E chi sarò quando avrò cessato di essere me stesso?
R. Silverberg
Robert Silverberg, newyorkese classe 1935 con alle spalle approfonditi studi umanistici e una laurea in letteratura comparata, è probabilmente uno degli autori più rappresentativi della fantascienza anglofona degli anni Settanta. Sicuramente anche uno dei più controversi, letto e apprezzato dalla generazione che aveva vent’anni nell’ultimo periodo della guerra del Vietnam e della rivoluzione nei campus universitari, poco famigliare ai giovani appassionati di fantascienza di oggi, un po’ snobbato da chi non riesce a dimenticare i suoi primi romanzi, troppi e troppo easy, la disinvoltura di allora nel passare dalla fantascienza al racconto erotico, al romanzetto avventuroso, o da chi non ha amato i suoi fantasy degli anni Ottanta, o la sperimentazione francamente noiosa di testi come Il Figlio dell’Uomo (Son of Man, 1971).
In realtà, come nell’opera di Picasso, anche in quella di Silverberg si riconoscono alcuni periodi: gli anni Sessanta della produzione seriale, buona abbastanza per essere venduta e niente di più, quella intensa e generosa degli anni Settanta, anni artisticamente felici nei quali l’autore esplora e integra nelle sue opere l’amore per la buona scrittura e i temi che gli sono più affini: solitudine, isolamento, difficoltà di comunicazione, la rappresentazione di un’umanità sospesa tra crudeltà e bisogno di trascendenza. Sono gli anni delle opere migliori, che sfumeranno dignitosamente, nel ventennio Ottanta e Novanta, in progetti narrativi complessi e riusciti, ma non più così sofferti.
Romanzo di formazione a ritroso pubblicato nel 1972, Morire dentro, riproposto in una nuova traduzione1 da Fazi, è la storia costruita per flashback dello spegnersi di un talento ingovernabile che ha condannato il protagonista all’isolamento e gli ha donato attimi di gioia sfolgorante. Telepate e uomo qualunque, umano e meschino come ognuno di noi, David Selig, quarantenne single e privo di affetti, ha fallito nella professione universitaria e nella vita affettiva, schiacciato dalla capacità innata di leggere i pensieri altrui. Fin dall’infanzia David ha sperimentato nitidamente le debolezze e l’ipocrisia dei genitori, poi il conformismo degli insegnanti, l’astio della sorella, il timore e il disgusto delle amanti.
Il suo talento non gli ha impedito di vivere nel mondo, di riflettere, fino al disgusto, sulle scelte politiche suo paese, sull’ipocrisia e sulle menzogne del potere:
Ve lo ricordate un po’ il ‘68? I bambini morivano di fame in un posto chiamato Biafra, di cui sicuramente non vi ricordate, mentre i russi spostavano truppe in Cecoslovacchia per offrire un’ennesima dimostrazione della fratellanza socialista. Per promuovere la pace e la democrazia in un posto chiamato Vietnam, di cui vi ricordate ma preferireste di no, scaricavamo napalm su qualsiasi cosa comparisse all’orizzonte e un ufficiale di nome William Calley aveva da poco organizzato l’eliminazione di cento e passa vecchi, donne e bambini – tutti estremamente sinistri e pericolosi – della cittadina di My Lai, solo che noi ancora non ne sapevamo niente.
Né gli ha impedito di sognare come tanti coetanei un mondo migliore e di lottare per realizzarlo, di affrontare le cariche della polizia alla Columbia Università, nell’estate del Sessantotto. Ma David è un telepate e non può fare a meno di conoscere gli altri umani troppo in profondità, per farsi illusioni:
[…] vennero sfondati i crani di molte matricole e nelle fogne scorsero svariati litri di sangue di primissima scelta. […] Fu allora che capii che non c’era speranza per il genere umano se perfino i migliori di noi andavano fuori di testa per la causa dell’amore, della pace e dell’uguaglianza tra gli esseri umani. In quelle notti oscure lessi molte menti e non vi trovai che deliri e follia.
Ormai giunto alla mezz’età, ridotto a campare scrivendo tesine di letteratura che vende per pochi dollari agli studenti, imprigionato come in un bozzolo nei molteplici riflessi delle menti che lo circondano David è rimasto una larva, può conoscere ogni pensiero di chi ha di fronte ma è troppo sovraesposto per sviluppare l’empatia che consente a noi umani di sopportarci a vicenda, di comprenderci, di amarci. Di perdonarci.
Uno come me, permeabile ai più intimi pensieri di chiunque, è destinato a conoscere ben poco amore. Non può dare che poco, perché non si fida molto degli altri esseri umani; conosce troppi dei loro piccoli, sporchi segreti e questo uccide i suoi sentimenti. Incapace di dare, non può ricevere. La sua anima, indurita dall’isolamento e dalla spietatezza, diventa inaccessibile e così, per gli altri, non è facile amarlo.
Poi la svolta: le voci interiori degli altri cominciano a diventare più opache, il loro tono peculiare si confonde e David vive attimo per attimo l’affievolimento della sua unica grandezza: il talento che lo ha rovinato.
Per chi ama la fantascienza Morire dentro è una sintesi felice dei pregi di questo genere di letteratura, ugualmente attento al mondo fuori di noi e a quello interiore, ai nostri due modi di essere, quello pubblico di cittadini e quello privato, di esseri umani dolenti che devono conservare la speranza.
Ma, come cronaca in diretta di un’ordinaria tragedia, Morire dentro ha molto da dire, da sussurrare, a ogni tipo di lettore, molto sulla realtà di oggi e sul nostro paese, su un mondo dove perdiamo giorno per giorno la capacità di sperare, dove un inarrestabile e banale chiacchiericcio ci rende sordi ai nostri stessi pensieri, un mondo dove sempre più spesso gli altri pensano e parlano in maniera diversa, difficile da ascoltare e più ancora da comprendere. E dove, tuttavia, imparare ad ascoltare, a tollerare, a sopportare voci incomprensibili è di fondamentale importanza.
La complessa situazione del nostro mondo ha radici e spiegazioni storiche, politiche, economiche, culturali, ma sviscerarle è compito degli autori di saggi, non degli scrittori di romanzi, a loro spetta, invece, il compito di essere «contro», di puntare il dito sui nostri malesseri, di seminare dubbi su ciò che è accettabile e ciò che non dovremmo tollerare. Con Morire dentro Silverberg assolve a questo ruolo riuscendo anche, – e gliene sono grata – a lasciarci un piccolo varco, una fessura dalla quale scorgere un paesaggio migliore e più silenzioso:
Ora c’è un gran silenzio.Il mondo è bianco fuori e grigio dentro. Io lo accetto. D’ora in poi la vita sarà più tranquilla. Il silenzio diventerà la mia lingua madre. Ci saranno scoperte e rivelazioni, ma senza turbamenti. Forse rivedrò anche qualche colore. Col tempo.Forse.Vivendo peniamo, morendo, viviamo. Lo terrò a mente.
Attenzione: questa non è una recensione neutrale: ho letto Morire dentro in gioventù; da allora, insieme ad alcuni romanzi di Dick, a un racconto lungo di Delany e a opere di vari autori, mi ha accompagnato nella mia vita di lettore e di autore. Negli anni successivi l’ho sempre avuto presente e so che è scivolato dentro di me fino a costituire quel terreno, diverso per ognuno di noi, dal quale nascono fantasie e racconti. Rileggerlo a distanza di così tanto tempo è stato sorprendente: pagina dopo pagina era all’altezza dei miei ricordi, ne rammentavo ogni passo e insieme lo riscoprivo. Mi percepivo cambiata, ma non tanto da non amarlo ancora. E abbastanza diversa da comprenderlo meglio e in maniera differente.
Immagino non si possa chiedere di più a un libro.
1 Da segnalare la traduzione di Stefano Tummolini, sensibile e più moderna di quella precedente di Rino Ferri per le edizioni Armenia.
Robert Silverberg
Morire dentro Fazi, 2007,
pp. 287, € 16,50
Trad. S. Tummolini
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