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    TerraNova

    L’Età dell’oro

    • di Melania Gatto
    • Giugno 23, 2013 a 4:33 pm

    età dell'oro

    «Io amo la verità più della felicità».
    Sottoscrivereste quest’affermazione?
    È la frase conclusiva di L’Età dell’Oro, di John C. Wright, Nord 2004 (ed. or. 2002), trad. G. Zuddas, perfettamente adeguata e coerente con la filosofia individualistica / superomistica del romanzo. Un tipo di visione del mondo che, in termini tanto netti, non incontravo dai tempi dell’Alfred Eblin Van Vogt di Slan.
    È legittimo iniziare la recensione a un testo parlando della sua ideologia o è la solita scelta da «vecchia reduce»?
    Può essere, certo. Giovane non lo sono più.
    Quindi partiamo da un’altra parte, con un altro approccio.
    All’ideologia torneremo dopo.

    John-C-Wright

    John C. Wright

    L’Età dell’oro è ambientato in un lontano futuro.
    A preoccuparsi del benessere dell’umanità vi sono grandi sistemi a Intelligenza Artificiale (IA), i sophotec, un po’ paterni, un po’ materni ma anche talvolta dotati dello humour paradossale e irriverente di un’Alice in Wonderland fatta sistema senziente. La fame è cancellata, le malattie e la morte sono state eliminate, i delitti sono scomparsi. La vita è facile e il principale nemico dell’umanità della Settima struttura mentale – formale e un po’ frivola come la nobiltà nella seconda metà del XVIII secolo – è la noia, che viene ingannata con feste, rappresentazioni, passatempi e curiosità. Si vive entro continua di realtà virtuale condivisi, disponendo di centinaia di possibilità di filtrare, amplificare e modificare la percezione, la memoria e la coscienza del sé. L’organizzazione sociale è divenuta estremamente articolata, dovendo ampliarsi a comprendere entità multiple, intelligenze potenziate, forme di autocoscienza parziale o residuale, personalità replicate o sintetiche. Nel racconto di questo realtà percettiva condivisa ma non-oggettiva, dai confini inafferrabili e transitori Wright è abile fino al funambolismo, quasi sempre sorprendente, in qualche passaggio decisamente ameno, in altri cupamente sardonico come se anche la sua personalità di autore fosse replicata da quella di Jack Vance (che l’autore dichiara di considerare uno dei suoi «padri» narrativi).
    In sostanza, se si parla di sfondo e di coerenza dell’universo narrato credo non siano molti gli autori in circolazione all’altezza di Wright, tanto più di questi tempi tanto avari per gli amanti della sf. Se però proviamo a inoltrarci sul terreno dei caratteri principali o dell’intreccio qualche delusione è inevitabile. Wright è stato avvocato e L’età dell’oro, nonostante l’ambientazione cyber-ultrafuturibile, presenta una struttura da legal thriller, con tanto di istruttoria, processo e lunga udienza finale. Nulla di male, sia chiaro, Wright ha la competenza legale e tanta intelligenza narrativa da divertire anche durante le requisitorie e i colpi di scena in aula. Eppure è inevitabile una certa sensazione di già visto/letto e/o soprattutto di un contesto narrativo che ha ben poco di fantascientico, anche se bisogna ammettere che l’«interpretazione» del processo penale nel lontano futuro risulta tanto curiosa e straniante da essere comunque divertente. Un po’ come in certe puntate di Star Trek, quando i personaggi si trovavano infilati in un meccanismo narrativo mutuato da un registro non fantascientifico (la storia di gangster o di cappa e spada).
    I personaggi… Beh, Wright non poteva né probabilmente doveva fare di più. In fondo i protagonisti (Phaethon, Helion, Daphne) ammettono soltanto un approccio euristico, nel senso che sono possibili soltanto ipotesi approssimative sulla loro completezza, coerenza e grado di coscienza di sé. Ciò che narrativamente fa di un personaggio un unicum è, per l’appunto, il tema del romanzo. Per i reclami, insomma, meglio passare quando si è certi di avere a che fare con personalità in qualche modo definitive.
    A risultare invece intollerabile – ma l’autore non è del tutto colpevole – è che il romanzo sia… incompleto. Nel senso che all’ultima pagina (p. 396) la vicenda del protagonista, Phaethon, non termina affatto. Non solo, nessuno – e questo è ben più grave – si è degnato di avvisarne il lettore nel paratesto che, detto per inciso, si limita ai due risvolti di prima e quarta di copertina. Roba da far rimpiangere le famose introduzioni di Sandro Pergameno: mistiche, adrenaliniche, sfrenate.
    Comunque se navigherete fino al sito www.sfsite.com potrete trovare una piacevole intervista all’autore e scoprire che la seconda e ultirma parte del romanzo (Phoenix Exultant) è uscita negli Stati Uniti nel 2003…

    Tutto questo detto, è inevitabile – almeno per me, per voi è del tutto facoltativo – ritornare alla visione del mondo che il romanzo bene o male trasmette.
    Phaethon (il Fetonte mitologico), protagonista del romanzo, non è un protagonista come tanti. No, egli è l’Individuo prometeico e lungimirante che, osteggiato da società sazia e fatua, si batte per un progresso del quale è lui stesso demiurgo e realizzatore. È il lusus naturae, la creatura anfibia, profeta e tecnarca in parti uguali. Il Giusto contro i reprobi, l’Illuminato contro gli oscuri…
    Insomma il Granfigo sballottato dagli eventi che salva il mondo da un’insulsa felicità e da un happy hour perpetuo.
    Abbiamo bisogno di eroi? Evidentemente sì. «We don’t need another hero», cantava Tina Turner, in singolare assonanza con Bertolt Brecht. Io, cresciuta a fantascienza e Verfreumdung [straniamento] mi sento venire l’acne quando inciampo nell’ennesimo eroe solitario. L’unico che amo non è umano, si chiama Buck e vive in un libro meraviglioso: Il richiamo della foresta.
    Per tornare alla frase finale del libro (e iniziale dell’articolo), non sono troppo sicura che la verità sia meglio della felicità. Mi sembra una formuletta antipatica come «Non c’è pace senza libertà» (Forza Italia, marzo 2003) o «Meglio morti che rossi» (qualche posto negli Stati Uniti, anni Cinquanta).

    golden ageA qualcuno potrà sembrare che voglia parlare di politica. No, non è così. O almeno non è esattamente così. Semplicemente mi chiedo come sia possibile riproporre il personaggio dell’eroe senza macchia, ingiustamente calunniato e perseguitato dopo che in narrativa – fantascientifica e non – sotto i ponti sono passati interi oceani. Abbiamo così tanto bisogno di illuderci e consolarci? O si tratta della storica tendenza di Nord (e di Longanesi che l’ha inglobata) a scegliere storie, diciamolo, via, decisamente destrorse?
    Destrorse non significa «brutte, sgradevoli, esecrabili», sia chiaro. Né di sinistra vuol dire «belle, buone e giuste». Penso che ognuno serbi nel cuore il ricordo di romanzi affascinanti e reazionari (qualcuno ricorda Maestro dal Passato di Raphael Aloysius Lafferty o, fuori dall’ambito sf, Nelle tempeste d’acciaio di Ernest Jünger?) e di romanzi insulsi e ipocriti ma con la targa «estrema sinistra» (meglio non fare esempi, in questo caso). Il punto non è questo, non è mai stato questo.
    Comunque, valendomi anche delle dichiarazioni dell’autore riportate nell’intervista a www.sfsite.com ho provato a verificare se la mia ipotesi di coloritura politica del romanzo fosse del tutto campata per aria.
    John C. Wright definisce la società del suo romanzo, la «Settima struttura mentale» come «un’utopia libertaria dove non esiste proprietà pubblica». Curioso come l’assoluta assenza di ogni genere di organizzazione statale – della polizia come dell’assistenza sociale – risulti, anche nel contesto del romanzo e forse al di là delle intenzioni dell’autore, per nulla utopico e decisamente inquietante. Ma io sono un’europea e trovo semplicemente agghiacciante l’idea che non esista alcun tipo di welfare. Wright, viceversa, si è formato leggendo Van Vogt e pensa che:

      Nessun tipo di progresso potrà eliminare le differenti capacità degli uomini, o le differenze sulla valutazione delle loro abilità, ovvero ciò che determina l’ineguaglianza delle entrate [incomes].

    Nota bene: Wright, nel contesto dell’ntervista, usa sempre il vocabolo «men» [uomini] mentre ignora l’uso di «mankind» [umanità, genere umano].

    Insomma, il posto nella società e la fortuna di ognuno sono esclusivamente dovuti alla sue qualità o, simmetricamente, all’assenza di esse. Una teoria sociologica un po’ spiccia ma tornata in voga dai tempi di Margaret Thatcher.
    In un altro passaggio della sua intervista Wright assume che «l’uomo moderno sia più conscio del suo passato che non il suo progenitore, per il quale il passato è mito» (ecco l’antenato infantile, superstizioso e sempliciotto… un classico) e che la civiltà di Roma finì per decadere perché «abbandonò lo stoicismo repubblicano per l’Impero», mentre la scelta democratica della società vittoriana «condusse alla Rivoluzione industriale» [led to Industrial Revolution].
    Un autore di narrativa non è uno storico, evidentemente, quindi non è tenuto a sapere che la Rivoluzione industriale era già partita da un secolo e mezzo quanto regnava la Regina Vittoria. Come non è obbligato a conoscere la storia romana, anche se questo lo espone a comporre affermazioni non molto più approfondite di una dichiarazione media di Umberto Bossi. La storia che uno scrittore crede di conoscere è semplicemente un canovaccio sul quale costruire il proprio mondo. E, come credo di aver ripetuto anche troppo in queste pagine, la sf è il tipo di genere letterario che sbugiarda meglio di altri la visione politica dell’autore.
    Mi fermo qui, anche perché mi sembra ben assodato che l’ideologia yankee di Wright sia perfettamente coerente con quella del suo Phaethon.
    Q.E.D.
    Un romanzo da bruciare, quindi?
    E perché? Chi l’ha detto?
    Wright ha un enorme talento e, parafrasando Teilhard de Chardin, si potrebbe affermare che la sua vera grandezza sta nelle piccole cose. Nel sophotec che si presenta vestito da pinguino o negli oziosi dialoghi filosofici dei suoi sfaccendati personaggi minori.
    Non foss’altro che per questo merita leggere L’Età dell’Oro e anche i suoi due seguiti: Phoenix e La luce del millennio.

     

    John C. Wright, L’età dell’oro

    Editrice Nord, 2007, pp. 395, € 9,00

    trad. Gianluigi Zuddas

     

    Nota: per una recensione più seria, completa e motivata rimando volentieri all’articolo apparso su «Il futuro è tornato», a opera di Andrea Viscusi.

     

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