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    G. Barbujani – L’invenzione delle razze

    • di Enrico Barbero
    • Marzo 8, 2007 a 1:18 pm

    Guido Barbujani
    L’invenzione delle razze
    Bompiani
    € 7,80

    Che quello dell’esistenza delle razze umane sia un problema spinoso, non c’è dubbio. Ad essere logici fino in fondo si dovrebbe trattare di un argomento essenzialmente biologico, di competenza di zoologi e tassonomi. Invece, chiaramente, non è per nulla così. Un po’ perché l’uomo ha ovviamente un’attenzione privilegiata per le problematiche che lo riguardano, un po’, soprattutto, perché con la motivazione dell’esistenza delle razze umane si sono giustificate alcune tra le più infami nefandezze commesse dall’uomo contro l’uomo nel cordo della sua lunga storia.
    In termini strettamente logici sostenere l’esistenza delle razze umane non significa tout court essere razzisti, cioè sostenere contemporaneamente che vi siano razze migliori e peggiori e che queste ultime vadano in qualche modo discriminate. Tuttavia l’evidenza ci mostra che spesso chi argomenta positivamente sull’esistenza delle razze nella nostra specie finisce per sostenere una certa qual discriminazione (si può peraltro essere fortemente discriminatori senza avere alle spalle una teoria delle razze), mentre, generalmente, chi avversa l’ipotesi dell’esistenza delle razze umane mostra contemporaneamente una ferma avversione (anche se non sempre chi predica bene razzola altrettanto…) nei confronti delle discriminazioni razziali – e non solo di queste.
    Barbujani appartiene evidentemente a questo secondo gruppo ed essendo al tempo stesso un esperto, come genetista, degli aspetti scientifici del problema, sceglie di condurre la propria battaglia sul terreno, appunto, della plausibilità scientifica dell’ipotesi delle razze. E lo fa con un volumetto agile e di gradevole lettura, ben articolato, competente, che in tempi di confusione e pressapochismo, quali quelli che ci vedono testimoni, meriterebbe sicuramente una vasta diffusione, ad esempio – perché no? – nelle scuole superiori italiane.
    Proprio perché si tratta di un libro ampiamente positivo merita di essere analizzato con una certa attenzione. Il discorso di Barbujani si dipana attraverso, mi pare, quattro argomenti fondamentali, che non corrispondono necessariamente in modo ordinato alla struttura del volume, ma che emergono e ritornano almeno in parte in punti diversi e successivi del discorso.
    Il primo intento di Barbujani, questo effettivamente propedeutico al resto, è far piazza pulita dell’idea che vi siano oggi più specie umane. Su questo non ci devono essere dubbi di sorta: in termini scientifici le specie sono entità riproduttivamente isolate ma largamente interfeconde al loro interno. Che tra gli esseri umani vi sia la più ampia e totale interfecondità (tecnicamente una panmissia almeno potenziale) è cosa assodata e giustamente l’autore liquida il problema in poche pagine iniziali.
    Il secondo argomento concerne invece le posizioni di coloro i quali sostengono che le razze umane esistano veramente. La cosa che salta più all’attenzione, dalla disamina che l’autore ci propone, è la totale mancanza di accordo tra costoro sul numero e sui confini delle suddette razze. Questo non è un mero dato folkloristico: ciò significa invece che i criteri proposti dai vari autori a sostegno delle loro tesi, criteri per mezzo dei quali le razze andrebbero stabilite – e riconosciute –, sono così labili, aleatori, del tutto antiscientifici, da non permettere neppure un minimo di omogeneità nella determinazione di entità che si pretende essere gruppi biologici naturali (e quindi oggettivi). In altri termini appare evidente che la maggior parte di coloro che hanno sostenuto l’ipotesi razziale non avevano idea di cosa stessero parlando e di come parlarne!
    Da qui il terzo argomento del ragionare di Barbujani: qual è la definizione di razze in biologia e come possiamo applicare questa definizione al nostro caso. Qui lo sforzo di chiarezza e semplicità è encomiabile ed il risultato nettissimo. Le razze (che modernamente sarebbe preferibile chiamare sottospecie – in zoologia il termine razza non si usa quasi più) sono complessi di individui o di popolazioni geneticamente isolate dal resto della specie. Non basta avere il naso più lungo o la pelle più scura, bisogna avere una significativa frazione del pool genico riconoscibilmente isolata dal resto delle popolazioni della medesima specie. Vorrei porre l’attenzione sul fatto che questo presupposto metodologico è fondamentale, è scientifico e non ideologico, ed è proprio ciò che manca in genere ai fautori dell’esistenza delle razze umane.
    Arriviamo di conseguenza al quarto pilastro del discorso sviluppato nel libro: data la definizione non equivoca di sottospecie (cioè razza biologica) di cui sopra, sono rintracciabili chiaramente, nella specie umana complessi di popolazioni che presentino tali caratteristiche di isolamento genetico? Oggi le tecniche di indagine genetica, come l’autore ci mostra, sono sofisticate e diventano ogni giorno più efficaci. Ma non sono state finora in grado di mettere in luce l’esistenza di un tale fenomeno biologico nell’uomo. Ci sono differenze tra uomo e uomo, ci sono variazioni delle percentuali di presenza di forme diverse di numerosi geni in popolazioni distinte; non potrebbe essere altrimenti perché la panmissia nella specie umana non è certo mai stata assoluta (si avvicina ad esserlo in questi anni) e perché nella storia umana ci sono state popolazioni dotate di un’ampia mobilità ed altre che hanno vissuto a lungo in un relativo isolamento riproduttivo. Quello che non è possibile, alla luce delle ricerche moderne, è tracciare confini genetici netti, che permettano una riconoscibilità non ambigua delle razze umane.
    Si diceva all’inizio che il razzismo con questi discorsi scientifici si interseca solo in parte. Il razzismo e l’attitudine a discriminare i diversi sono scelte ideologiche, convincimenti politici o, nei casi più bassi, attitudini bestiali che nascono dalle viscere più che dal cervello. La lotta al razzismo è quindi una lotta ideale, politica e di educazione. La chiarezza scientifica sui metodi e sui dati di fatto è tuttavia ben lungi dall’essere secondaria. L’abitudine, laica e scientifica, di porsi le domande (e bisogna saperle formulare correttamente) e di cercare serenamente le risposte non è una mera conquista intellettuale ma uno stile di pensiero. Di cui come si evince dal libro di Barbujani, c’è molto bisogno nel nostro mondo.

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