di Consolata Lanza
Chi è causa del suo mal pianga se stesso. Quest’aurea regola l’ho ripetuta fino alla nausea ai miei allievi nella mia vita precedente, quando facevo l’insegnante, ma evidentemente non l’ho interiorizzata a sufficienza. Ho letto una recensione su una rivista (tanto per non fare nomi, su «D» di «Repubblica», dove ho già preso notevoli bidoni nello stesso campo e per mano dello stesso giornalista) che mi ha incuriosita, e al Salone del Libro, tanto per non sentirmi in colpa che non compro più cartaceo, ho acquistato il libro in questione allo stand di Elliott, se ricordo bene, con un paio di euro di sconto: rimangono però pur sempre 14 euri buttati nel cesso. Si chiama Pesca al salmone nello Yemen, lo ha scritto Paul Torday, lo ha pubblicato Elliott, lo ha tradotto (benissimo) Annamaria Raffo, ha 253 pagine e costa € 16,50. Adesso che lo conoscete, evitatelo. È un libro totalmente inutile, e noiosissimo. La sua unica funzione potrebbe essere quella di spaventare i bambini facendogli vedere i guai prodotti dalle nuove tecnologie. Infatti usa l’astutissimo, e nuovissimo (sto facendo dell’ironia per tenere compagnia all’autore) espediente di metterci al corrente della trama attraverso un fitto scambio di email tra i personaggi. Più brani di diario, di un’autobiografia non pubblicata, interviste e interrogatori. Nooo! direte voi. Com’è avanti Paul Torday! Va be’. La storia è questa: uno sceicco yemenita straricco e idealista (?) vuole importare dei salmoni dall’Inghilterra in Yemen, per fare diventare la pesca uno sport locale. Henriette, una bella signorina che lavora per lui, contatta Alfred che fa l’ittiologo all’Ente Nazionale per la Tutela e lo Sviluppo del Patrimonio Ittico. Lui, che ha problemi matrimoniali (ma questo non c’entra), non vorrebbe, ma il suo capo riceve pressioni politiche e lo costringe. Henriette sta per sposarsi con un militare che viene spedito improvvisamente in Iraq. Il portavoce del Primo Ministro concepisce l’astuto piano di sfruttare il progetto per migliorare l’immagine della Gran Bretagna in Medio Oriente. Il Primo Ministro si fa sedurre dall’idea. L’ittiologo fa un progetto, lo sceicco paga, la stampa commenta, Henriette trema per il fidanzato che non dà notizie, la moglie dell’ittiologo si trasferisce in Svizzera, in Yemen si lavora duro per realizzare il progetto che presenta difficoltà sovrumane. Progetto realizzato. Tutti nello Yemen,
Primo Ministro compreso, per l’inaugurazione. E qui mi fermo perché se per caso qualcuno vuol farsi del male, non voglio rovinargli la sorpresa. Ma mi piacerebbe dire due paroline a Torday per il suo finale che mi ha fatto ancora salire il nervoso: si sente molto spiritoso per avere creato aspettative che si spengono come micce bagnate? Il tutto raccontato con la vivacità di un salmone affumicato e condito di luoghi comuni così comuni da diventare esclusivi di chi, come scrittore, dovrebbe avere almeno un po’ di pudore. Ho sbadigliato dalla prima pagina all’ultima e mi sono costretta a arrivare alla fine come punizione per la mia stupidità a aver dato retta a «D». No, in realtà c’è una pagina che mi ha fatto ridere in questo libro: la quarta di copertina, che strilla: «[…] lo strepitoso romanzo d’esordio di Paul Torday, il miglior narratore inglese d’oggi.» Non nomino l’autore della citazione, né il giornale da cui è tratta, perché tanto l’avete già capito. Ma mi faccia il piacere!
Paul Torday
Pesca al salmone nello Yemen
Elliott, 2012
pp. 235, € 16,50
Trad. Annamaria Ruffo
cortesemente da: Anaconda anoressica di C. Lanza