performances di Orlan non vengono commentate. Più istruita, più avanti sulla via del dubbio, ho sfogliato con maggior attenzione le pagine dedicate alla moda dei settimanali che leggo di solito. Ho verificato di persona molte delle affermazioni lette nei saggi precedenti e ho provato direttamente la famosa ostilità alla quale alludeva Richard Martin, forse perché continua a esserci un abisso tra la creazione artistica, sia pure accompagnata dalla creazione pubblicitaria, e la sventagliata di imitazioni un po’ dementi che scivolano dalla boutique al grande magazzino, adeguandosi via via a tutte le borse ciò che perdono in originalità lo guadagnano in banalità. Giuro, la mia non è una polemica di gusto millenarista, io tengo molto a esprimermi attraverso gli abiti che indosso, ma continua a sembrarmi ingiusto che solo una fetta ridotta di mondo possa farsi domande a loro modo importanti come «che cosa posso indossare oggi, per sentirmi a mio agio con me stessa?». Così, arrampicata sulla mia indignazione, vi regalo una frase finale, tratta da un autore «classico», ovvero sempre attuale:

    Non ci importa dei valori, ci importa solo del denaro… il prezzo di tutto e il valore di nulla.

    Chi l’ha detto? Niente giochini questa volta, era Oscar Wilde e si riferiva a un banditore d’asta. Ma la frase mi sembra perfetta per ben altri banditori, che si promuovono instancabilmente da tutte – TUTTE – le televisioni.

     

    [1] E sapete…? Oops! avevo promesso di smetterla con le domandine. Fa niente, è per una buona causa. Sapete quale genere narrativo ha trattato con molta originalità il tema della moda come fenomeno sociale? Bravi, la fantascienza. Dato che anch’io ne ho letta un po’, vi consiglio:

    – R. Calder, Virus Ginoide, Nord, «Tascabili Fantascienza» 46
    – J. Barrington Bailey, Le vesti di Caean, Nord, « Cosmo Argento» 101

    ————————————————————————————-

    Colaiacomo Paola e Vittoria C. Caratozzolo, Mercanti di stile. Le culture della moda dagli anni ’20 a oggi

    Ed. Riuniti, 2000, pp. 416, € 22,00

    Leonard Koren, Wabi-Sabi. Per artisti, designer, poeti e filosofi

    Ponte alle Grazie, 2002, pp. 96, € 12,50

    Eugénie Lemoine-Lucciani, Psicoanalisi della moda

    Bruno Mondadori, Testi e Pretesti, 2002, pp. 184, € 13,50

    Trad. Succetti A.

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