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    TerraNova

    Ricordando la fantascienza

    • di Melania Gatto
    • Maggio 21, 2013 a 12:19 pm

    premi hugo 2000
    Una delle tante branche del genere fantascientifico è quella della SF cosiddetta «catastrofica». Più diffusa e quasi obbligata negli anni cinquanta e sessanta, legata com’era alla possibilità (o probabilità) di una guerra nucleare, la suggestione necrofila della distruzione della civiltà, dell’umanità, di ogni tipo di creatura vivente fino a quella (definitiva) del nostro pianeta non ha mai abbandonato il genere, sia nella sua forma letteraria sia in quella cinematografica. Non solo. Esistono numerosi esempi di letteratura del Dies Irae che precedono la nascita canonica della SF. Senza tirare in ballo l’Apocalisse di Giovanni – testo comunque dotato di un terrificante fascino –, basti pensare a un romanzo come La peste di Londra di William Defoe, pubblicato nel 1722, per stabilire che l’ansia da futuro e il timore di una catastrofe collettiva ha sempre accompagnato l’umanità e i suoi incubi letterari.
    Lo sviluppo tecnologico ha accresciuto i timori e le paure, regalandoci possibilità di morte ed estinzione apparentemente nuove. Ma nuove davvero? L’apparire di un nuovo e terribile morbo, la catastrofe nucleare, i/il meteoriti/e che si abbatte/abbattono sul mondo, l’esplosione di una nova nelle vicinanze del sistema solare, l’invasione degli insetti (qualcuno ricorda un film magistrale sul tema come Fase IV distruzione Terra?), terremoti distruttivi, nuove ere glaciali, un effetto serra irreversibile, l’esplosione del Sole o la caduta della luna sulla terra… Ce n’è davvero per tutti i gusti. Ma, a essere sinceri, ben poco che non si possa far rientrare nelle categorie a suo tempo illustrate dall’Apocalisse e qua e là anche in altre parti della Bibbia (… sette anni di vacche magre…).
    Sarà forse per via di questo comune substrato culturale che il sovrapporsi di notizie sulle difficoltà a trovare un accordo mondiale sulle emissioni di gas-serra, sulla SARS, sullo scioglimento delle calotte polari, sul commercio illegale di armi nucleari, chimiche o biologiche, sulla guerra all’Iraq e – perché no – sulla distruzione del museo e della biblioteca di Baghdad, regalano a giornali e TV suggestioni da catastrofe annunciata, trasformando ogni notiziario in una rassegna di scricchiolii che fatalmente anticipano il crollo finale.
    Eccesso di fantasia? Certo.
    Allarmismo? Possibile.
    Paura? Sicuro.

    In molta letteratura SF degli anni ottanta e novanta la catastrofe ecologica, le nuove pestilenze, la compresenza di conflitti localizzati e terrorismo, la convivenza tra tecnologie e biotecnologie avanzatissime e condizioni di vita e lavoro da Medioevo formano in genere il punto di partenza del testo. Non è un caso che sia un film di SF come Blade Runner – al di là dell’effetto di saturazione che dà anche solo il sentirlo citare – a essere divenuto un parametro per la descrizione e il giudizio del reale. Migrazioni di massa? Ci viviamo in mezzo. Ambienti post-industriali? Ovunque (e particolarmente a Torino) non è difficile incontrarne. Tecnologie avanzate e spersonalizzanti? Provate a pensare a come la vita di tutti i giorni sia attraversata e segnata da forme di controllo personali (cfr. D. Campbell, Il mondo sotto sorveglianza). Guerra e terrorismo? Beh, gli esempi non mancano.

    «La SF non è predizione del reale», si è detto e scritto.
    Verissimo. Ma il fatto è che, ultimamente, si ha la netta sensazione che molta SF sia divenuta puntuale descrizione della realtà, piuttosto che racconto capriccioso nato da qualche capa fresca.
    «La SF non è stata in grado di predire nessuno progresso tecnologico significativo», è stato osservato in molte occasioni.
    Una di quelle affermazioni da pronunciare ore rotundo per compiacersi di non averne letta. E, come praticamente tutte le affermazioni definitive, una fregnaccia. La SF è narrativa e quindi nata da scrittori, non da un centro studi strategico che raccoglie teste d’uovo incaricate di produrre studi di settore. Compito e piacere di chi scrive e chi legge SF è quello di esplorare i comportamenti umani all’interno di situazioni rese possibili da linee di futuro intrinsecamente coerenti e verosimili. Nei romanzi di SF non esiste il «Progetto Genoma», ma esistono, per dire, gli omuncoli di Paul Linebarger (Cordwainer Smith), non esiste Internet, ma esiste l’Ansible di Ursula LeGuin. Nella buona SF la tecnologia futura ha un rapporto profondo con la psicologia, personale e sociale, e mostra il legame tra lavoro e mito, ovvero tra realtà dei rapporti di produzione e l’oscurità dell’inconscio. Al capolinea di questo rapporto vi è, naturalmente, la catastrofe, ovvero il naufragio definitivo dei comuni sforzi per convivere con il reale.
    Nasce da qui l’aura vagamente jettatoria del genere SF, la tendenza a «buttarla sul tragico». Screditare la valenza «profetica» della fantascienza è innanzitutto sfondare una porta aperta – la SF non è profezia – e, in secondo luogo, affermare che la situazione è comunque sotto controllo. Qualcuno si sente di sottoscrivere questa affermazione?

    Una recensione monografica, questa, interamente dedicato alla raccolta di Premi Hugo pubblicata dall’editrice Nord, con i vincitori per tre delle quattro categorie del premio (la quarta è il romanzo) – romanzo breve, racconto, racconto breve – per il 1999, 2000, 2001.
    Non esiste un curatore dell’antologia, e nel colophon sono indicati unicamente i traduttori: Luca Landoni e Flora Staglianò. Insomma, un’antologia decisamente spartana, in carattere con le condizioni terminali dell’editrice Nord nell’autunno del 2002.
    Per chi non lo sapesse (ancora), dall’inizio del 2003 la gloriosa Editrice Nord è diventata proprietà del gruppo Longanesi, che ne ha rilevato il catalogo e, nonostante le promesse, ha ristampato ben poco. La casa editrice, in accordo con il complotto ormai consumato contro la SF, ha finito per pubblicare i consueti thriller, segregando la fantascienza in una riserva di tascabili. Ovviamente questo libro non è di facilissimo rinvenimento ma ne consiglio ugualmente la ricerca, tanto per non dimenticare che cos’era la fantascienza in Italia soltanto pochi anni fa.
    oceanicNel 1999 a vincere il premio Hugo per la categoria romanzi brevi fu Greg Egan con Il culto degli oceani [Oceanic].
    Greg Egan, per chi non lo conoscesse, ha alcune positive «fissazioni» e non perde occasioni per scriverne. Una di queste è il rapporto tra fede (soprattutto le nuove fedi di sapore new age) e conoscenza scientifica. In questo (ottimo) testo breve – una cinquantina di pagine – Egan affronta il tema di una chiesa basata sul culto di Beatrice, figlia di Dio, una fede e una complessa liturgia interamente basate su un secondo battesimo per immersione. Immersione come illuminazione, rapporto profondo e personale con la divinità.
    Protagonista un giovane che, spintovi dal fratello, si sottopone al secondo battesimo. Ne esce rigenerato, felice, pienamente conquistato:
     

    La figlia di Dio era con me: sentivo la Sua presenza come una fiamma nel mio cranio, che irradiava calore nel buio dietro i miei occhi. Dandomi conforto, dandomi forza. Dandomi fede.

    Ma dal momento della conversione Martin, fino a quel momento quieto, scettico e non particolarmente interessato alla speculazione ontologica, si trova ad affrontare le resistenze, saldamente razionali, di tutti coloro che non sono stati «immersi» e che contestano le verità rivelate e le liturgie della suo credo.
    Passo dopo passo Egan, attraverso gli incontri e le scoperte di Martin, smonta razionalmente i meccanismi della fede in Beatrice, figlia di Dio, fino a sciogliere anche l’ultimo enigma, la «presenza» intima di Beatrice nella mente degli «immersi».
    Ma la decostruzione del credo di Martin non è un semplice e arido percorso raziocinante, né un trionfale cammino guidati dalla «luce positiva della scienza». Egan rivela qui un’attenzione e una curiosità per i bizzarri processi della mente umana – la tendenza ad autoilludersi, il timore della solitudine, la ricerca di una felicità non legata al possesso e all’autoaffermazione – che fanno del suo breve romanzo una malinconica testimonianza della condizione umana.

    La via verso Dio non poteva essere ragionata; esisteva soltanto la fede. E io sapevo, ora, che la mia fede traeva origine da un incidente privo di significato, un effetto secondario e imprevisto […]

    «Non è insopportabile non credere in Dio?», chiede Martin, «Non tutto il tempo», gli risponde un anonimo rigattiere. Non siamo infelici «per tutto il tempo», né siamo senza speranza «per tutto il tempo»: davvero l’unica risposta possibile per chi ha scelto di non avere fede.
    Taklamakan, di Bruce Sterling, vincitore nella categoria del racconto, è un’irriverente e fantasiosa incursione nel territorio classico (per la SF) della vita e dell’intelligenza artificiale. Nel deserto di Taklamakan succede qualcosa di «grosso». Un esperimento proibito? Un pericolo per l’Occidente? Tre agenti vengono inviati sul posto a indagare. E la risposta è davvero «qualcosa di grosso», tanto da sfidare ogni comprensione e ogni possibilità di controllo. Drammatico ma venato di humour nero, caotico e assurdo, una delle cose migliori di Sterling, autore qualche volta più dotato di idee che della capacità di raccontarle…

    La pulsazione della macchina, di Michael Swanwick, il racconto breve del 1999, ha un tema e un’ambientazione degni della tradizione della SF alla Arthur Clarke. Una missione fallita su Io, satellite di Giove, e il disperato tentativo dell’unica sopravvissuta di giungere alla salvezza. Per salvarsi Martha deve percorrere un lunghissimo tratto a piedi, trascinando sulla slitta il cadavere della sua compagna, con il casco e il cranio sfondato. Solo che il cadavere, inesplicabilmente, non cessa di comunicare con lei per mezzo della radio nella tuta. La soluzione (e la salvezza) sono – letteralmente – a portata di mano. Basta abbandonarsi…
    Davvero un breve testo eccellente, con una soluzione finale forse non del tutto in carattere con l’ispirazione «clarkiana», ma felicemente sorprendente.

    Michael_Swanwick

    Michael Swanwick

    Romanzo vincitore nel 2000 è stato I venti di Marble Arch, di Connie Willis, un genere di testo che è almeno in parte sorprendente abbia potuto vincere uno dei maggiori premi letterari nel campo della SF.
    L’inizio e lo sviluppo della vicenda, ambientata nella Londra contemporanea, hanno, per la verità, ben poco di fantascientifico. Un matrimonio in crisi che i protagonisti tentano di rivitalizzare con un viaggio negli stessi luoghi che videro, vent’anni prima, la nascita del loro amore. Lui, Tom, ama la metropolitana londinese, lei, Cath, proprio come nel loro primo viaggio, la detesta. Anche se adesso potrebbe tranquillamente fare uso di un taxi, Tom decide di tornarvi, affascinato dai treni e dall’atmosfera particolare della sotterranea. Ma ad attenderlo c’è il vento, una corrente d’aria fortissima che solo lui, apparentemente, avverte, carico dell’odore del terrore e della morte nei bombardamenti dell’ultima guerra. Tom si sforza di trovare una spiegazione razionale agli improvvisi accessi del vento negli spazi della metropolitana, cerca altri che abbiano provato le sue stesse emozioni, cerca notizie sulla Londra degli anni quaranta, mentre il suo rapporto con Cath conosce una lunga, fatale eclisse.
    Nonostante l’impegno febbrile Tom riesce soltanto a capire che altri «sentono» i venti, ma la loro natura profonda resta per lui incomprensibile:

    Gli anziani li sentono sempre pensai […] Camminavano piegati quasi in due contro un vento che soffiava in continuazione […] restavano alla larga della metropolitana […] non a causa degli scalini o delle lunghe distanze… ma a causa dei venti, che puzzavano di separazione, perdita e dolore.

    Capirà, infine, anche grazie a Cath. Ma capire non significa spiegare, a se stesso o agli altri. La fitta rete di tunnel e di spazi illuminati e oscuri della metropolitana forse è anche un deposito, un imprevisto reliquiario di dolori e sofferenze che nessun sistema di areazione potrà mai smaltire.

    connie willis

    Connie Willis

    Un romanzo lieve, fatto di sensazioni appena accennate e di ombre di emozioni e di ricordi, scritto con un tono compostamente disperato che lo rende affine a certe storie di fantasmi senza redenzione. Curiosamente affascinante l’ambientazione nella metropolitana, un non-luogo tra i più suggestivi della recente tradizione narrativa.

    1016 di 1, di Patrick Kelly è ambientato nella provincia statunitense degli anni cinquanta e ha per protagonista un bambino decenne. Per un’appassionata di SF e «vecchia» lettrice di Ray Bradbury si tratta praticamente di un ritorno a casa.
    Se poi il bambino si trova a essere l’unico testimone della comparsa di una creatura venuta dal futuro e anche il solo essere vivente che abbia la possibilità di salvare il mondo, o perlomeno il nostro futuro tra i tanti possibili, non è difficile immaginare il mio incondizionato apprezzamento…
    Ma il vero miracolo di Kelly è stato quello di non ricalcare piattamente temi e suggestioni di quegli anni, ma arricchirli di nuovi timori e terrori. E veramente notevole il finale a orologeria…
    Michael Swanwick, con Scherzo con il tirannosauro, è riuscito a costruire un’ammirevole minuscola macchina narrativa basata su una serie inestricabile di paradossi temporali. Nelle stesse poche pagine ha poi rappresentato degnamente e in forma davvero inedita un insostenibile conflitto di coscienza e descritto la miseria del viaggio nel tempo come insulsa pratica turistica per ricchi sfaccendati. Uno Hugo davvero meritato!

    Nel 2001 la terna di autori fu: Jack Williamson con La terra definitiva, Kristine Kathryn Rusch con Millennium Babies e David Langford con Tipi diversi di oscurità.
    Detto per inciso, il romanzo lungo vincitore per quell’anno fu Harry Potter e il calice di fuoco, ovvero un tipo di testo che, senza nulla togliere all’autrice, tuttora mi chiedo quale genere di attinenza abbia con la fantascienza.
    Difficile esista qualche lettore di SF che non abbia mai letto qualcosa di Jack Williamson. Sì perché JW è nato nel 1908 e pubblica dalla bellezza di 75 anni. Il suo La terra definitiva non posso onestamente dire mi abbia entusiasmato. Si tratta di una storia complessa e vivace di cloni, nanorobot patogeni, viaggi nel tempo e nello spazio, fughe, salvezze, sacrifici e missioni, ma povera di caratteri e, fatto curioso per uno degli autori che hanno letteralmente inventato il celeberrimo sense of wonder, non troppo dotata in fatto di suggestioni. Non escluderei che JW abbia ricevuto il premio Hugo per il 2001 come strameritato riconoscimento alla carriera.

    Millennium Babies di Kristine Kathryn Rusch è una forma curiosa di fantascienza al futuro anteriore, una storia intima e struggente, di grande fascino.
    Brooke Delacroix è una single, lavora all’università, ha una piccola casa in campagna ed è moderamente – verrebbe da dire faticosamente – tranquilla. È «perseguitata» da un sociologo fermamente intenzionato a condurre un esperimento su di lei, come membro di un gruppo un po’ particolare di persone:

     

    Nessuno si aspettava che scoppiasse la mania, ma era diventata ormai evidente nel marzo del 1999. I potenziali genitori avevano programmato il concepimento dei loro figli come parte di una corsa per vedere se il loro bambino poteva essere il primo nato del 2000…

     

    Kristine-Kathryn-Rusch

    Kristine Kathryn Rusch

    La madre di Brooke aveva puntato parecchio su questa possibilità, ma la bambina era nata a mezzanotte e cinque del 1° gennaio 2000 e quindi faceva parte del gruppo degli sconfitti, di quelli che non avevano vinto nulla, che non avevano ricevuto nulla.

    Lo scienziato, deciso a studiare questa curiosa coorte di individui, ha in mente un lavoro sul successo e sul fallimento:

    – Voi Millennium Babies avete molti tratti in comune. I vostri genitori vi hanno concepito nello stesso istante e avevano mire e desideri simili per voi. Siete usciti dal grembo e immediatamente siete stati etichettati come un successo o un fallimento […]

    Ma l’esito dello studio, vago e un po’ assurdo, non è il centro del racconto di Rusch. Al centro le storie che si intrecciano di chi ha avuto un’opportunità, sia pure legata a una lotteria anagrafica, e di chi non l’ha avuta, di chi ha saputo o potuto sfruttarla e di chi ha dovuto senza colpa risalire la china. Di chi, come Brooke, ha passato un infanzia marchiata dalla silenziosa ostilità della madre sconfitta.
    Lotterie e concorsi sono diventati, un po’ dovunque, un termometro della disperazione. Ti va tutto male, non hai prospettive, non sai come garantire un futuro alla tua famiglia? Compra un biglietto, partecipa al concorso, alla gara, al gioco. Una vittoria, anche una sola, servirà a farti sentire finalmente qualcuno e ti spingerà a giocare ancora. Gioca: è l’unica speranza per sopravvivere in questo mondo.
    A chiudere il libro il racconto breve vincitore dello Hugo 2001, Tipi diversi di oscurità di David Langford. Anche qui un gruppo di ragazzi, una società segreta e una prova di ammissione molto speciale. E un mondo autooscuratosi per difendersi da una forma davvero sorprendente di terrorismo. Un racconto geniale per lo spunto, suggestivo per il tema e condotto con mestiere sicuro. Ottimo esempio di SF per il nuovo millennio.
    È possibile trarre qualche conclusione, azzardare qualche riflessione a partire dai testi presentati, premiati alla WorldCom, congresso mondiale di SF al quale partecipano lettori appassionati ma anche autori, traduttori, redattori di riviste e di case editrici specializzate e tipi strambi di ogni genere?
    Probabilmente no, ma qualche traccia, qualche piccola nota forse non è del tutto superflua.

    Due autrici, Willis e Rusch, e due testi sicuramente «personali», basati su spunti che ben poco hanno di SF. In apparenza. Ma in tutti e due un’ansia per la nostra comune sorte, per il mondo che abbiamo alle spalle e per quello che sta emergendo dalle irregolarità e dalle assurdità del presente, che non è facile incontrare in racconti e romanzi non legati alla SF. È forse la riflessione sulla nostra dimensione collettiva, quella che troviamo condotta fino all’eccesso nelle cronache dei disastri che ci attendono, a essere un po’ la seconda natura della SF. Il destino personale inscritto in quello collettivo, la tensione tra personale e pubblico, il nostro posto nel mondo e il posto del mondo dentro ognuno di noi.
    Da qui la frequenza con la quale la SF è anche letteratura da interrogativi etici – in questa antologia particolarmente evidente in Egan –, delle questioni non risolte, delle ambiguità impossibili da risolvere.
    Una caratteristica unificante – la dimensione sociale della narrativa di speculazione – che preesiste a ogni definizione di SF, rendendola una delle più significative letterature del XX secolo, tanto da formare il substrato narrativo a sogni e incubi politici e filosofici. Insomma, se Norman Spinrad aveva ipotizzato un Adolf Hitler scrittore di fantascienza, forse non aveva poi corso troppo con la fantasia…

     

    Premi Hugo 1999 – 2001

    Editrice Nord, 2003, pp. 340, € 18,00

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