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    H. Weinrich – La lingua bugiarda

    • di Silvia Treves
    • Gennaio 26, 2008 a 6:21 pm

    Harald Weinrich
    La lingua bugiarda
    Il Mulino, «voci»
    € 9,00
    trad. F. Ortu

    La lingua ci aiuta a mentire, come sosteneva Tayllerand o, invece oppone resistenza alla menzogna, come auspicava sant’Agostino? Posto da un linguista l’interrogativo ha come esito una riflessione acuta e stimolante sulla costruzione linguistica e sulla menzogna, entità complessa e sfumata che può essere definita veramente tale soltanto se detta con l’intento chiaro di ingannare e non una mezza bugia, una piccola deviazione dalla verità, un’omissione, una bugia «diplomatica» o detta «a fin di bene».
    Ma «come» si mente? Con le parole o con le frasi? O, per dirla con l’autore, «È la semantica o la sintassi a doversi occupare del fenomeno bugia?» Secondo l’autore la diatriba tra parola e testo non ha senso; solo nella frase, infatti, i numerosi significati lessicali di una parola si riducono a ogni determinazione aggiunta dalle parole vicine, fino a diventare uno: «Non siamo schiavi delle parole, perché siamo padroni dei testi», afferma Weinrich, sostenendo che un testo, se scritto con attenzione, è ambiguo solo se vuole esserlo, cioè per intenzione di chi scrive. Pensiero conturbante, ma anche consolante, per gli autori che si cimentano con il genere narrativo più ambiguo per definizione, quello fantastico.
    Anche il lettore può consolarsi, però: benché le singole parole di una lingua possano essere intraducibili, esse stanno sempre all’interno delle frasi, dunque «i testi tradotti mentono soltanto se sono tradotti male».
    Eppure, esistono termini con i quali si è molto mentito, gravati del «marcio misticismo delle parole», come affermò Bertolt Brecht nel 1934. Basta pensare a parole come Patria o Verità. Ma sono le nude parole a mentire o è il contesto nel quale sono inserite, il loro «passato», noto e condiviso da chi parla e chi ascolta?
    Weinrich offre esempi illuminanti, spesso tratti dalla lingua (e dalla storia) tedesca ma ogni lingua e ogni tempo hanno i loro. Per l’italiano del Ventennio le parole posto al sole costituiscono un buon esempio. Oggi… Che ne dite di «Imperi del Male»? I singoli termini, separati, non creano cortocircuiti. È il contesto, il loro abbinamento, la determinazione reciproca a indirizzare inesorabilmente il loro significato. La bugia, come la falsità, appartiene al regno della sintassi. Le parole, i concetti, «divengono falsi quando l’ideologia e le sue dottrine mentono».
    Ma è menzogna l’ironia, stigmatizzata dai presocratici, apprezzata da Socrate e canonizzata dai romantici, forma linguistica sofisticata che, secondo Wolfgang Kaiser, dice «il contrario di quel che si dice a parole», ma finge lasciando intendere che sta fingendo? O la metafora, che ha a che fare con l’inganno ma certamente non con il mentire? E i poeti, mentono? Appoggiandosi a Musil, Goethe, Gadamer, Weinrich esamina con rigore e lievità i codici linguistici della metafora e dell’ironia e la forma poetica.
    La lingua bugiarda, ora arricchito da una postfazione costruita come «dialogo critico con l’autore che ero a quel tempo», e da considerazioni rispecchiano il travaglio interiore di Weinrich sulla bugia politica utilizzata dal nazionalsocialsmo fu pubblicato per la prima volta in Germania nel 1966, quando ancora lo studio della «bugia» era un terreno vergine per la neonata linguistica testuale e mantiene tuttora lucidità e freschezza.
    Piccolo testo prezioso, ha anche il grande merito di spiegare che – mentre le singole parole decontestualizzate sono neutre e «innocenti» – la lingua non è solamente uno strumento duttile, raffinato e complesso, è la sostanza stessa dei nostri pensieri e quindi delle azioni che ne discendono. Usandola, possiamo mentire con l’accento della verità o usare la forma della bugia per dire il vero e, soprattutto, possiamo mantenerci sul crinale, sospesi tra l’una e l’altra, per illuminare la ricca ambiguità del reale.

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