Steve Olson è un giornalista indipendente, specializzato in problematiche scientifiche, dotato di una non comune capacità di divulgare concetti non del tutto semplici, in grado di mettere in campo una messe veramente notevole di documenti desunti dai campi più diversi della ricerca, e sostenuto da una incrollabile convinzione antirazzista.
Con questo volume, di lettura sempre gradevole e accattivante, egli pone il lettore di fronte a una lunga serie di ragionamenti e motivazioni che mirano a condurlo in maniera inequivocabile a respingere l’idea dell’esistenza delle razze umane. Il discorso è strutturato in una serie di capitoli relativamente indipendenti tra di loro, che spaziano dall’epopea dell’origine africana dell’uomo alla storia genetica degli ebrei, da problemi di linguistica alla colonizzazione delle Americhe (quella compiuta dai primi immigrati, non dagli europei dopo il 1492). Tutti questi capitoli, tutti questi discorsi conducono, ognuno da sé e complessivamente, all’affermazione che siamo tutti relativamente imparentati, essendo le distanze genetiche e storiche tra tutti noi (proprio tutti) relativamente scarse e inessenziali. Quindi, al di là delle dissimiglianze superficiali (pelle un po’ più scura, naso un po’ più largo, capelli un po’ più ricci), tra i vari gruppi umani non ci sarebbe nessuna differenza significativa che giustifichi distinzioni (e, a fortiori, discriminazioni) di razza.
Ciò detto, vorrei a questo punto entrare maggiormente nel merito del libro provando a parlarne su due piani distinti, che peraltro credo che siano i due differenti ed effettivi piani di lettura che si presentano al fruitore di questo volume.
Il primo piano di lettura è eminentemente culturale ed è sicuramente di grande stimolo; le varie problematiche che l’autore affronta, in generale abbastanza a fondo, sono decisamente affascinanti. Sia per un eventuale cultore delle varie tematiche, sia per il semplice curioso, la lettura del libro fa nascere un sacco di voglie di saperne di più. Valga per tutti il caso della storia paleontologica dell’uomo, argomento che ripetutamente si incontra nel libro in relazione a più di un «episodio» della vicenda storica della nostra specie. Affrontati in modo competente e presentati con agilità divulgativa, questi scenari si disegnano nel tempo e nello spazio davanti al lettore il quale viene condotto a cimentarsi con il problema dei tempi e dei modi che caratterizzarono alcune delle tappe della nostra vicenda. Dal ripetuto esodo dei nostri antenati dal continente africano alla lotta per la supremazia tra i neandertaliani e l’Homo sapiens moderno si arriva a storie recenti, come quella dei Samaritani, o addirittura contemporanee, come quella che ha condotto al gran miscuglio di etnie delle isole Hawaii. E sempre il lettore si trova a incuriosirsi di un problema o dell’altro, si trova a essere spinto ad approfondire questa o quella questione. Ciò è naturalmente un bene e basterebbe da solo a fare di questo libro una lettura intelligente e consigliabile.
Ma non si deve dimenticare lo scopo con cui il testo è stato scritto, senza il quale esso rimarrebbe poco più che una mera collezione di articoli di divulgazione scientifica e tutto sommato forse non si giustificherebbe. E questo rappresenta, secondo me, il secondo piano di lettura.
Il disegno di fondo del libro, si è detto, è quello di tagliare le gambe a ogni pretesa scientifica che giustifichi il razzismo, attraverso la dimostrazione inequivocabile del fatto che la specie umana costituisce un’entità unitaria, non suddivisibile oggettivamente in razze, e all’interno della quale si possono tutt’al più riconoscere fluttuazioni di frequenza di alcuni, e marginali, caratteri somatici.
Premesso che la determinazione a lottare senza quartiere contro il razzismo mi sembra assolutamente condivisibile, credo che a proposito del libro di cui si parla sia bene tentare di proporre alcune considerazioni poste al di là della semplice petizione di principio.
La prima questione riguarda il concetto di razza. A quanto mi consta, non esiste affatto una definizione univoca di questo concetto nella scienza; anzi, per essere precisi, nella tassonomia, la disciplina biologica che si occupa tra l’altro delle categorie usate nella classificazione degli organismi viventi, la categoria razza non esiste da tempo. Si parla di specie e di sottospecie, si possono usare eventualmente alcuni altri termini con valore definito e molto più ristretto (forma, varietà, popolazione ecc.), ma la parola razza non si dovrebbe utilizzare. Se qualcuno lo fa è per pigrizia intellettuale o in modo assolutamente informale. Si parla notoriamente di razze canine o bovine, ma siamo nell’ambito, del tutto differente, della zootecnia, della manipolazione umana dei patrimoni genetici attraverso l’allevamento selettivo e finalizzato di forme viventi. Da ciò discende il fatto che, quando si discute di razze, fosse anche per dimostrare che non esistono, bisognerebbe chiarire preventivamente di che cosa si parla; nella fattispecie bisognerebbe esplicitare quali sarebbero le caratteristiche di un gruppo umano ipoteticamente separato dagli altri gruppi al punto da costituire una razza a sé, prima di mostrare che tale gruppo non esiste. Questa chiarezza preliminare nel libro non si percepisce e il danno emerge effettivamente sotto forma di alcune prese di posizione ben più ideologiche che scientifiche («le differenze culturali non possono avere origini biologiche») o decisamente vaghe («I gruppi umani sono troppo strettamente correlati per essere davvero diversi tra di loro»). Lo stesso autore peraltro, in un articolo uscito recentemente su «Scientific American» (e su «Le Scienze» di gennaio 2004 in Italia) riprende il problema, a proposito della reazione differenziale a determinati farmaci in gruppi umani differenti, assumendo una posizione in apparenza meno drasticamente «ugualitaristica», cioè, forse, meno ideologica.
La seconda considerazione riguarda invece il valore che una confutazione scientifica ha nei confronti dell’essenza del razzismo. Io non credo che le follie razzistiche, a qualsivoglia epoca o etnia appartengano, traggano origine da teorie scientifiche sbagliate. Le motivazioni che sottostanno allo sviluppo e alla diffusione delle idee razziste, le pulsioni che hanno spinto così spesso determinati gruppi umani a vessare membri di altri gruppi su basi razziali non si sono mai fondate strutturalmente su convinzioni scientifiche. La scientificità del razzismo, l’antropologia della razza per dirla in altri termini, recente rispetto alla storia del razzismo (XIX e XX secolo essenzialmente), si colloca, rispetto al nocciolo del problema, su un piano sovrastrutturale. Non voglio dire che la chiarezza scientifica, ottenuta con gli strumenti che oggi possediamo (genetica molecolare, paleontologia ecc.) non sia necessaria in assoluto e non aiuti nell’educazione contro il razzismo. Ma, per l’appunto, aiuta, non risolve. Il terreno fondamentale nella lotta contro il razzismo è di carattere etico e non scientifico. Il problema in fin dei conti non è convincere (è un esempio di comodo, s’intende…) il serbo che il suo vicino croato non va fatto a fette perché possiede il 99,99 per cento dei geni del serbo; il problema è convincere il serbo che il suo vicino croato non andrebbe fatto a fette in ogni caso, neanche se avesse la pelle blu, il naso a trombetta e parlasse piemontese.
Detto questo mi sia consentito tornare, per un attimo prima di chiudere, al libro in sé. Per raccomandarlo ancora una volta, perché è ,un libro intelligente, indipendentemente da questi miei dubbi un po’ «pignoli», perché fornisce buone ragioni per una battaglia giusta, è perché lo fa in modo gradevole e stimolante. Non è poco, mi pare.
Steve Olson, Mappe nella storia dell’uomo
Einaudi Saggi, 2003
pp. XVI – 292
€ 22,00
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