Michael Dibdin, inglese classe 1947, è un autore di storie poliziesche con studi universitari alle spalle, alcuni anni trascorsi negli Stati Uniti – dove si è mantenuto facendo svariati lavori – e un soggiorno di cinque anni in Italia, dove ha insegnato all’università di Perugia. In Italia è noto soprattutto per la lunga serie con protagonista Aurelio Zen, ispettore veneziano scettico e disincantato, accostato dalla critica a grandi detective come Jules Maigret di Simenon e Adam Dalgliesh P. D. James.
Abile nel giocare con le forme classiche della crime story, Dibdin include nel genere una miscela insolitamente ricca di punti di vista psicologici, culturali e socio-politici; utilizza inoltre un gran numero di allusioni e riferimenti letterari.
Il suo esordio come autore avviene alla fine degli anni Settanta quando – dopo una visita molto accurata nell’East End, il teatro dei crimini di Jack Lo Squartatore – decide di scrivere un pastiche holmesiano, The last Sherlock Holmes Story, finalmente pubblicato quest’anno da Passigli.
L’ultima avventura di Sherlock Holmes ha la forma classica di una confessione manoscritta di Watson giunta in possesso di Dibdin cinquant’anni anni dopo la morte del fedele dottore. Il romanzo, molto documentato sulle vere gesta di Jack the Ripper, è un calco geniale che sviluppa un tratto nero della personalità di Holmes esplorato soltanto, e in maniera piuttosto piacevole, nella Soluzione sette per cento di Nicholas Meyer.
La vicenda inizia con l’invito del solito ispettore Lestrade ad assistere la polizia nell’indagine per gli omicidi seriali compiuti da Jack the Ripper nel 1888. Sorpreso nel bel mezzo di una delle sue crisi di noia esistenziale che soltanto la cocaina può alleviare, Holmes accetta la sfida con entusiasmo, riconoscendo in Jack un fuoriclasse del crimine, malvagio ma geniale… in un certo senso un suo pari. Gli omicidi di White Chapel – pensa Holmes – benché apparentemente immotivati e casuali sono progettati e condotti con la maestria di un genio del male, un grande, uno come Moriarty…
La partita fra il criminale e il detective si snoda nel buio nebbioso del quartiere più degradato e povero di Londra, seguendo fedelmente tutto quanto i veri detective di allora appurarono sui movimenti e sugli eventuali moventi di Jack. Dibdin incastra con grande abilità nella vicenda le informazioni rimaste agli atti, fino a condurre Holmes e Watson là dove tutto, secondo l’intenzione originale di Conan Doyle, avrebbe dovuto finire: in Svizzera, alle cascate di Reichenbach.
Già soltanto la fedeltà combinata alla storia letteraria di Holmes e a quella reale e documentata di Jack sarebbero motivo sufficiente per leggere il romanzo; la trama infatti è estremamente accurata, confrontabile punto per punto con l’interessantissimo studio pubblicato da Paul Begg nel 2004 (quindi molto tempo dopo il romanzo di Dibdin) e tradotto in Italia recentemente da UTET come Jack lo Squartatore: la vera storia. Ma da buon narratore e da appassionato holmesiano, Dibdin dona al mito di Sherlock Holmes ulteriore spessore esplorando con sensibilità il lato nero della personalità del detective e lo ritrae a tutto tondo come un uomo brillante e di grande acutezza mentale ma anche un malato di spleen che mal tollera i ritmi ordinari della vita quotidiana. Sempre alla ricerca di emozioni e sfide e disposto a cercarle ovunque, perfino nella personalità deviata di Jack, Holmes non è immorale ma sostanzialmente amorale, e solo per fortuna nostra ha scelto la squadra del bene.
Ma se invece…
L’unica pecca del romanzo potrebbe essere lo stile, accettabilissimo, ma un po’ al di sotto del grandioso (e per il resto riuscito) progetto di Dibdin. Per dirla in altre parole, la scrittura non sostiene fino in fondo lo scavo psicologico del personaggio di Holmes e, comunque, non è genuinamente candida come quella del «vero» dr. Watson. D’altra parte, l’autore ha avuto l’accortezza di separare i due narratori: il «finto» narratore Watson (compagno di avventure di Holmes ma, nella versione di Dibdin, semplice prestanome letterario di Arthur Conan Doyle, il vero biografo di Holmes) dal «vero» dr. Watson che avrebbe scritto di suo pugno soltanto il resoconto riesumato cinquant’anni dopo i terribili fatti di White Chapel. In sostanza, se lo stile di questo dottore risulta un po’ diverso, un motivo c’è: questo è davvero Watson, l’altro era «solo» Conan Doyle.
Davvero geniale l’orripilante poesiola dedicata a Mary Kelly…
Qui a destra uno dei migliori intepreti di Sherlock Holmes, Peter Cushing; potrete gustarvelo
qui In Sherlock Holmes “The Blue Carbuncle” BBC
Se invece volete saperne di più sulla vera identità di Jack lo Squartatore, leggete questo articolo
Michael Dibdin L’ultima avventura di Sherlock Holmes
Passigli Editori, 2007, pp. 201, € 16,50, Trad. Gianni Montanari
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