Cryptonomicon di Neal Stephenson, è un romanzo letteralmente terrificante. Non per i temi o per il genere di narrazione, ma semplicemente per le dimensioni: 1137 pagine (+ 22 di appendice e note), con quaranta righe ciascuna di 64 battute ognuna, per un totale di 2.910.720 caratteri.
Se calcolate che un romanzo medio di 200 pagine ne ha circa 500.000, potete realizzare le dimensioni dell’opera di Stephenson. Tutta questa introduzione non mira a cercare solidarietà – il libro era gradevole e la lettura è scivolata via quasi senza fatica – o a spuntare maggiore considerazione nelle alte sfere della rivista, ma semplicemente per introdurre degnamente un libro che trae la propria ragion d’essere dalla matematica. Non so quanti tra i lettori si siano mai interessati di crittogrammi e quanti possano affermare di esserne almeno superficialmente degli esperti. Esempi banali di crittogrammi si possono generalmente trovare nelle pagine delle riviste di enigmistica con titoli del tipo «A numero sostituisci lettera: al termine comparirà un detto di J.P. Tizio o Baron Caio». Su principi non troppo differenti erano basati i codici utilizzati nel corso della seconda guerra mondiale. Chi aveva codici migliori o riusciva più rapidamente a decodificare i codici altrui era perfettamente informato sugli spostamenti di navi, aerei, rifornimenti e truppe su ognuno dei principali teatri di guerra. In genere la decodifica di un codice era quanto serviva per condannare a sicura morte l’equipaggio di un sottomarino, un convoglio di navi o qualche migliaio di soldati. Che i soggetti coinvolti fossero un pugno di eroi o una banda di poco di buono non era un argomento che potesse interessare i crittografi.
Questa osservazione preliminare mi serve a introdurre uno degli aspetti più interessanti del libro di Stephenson. Già, perché dalla necessità di decodificare i codici militari è venuta una formidabile spinta allo sviluppo di macchine calcolatrici sempre più perfezionate. Da quelle macchine calcolatrici sono nati gli attuali computer (in questo momento ne sto usando, per l’appunto, uno), macchine basate sulla stessa logica binaria dei primissimi calcolatori a valvole.
Sapendo che lo scopo finale di quegli armadi di metallo con le luci che si accendevano e si spegnevano era, essenzialmente, quello di ammazzare quanta più gente possibile con una spesa minima, forse si può cominciare davvero a comprendere le rigidità e i vuoti di senso di un mondo interamente dominato dalle macchine e dalla loro logica elementare. Stephenson, che non è affatto un nemico dei computer (anzi), e che riesce a cogliere senza difficoltà il fascino dell’ascesi matematica ha tuttavia scritto un romanzo per ricordare la loro origine, il peculiare peccato originale dal quale sono nati. Non sembrerà quindi strano che il romanzo sia affollato di personaggi la cui vita è, in un modo o nell’altro, collegata all’elaborazione di dati, in balìa del risultato o di un’equazione particolarmente complessa.
A prima vista il romanzo di Stephenson è insieme un racconto di guerra, sia pure narrato nelle retrovie, e la cronaca delle avventure di una piccola ditta telematica nell’Asia di fine millennio. Può contare su personaggi divertenti, strani, curiosi, assurdi, tragici, grotteschi o patetici che vivono una lunga parentesi della propria vita nelle pagine del libro, ed è scritto con uno stile adeguatamente mobile, vivace, a tratti decisamente spassoso. Ma a una osservazione più attenta denuncia la sua fisionomia di romanzo direttamente derivato dalla tradizione FS. Affronta, infatti, il tema di una tecnologia divenuta onnipresente, arrivando a riflettere e a far riflettere sulla sua origine, sulle sue premesse e conseguenze future. Ciò che è anche la lunga storia del ritrovamento di un tesoro perduto, elemento che ne giustifica la sostanza di romanzo d’avventura, nasce da una riflessione etica e da una presa di posizione civile e politica.
Irriducibilmente individualista, da vero hacker californiano, Stephenson concepisce unicamente una resistenza fatta di tastiere roventi, di un antiautoritarismo istintivo, quasi infantile, di legami personali, di passioni comuni limitate a piccoli gruppi. Una visione politica che quasi nulla ha a che fare con le abituali ideologie del XX secolo.Visto il loro esito, in ogni caso, credo che meriti almeno qualche riflessione anche la rivoluzione per piccoli numeri di Stephenson. Non sarà la palingenesi definitiva ma forse può riuscire a migliorare le cose, da qualche parte. Molto meglio di quanto siano riusciti a fare, comunque, i grandi sistemi politici che abbiamo alle spalle. Perfettamente intonata a questa visione del mondo è la presenza nel romanzo di Alan Turing, qui nei panni di un protohacker dai gusti sessuali riprovevoli, oppresso fino alla paranoia dall’establishment politico-militare.
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