Noi esseri umani siamo giocatori d’istinto, come tutti i nostri cugini primati. Se c’è qualcosa che unisce noi scimmie (ma, come risulta da recenti studi, anche la maggior parte degli animali superiori, dai cetacei ai polli dai cavalli ai polpi – sì, purtroppo, proprio loro, uno degli ingredienti principali dell’insalata di mare) è la passione per il gioco. Per alcuni di noi questa passione raggiunge vertici pericolosi, ma anche in una vita ordinaria le componenti del gioco – sfida, rischio, finzione, scherzo – sono presenti in grande quantità. Alcuni sono giocatori più rigorosi, altri giocano in maniera quasi inconsapevole, un piccolo numero, vivendo in «tempi interessanti», come dicono i cinesi, si ritrovano impegnati in partite estremamente serie, su scacchiere grandi come nazioni. Proprio come i protagonisti di questi tre libri.
Il Presidente, prima di ritirarsi a vivere nella casa semplice e austera sulla costa normanna, aveva partecipato a ventidue governi, otto volte come Presidente del Consiglio. Era stato a un passo dalla Presidenza della Repubblica. Nella sua lunga e prestigiosa carriera era venuto a conoscenza di segreti di stato, di verità scomode, di notizie che, se divulgate anche a distanza di molti anni, potrebbero gettare ombre sulla reputazione e sull’operato dei politici venuti dopo di lui e, forse, far cadere il nuovo governo che sta per essere presentato al Paese. Giornalisti e storici, quando lo ricordano, si chiedono se pubblicherà, o forse lascerà agli eredi, le sue memorie ufficiose, più complete e più compromettenti di quelle ufficiali già date alle stampe. E, soprattutto, se finalmente rivelerà le ragioni della rottura, consumata quindici anni prima, con Chalamont, il devoto segretario improvvisamente allontanato, che, dopo un’attesa tanto lunga, sta per diventare il nuovo Presidente del Consiglio. Il Presidente è stato un politico di razza, ha giocato con grande serietà la sua partita, muovendo i pezzi con attenzione, senza mai distrarsi; delle sue convinzioni politiche non parla, e al lettore non è dato conoscerle, ma dalle sue riflessioni può desumere che abbia posseduto un alto senso dello Stato
Avrebbe introdotto nella vita politica un certo rigore, e chi lo conosceva meglio aveva parlato di giansenismo laico.
Poiché vive in una casa modesta e il Paese ha dovuto assegnargli una pensione per garantirgli una vita decorosa, deve essere stato un politico onesto […] Diciamo pure, se preferisce, che nel corso di un’ascesa politica vi è un momento in cui gli interessi e le ambizioni personali di un uomo coincidono con quelli del Paese

Georges Simenon
Ormai anziano e malato, piegato da una sincope recente, il Presidente vive da recluso, assistito dalla segretaria, dall’infermiera, da una cuoca, una cameriera e un autista. Da un équipe di tre medici, dai tre poliziotti che a turno montano la guardai alla casa. Non più indipendente per quasi tutte le proprie necessità quotidiane, il Presidente trascorre il tempo sfogliando libri che non leggerà più, sbrigando l’ancora cospicua corrispondenza con giornalisti e colleghi di un tempo. Guardando il paesaggio fuori dalla finestra, pensando… E ricorda, osserva e sorveglia a sua volta la gente che amorevolmente sorveglia lui, chiedendosi chi stia discretamente cercando di mettere le mani sugli appunti che ha occultato qua e là, sulle annotazioni, su una lettera molto importante per qualcuno di Parigi. E, negli ultimi giorni, ascolta la radio per seguire passo passo la crisi di governo, e aspetta. Perché da Parigi, prima che il nuovo governo si possa insediare, deve giungere una visita, questo è certo.
Mentre aspetta, impegnato in quest’ultimo gioco contro il collaboratore di un tempo e contro i suoi amorevoli carcerieri, ripensa a quando, invece di Chalamont, era lui a riunire a pranzo i prescelti per il nuovo governo, sempre nel medesimo elegante ristorante, mentre dal piano di sotto giungevano suoni familiari che si ripetevano puntuali a ogni nuova investitura:
Un altro sottofondo non meno caratteristico era quello dei giornalisti e dei fotografi che pranzavano nella grande sala al pianterreno, consapevoli di giocare anche loro un ruolo importante nell’avvenimento del giorno. Quelle due ore erano, in definitiva, le migliori della vita di un governo.
Mentre i dipendenti si aggirano cauti, timorosi di disturbarlo e lo spiano per anticipare ogni necessità, il Presidente scivola in uno stato d’animo che il mondo là fuori, oltre i vetri, sembra intuire […]
Dietro le finestre della sala da pranzo la nebbia era talmente fitta da dar l’impressione di un paesaggio innevato sotto un cielo pesante, compatto, immobile. Un cielo che sembrava tutt’uno con la terra.
È il momento dei consuntivi, delle ultime decisioni […] Aveva ormai raggiunto un’età in cui non era più possibile essere disonesti nei confronti di se stessi.
Un grande Simenon che sa illuminare per il lettore la vita di un uomo che, almeno talvolta, ha raggiunto la grandezza, ha potuto attingere a quella forza interiore che consente di non tradire se stessi. Un uomo che deve ancora fare i conti con alcune ombre del passato e che forse sta per intuire qualcosa di importante su di sé. Un uomo a cui rimane ancora un po’ di futuro e qualche sorpresa.
Il Simenon migliore, quello che, guardando attraverso occhi di personaggi «speciali» – come quelli del Cappellaio di La Rochelle, o quelli del piccolo libraio di Archangelsk – riesce a dirci tanto del nostro mondo, tanto di noi.
Quanto segue più che una recensione sarà uno sfogo e, come tale, probabilmente ingiusto, probabilmente poco obiettivo. Lo sfogo, comunque, non è diretto contro l’autore del libro, i cui trascorsi, da soli, offrono spunti preziosi per una riflessione sui temi che dovrebbero essere di Zugzwang, ossia i rapporti tra potere, politica e vita quotidiana di ognuno di noi. Nel mio mirino, ho invece la politica editoriale che da tempo ha preso piede in Italia e che si potrebbe definire così: «Tu compra sulla base del risvolto di copertina, a pentirti avrai sempre tempo», una politica quanto meno giocata sull’equivoco, del quale il libro di Bennett è soltanto uno degli ultimi esempi.
Zugzwang – parola tedesca che significa, in ambiente scacchistico, «mossa obbligata» – si volge a San Pietroburgo nel 1914, mentre i bolscevichi stanno preparandosi alla rivoluzione e ai vertici dell’impero la fazione filotedesca e quella filofrancese stanno combattendo una lotta segreta e senza esclusione di colpi per tirare dalla loro lo Zar Nicola o liberarsene. Il noto psicanalista Otto Spethmann, vedovo cinquantenne lontano ormai dalle proprie origini ebree e poverissime, viene coinvolto – apparentemente dalla figlia Catherine, giovane di grande temperamento ma alquanto avventata – in un’indagine dell’Okhrana sui gruppi anarchici e bolscevichi. Colpito da recente vedovanza, Otto trascorre tranquille e noiose serate riordinando gli appunti presi durante le sedute e combattendo una lenta e faticosa partita a scacchi in differita con l’amico Kopelzone ebreo polacco osannato come il miglior violinista del momento. Se ha bisogno di riposarsi è perché per il suo studio passa proprio di tutto: lo scacchista matto e depresso che deve assolutamente vincere l’imminente torneo internazionale di scacchi che si svolgerà in città, una paziente seducentissima (figlia di uno degli uomini più potenti e spietati della Russia) con incubi ricorrenti e tutto l’armamentario da bella in pericolo tipico dei film noir degli anni Cinquanta, esponenti dei vertici del potere e del comitato centrale bolscevico (in giorni alterni, si spera), membri di varie polizie intenzionati a spaventarlo. Mentre lo scacchista matto sbarella e il padre della bella in periglio infierisce su di lui, lo psicanalista si ritrova circondato da buoni che buoni non sono, da poliziotti spicci e cattivi che forse non sono bastardi come sembrano. I misteri si infittiscono, e il lettore ci terrebbe a venirne a capo: insomma, questa rivoluzione russa bisognerebbe farla, la Storia se l’aspetta, gli operai pure, anzi sono tanto impazienti da farsi sparare in piazza verso pagina 253)… Catturato da una vicenda fin troppo intricata, interrotta spesso dai progressi della partita Spethmann/Kopelzone – spiegati con tanto di disegni da rivista di scacchistica e ricapitolazione finale – il lettore fa il suo dovere fino in fondo e, con crescente perplessità, riceve in premio una spiegazione insieme spiccia e complicata, con vari rilanci prima di arrivare all’acme finale.
Domanda: ma se il Comitato Centrale era tutto infiltrato di spie dell’Okhrana, se uno dei principali dirigenti era un depresso affetto da sensi di colpa, come accidenti saranno riusciti i bolscevichi (i menscevichi non vengono praticamente menzionati) a fare la rivoluzione?
Risposta: perché, imparando dall’astuto avversario, anche loro avevano infiltrato le varie polizie zariste con i propri agenti, rappresentanti di varie fazioni in lotta fra loro.
Contenti?
No, non ditemi che sono irrispettosa. Leggetevi Zugzwang prima. Io mi limito a osservare che:
1) Tra gli ingredienti del libro di Bennett figurano gli scacchi (che da Ingmar Bergman – mi scuso con il maestro – in poi fanno terribilmente impegnato), la psicanalisi che in letteratura resta sempre molto engagé e ha quel tocco retrò da attizzare i cervelli fini, la rivoluzione russa (che ci porta agli inizi del secolo breve e scusate se è poco), l’antisemitismo che innegabilmente rimane, purtroppo, un tema di grande attualità. E, tocco del gourmet, la musica, linguaggio universale che travalica anche la meschinità di chi la esegue o l’ascolta. «Buono con buono fa buono», diceva la mia prozia. Che è passata alla storia di famiglia come una cuoca dalla mano pesante.
2) la terza di copertina definisce Zugzwang un romanzo dal ritmo implacabile [che] fa propria e porta ad altissimi livelli la metafora del thriller – che attraverso la strepitosa potenza narrativa dell’azione fa emergere con prepotenza i caratteri, le emozioni e i sentimenti degli uomini – per raccontare il destino, individuale e politico, dell’uomo.
Buono a sapersi. «Ma io non sono un uomo!», come dice Eowyn al Nazgul [1], e la prossima volta mi leggerò un bel noir degli anni Quaranta. O magari un bel saggio di storia.
3) La bella faccia di Mr. Bennett, piazzata sul retro di copertina, ha avuto il suo peso nella scelta del romanzo. La prossima volta, invece di guardare la faccia dell’autore sfoglierò il libro con maggior attenzione.
Lassù, sulla cima di una collina del Texas orientale, con le tende azzurre tirate indietro, le finestre alte e ampie che occupavano un intero lato della stanza, vedeva la strada e, più in basso, un honky-tonk, al di là del quale stavano la strada statale e un drive-in circondato da una recinzione di lamiera luccicante. Il paese delle meraviglie.
Il romanzo comincia così, evocando in poche righe, la casa d’infanzia di Harry, il paesaggio ordinario della statale, il bar squallido dove tempo dopo si svolgerà un omicidio efferato, e lo schermo del drive-in, sul quale il protagonista e la madre puntano lo sguardo, per infinite sere, cucendo con quelle immagini mute e lontane, lunghe vicende che poco hanno a che fare con il film.
Sono gli anni migliori, per Harry, mentre ancora ignora lo strano talento che condizionerà la sua vita di adulto. L’avvenimento che libera la bestia dentro di lui è di quelli che non lasciano quasi memoria: una forte otite con febbre alta. Poi tutto torna come prima. Quasi. Ma Harry non se ne accorge subito, perché i bambini non vanno in giro da soli, non entrano in luoghi dove si è scatenata la violenza, dove la sofferenza ha lasciato il segno. Poi però crescono abbastanza da giocare fuori casa, ad esempio nel deposito di automobili vecchie nel cortile vicino. Si gioca da dio, fingendo di pilotare la vecchia Chevrolet arrugginita del 1959, con la vernice piena di bolle e il parabrezza crepato. Ma Harry ci sale una volta di troppo, e sbatte con forza la portiera…
Un rumore molto forte, come se qualcuno fosse impegnato a strappare fogli su fogli di lamiera al centro della macchina. Poi un tonfo sordo. La sua testa fu tutta un balenio e una esplosioni di forme e colori e lui si mise a gridare. Oppure fu qualcun altro.
Un’esperienza misteriosa e spaventosa che si ripete anni dopo, nell’honky-tonk abbandonato dopo un efferato omicidio. Lentamente, Harry comprende di possedere un dono avvelenato: suoni banali come quelli di una portiera che sbatte o dello sciacquone di un bagno, il tonfo di una pietra sulla strada, il cigolio di una sedia, evocano istanateneamente scene di violenza e sofferenza avvenute in tempi lontani nel medesimo spazio, si riavvolge il nastro del tempo e, in maniera dirompente, ora e allora si saldano. Soltanto nella mente di Harry.
Dopo i traumi subiti, il ragazzo diventa molto cauto, nelle case di certi amici non entra, su certi sentieri non cammina e detesta cambiare abitudini, entrare in nuovi locali; dal suo appartamentino di studente, un monolocale schifoso e con i mobili sfondati, non si sposterebbe nemmeno se potesse permettersi qualcosa di meglio, perché lì dentro, almeno, non è accaduto nulla di brutto. La sua vita si riduce a ben poca cosa, un amico d’infanzia che si sta rivelando pidocchioso e meschino, niente ragazze, giornate ripetitive… perfino nella vecchia casa davanti alla collina torna malvolentieri e soltanto per andare a far visita alla madre, perché anni prima suo padre vi è morto d’infarto. Fino a quando, nel vecchio pub che frequenta volentieri perché non vi ha mai avuto brutte visioni, conosce Tad, un barbone sbronzo e vilipeso da un paio di bastardelli. Harry si alza per aiutare il vecchio, ma scopre che… Tad non è né vecchio né indifeso. Tra i due nasce un’amicizia frutto di reciproca comprensione e riconoscimento e Tad diviene per il ragazzo quel punto di riferimento che aveva perso alla morte del padre. La vita, insomma, sembra cominciare a girare nel verso giusto, tanto che Harry ritrova Kayla, grande amica d’infanzia e ora scrupolosa poliziotta, e si innamora, ricambiato, di Talia la personificazione di desideri maschili: arrapante, disinvolta, bella, elegante. E ricca. Tanto ricca. Forse un po’ viziata. Da un paparino pieno di grana che… Già, come si sarà fatto tutti quei soldi, il paparino?
Proprio mentre le cose sembrano mettersi bene per Harry, cominciano a mettersi male per il lettore: la vicenda accelera, diventando sempre meno realistica (proprio ritmo ed esagerazione sono pregi, non difetti, di altri romanzi di Lansdale) e si complica inutilmente. Tad e Harry si confidano e non di rado si parlano addosso, e agiscono secondo meccanismi a sorpresa che però non rivelano niente non sia già stato detto. I personaggi di contorno si sfilacciano e il libro si conclude a fatica, con una catarsi poco verosimile e poco interessante.
Non sono un’esperta di Lansdale ma ho trovato il romanzo prolisso e deludente, soprattutto dopo centocinquanta pagine coinvolgenti che consentono a chi legge di conoscere e affezionarsi a Harry e ai suoi genitori. Tutto funziona, gli amichetti di Harry sono credibili, la predilezione tra il ragazzino e Kayla è dipinta con attenzione e delicatezza. Sul retro di copertina l’editore ha piazzato la solita frase promozionale, nel caso presa da « New York Times Book Review»: «Joe Lansdale ha un vero talento per una scrittura diretta, potente e di grande prolificità». Ho concordato su «diretta» e «potente» fino a pagina 146, senza riuscire a capire il significato di quel «prolificità», una caratteristica che attribuisco agli autori, non alla loro scrittura. Ho continuato a leggere mentre il romanzo perdeva grinta e senso, nella convinzione che se un buon autore divaga, non stia allungando il brodo, ma preparando uno altro scatto del suo meccanismo narrativo. Purtroppo Echi perduti continua imperterrito fino a pagina 379 con alcuni passaggi felici ma senza ritrovare la concentrazione, la potenza e ahimè anche la direzione della prima parte, convincendomi che «prolificità» non era un termine azzardato: qui la scrittura di Lansdale si autoalimenta, cresce su se stessa come una torta troppo lievitata, al di là di quanto l’autore e l’intreccio possano sostenere. Sinceramente, se ancora non avete niente di suo, non azzardatevi a fare la conoscenza di Lansdale proprio con Echi perduti, e se già lo conoscete… Beh, probabilmente di suo avrete letto ben di meglio.
[1] citato a memoria dal 3° film della trilogia de Il signore degli Anelli.
Georges Simenon
Il presidente, Adelphi, 2007
pp. 155, € 16,00
trad. Luciana Cisbani
Ronan Bennett
Zugzwang, Ponte alle Grazie, 2007
pp. 293, € 15,00
Trad. S. Piraccini
idem, TEA 2009, € 8,60
Joe Lansdale
Echi perduti, Fanucci, 2010
pp. 352, € 12,90
trad. Seba Pezzani
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