Ho un debole per Ballard.
Non è certo una novità. Basta visitare questo sito per trovare un’ampia e (spero) interessante monografia dedicata al mitico Jim.
Ma Ballard è un autore indigesto.
Contorto, sardonico, perverso, cerebrale e sessualmente insano. Ricordo di avere prestato a un’amica Crash e ricordo anche meglio la sua espressione quando me lo restituì. Lo liquidò definendolo «molto sgradevole» e aggiungendo «non è il mio tipo di lettura». L’avrebbe anche bruciato, credo, non fosse che bruciare libri è un tipo di pratica che non appartiene al nostro comune universo etico.
Ma perché indigesto?
Ulteriore premessa. Ballard fa parte di un ristretto gruppo di autori «anfibi» – esattamente come il sottoscritto in qualità di recensore – che si sono sempre trovati «stretti» nelle gabbie del genere sf, anche se comunque più a proprio agio che nei recinti meno costrittivi ma terribilmente normalizzanti della narrativa maggiore o mainstream. Ballard ha avuto un rapporto del tutto peculiare con la sf, ne ha utilizzato spunti, temi, suggestioni per cartografare il proprio spazio interno – «inner space» dal quale riteneva si dovesse partire per scrivere una nuova fantascienza –, un lavoro cartografico che lo ha condotto più volte all’interno dei medesimi territori, lasciando ogni volta una traccia più profonda.
I suoi universi hanno caratteristiche riconoscibili e replicabili, anche se soltanto in forma di canone. Prova ne sia che l’apocrifo a suo tempo prodotto da Daniele Brolli e pubblicato su «il manifesto», è risultato un compitino discreto ma incolore, che poteva passare per l’originale unicamente in virtù dell’insaziabile appetito degli appassionati di J. G. B.
I racconti riuniti nella raccolta appena pubblicata da Fanucci (J. G. Ballard, Tutti i racconti 1956-1962), sono a suo tempo già passati per le mani dei lettori, pubblicati in alcune antologie di «Urania» o raccolti da Fanucci papà in un’antologia ormai fuori commercio: I segreti di Vermillion Sands. Ma, come capita a tutti, le antologie di «Urania» e i vecchi Fanucci con copertine sgargianti da menomati mentali sono scomparsi dalla mia vita nel corso di qualche remoto trasloco lasciando dietro di sé un indefinito e sottile rimpianto. Così l’uscita di quest’antologia rappresenta almeno per alcuni un ritorno a casa e alla gioventù.
Bene, adesso la smetto di fare il Carducci della situazione e passo direttamente al testo.
Parlavo prima di alcuni temi e alcune ambientazioni tipicamente ballardiane. Prendiamo un racconto, il quart’ultimo, intitolato Prigione di sabbia. Protagonisti due uomini e una donna rifugiatisi in uno spazio chiuso, una serie di hotel e residence abbandonati sulla costa della Florida, a pochi chilometri da Cape Canaveral. La sabbia che li circonda non è sabbia terrestre ma proviene da Marte, zavorra imbarcata sulle astronavi ritornate sulla Terra per il viaggio di ritorno dal pianeta rosso. Il guaio è che soltanto in ritardo qualcuno si era reso conto che la sabbia marziana non era affatto sterile. Ne era seguita un’epidemia ed era nata l’esigenza di isolare chi era risultato positivo al morbo marziano. I tre protagonisti sono gli ultimi sieropositivi (scusate l’indebito uso di un termine allora non ancora divenuto di uso comune) e sono, ciascuno a proprio modo, dei falliti, ossessionati da qualche fissazione che risulterebbe innocua all’interno di una situazione più normale. L’io narrante, per esempio, un architetto, ha progettato una città marziana mai realizzata e vive tra i disegni e gli schizzi della metropoli mai nata, la sua metropoli. In compagnia delle proprie fissazioni i tre sopravvivono, adattandosi a una vita fatta di visioni, malinconie e scatolette di cibo recuperate nelle viscere degli antichi luoghi di villeggiatura. Qualcuno li cerca, qualcuno vuole stanarli e reinserirli a forza nella società civile ma i tre preferiscono la propria vita rarefatta, scandita dai sogni, dal vento carico di sabbia e dalle stanze vuote e uguali dei residence.
Un racconto davvero notevole, non soltanto per la sua riuscita estetica ma perché costituisce da solo un piccolo compendio dei temi preferiti da Ballard. La solitudine e la conseguente deriva mentale e percettiva che ritroveremo nel Il mondo sommerso, il rapporto obliquo e ossessivo con gli oggetti, il senso di smarrimento nato dal contatto estemporaneo con luoghi nati per ospitare e ora divenuti semplici e inquietanti strutture di metallo, cemento e cristallo, l’artificialità assoluta e minacciosa di luoghi nati come enclave separate consacrate al divertimento (Cocaine Nights, Un gioco per bambini e Super-Cannes) e la sottile onnipresente nostalgia per il futuro che avrebbe potuto essere e che non è stato. Tutti elementi combinabili e replicabili, certo, ma che soltanto Ballard è in grado di guidare fino a creare risonanza.
Risonanza
Uno dei racconti, targato 1962, è intitolato Le statue canore. Ambientato a Vermillion Sands racconta di un artista non particolarmente geniale e di un’appassionata, ossessiva amante di un genere di sculture alle quali la più sottile brezza può fornire una voce.
Un racconto carico di una sottile perfidia, dominato dal conflitto tra una passione esasperata e un talento non del tutto genuino. Una situazione senza uscita, di quelle che Ballard ama esplorare, dominata da un equivoco che, come un incantesimo, nessuno vuole spezzare.
Spezzare l’incantesimo
Almeno quattro racconti: L’ultimo mondo del Signor Goddard, Tredici verso Centauro, L’ultima pozzanghera e Le torri d’osservazione vivono del contrasto tra illusione e necessità. Un contrasto senza possibilità d’uscita che gli eventi narrati non riescono in alcun modo a superare. Nel primo dei racconti citati è un’eccellente invenzione narrativa a sancire una rottura imprevista e imprevedibile. Nel secondo l’ambiguità dell’illusione finisce per rendere la percezione un atto arbitrario. Nel terzo sarà un gesto stupidamente infantile a sancire il fallimento di ogni ulteriore illusione, mentre nell’ultimo non è dato alcun genere di scioglimento. Le torri d’osservazione sospese nel cielo possono dare qualche segno ma rimangono essenzialmente incomprensibili ed enigmatiche.
Enigmatiche
Ballard è un appassionato di pittura surrealista. In particolare un amante di Magritte. Difficile non attribuire agli abitanti della città che vivono sotto l’occhio delle torri d’osservazione la stolida compostezza degli uomini in bombetta del pittore belga. Qualcuno si chiede il significato dei quadri di Magritte? Personalmente, come per Ballard, mi accontento della sua enigmaticità allusiva e del suo sottile humour.
Humour
Può sembrare strano ma J, G. Ballard è un autore che in buona parte della sua produzione ama inserire una sfumata coloritura di humour nero. Autore di confine, si diverte a costruire vicende allucinate e crepuscolari che, mutando appena il punto di vista, possono risultare tragicomiche. In questa antologia I mille sogni di Stellavista, Il signor F. è il signor F. e Billennio risultano, con differenti sfumature, testi molto ben alloggiati sul limite tra l’assurdo e il grottesco. Nel primo le case psicotropiche risultano eccellenti repliche moderne delle stanze infestate tipiche del gotico sette- e ottocentesco. Il risultato dell’innesto è tanto efficace quanto comicamente perverso. Nel secondo è il rapporto con l’altro sesso a innescare una spirale tanto agghiacciante quando volutamente grottesca. Impossibile non rievocare, leggendolo, un luogo comune di certe complici e feroci conversazioni femminili: «Mio marito è un bambino, nonostante tutto un bambino…» Il terzo, infine, Billennio, è un racconto serenamente disperato, germogliato – verrebbe da pensare – dall’osservazione dell’inesauribile capacità delle gente comune di adattarsi e accontentarsi anche quando ogni limite è stato raggiunto e superato. L’idea della Terra iperabitata di Billennio richiama irresistibilmente alla mente il desiderio di solitudine.
Solitudine
Una pre-condizione di gran parte dei testi ballardiani.
In Città di concentramento, vero incubo escheriano in forma letteraria, il protagonista, Franz M. (se avvertite qualche assonanza con Kafka non posso darvi torto) si sforza di mettere in pratica il sogno di volare in uno spazio aperto, vivendo all’interno di un universo urbano che si estende uniformamente e indefinitamente nello spazio. Ne L’assassino gentile il protagonista compie un’incursione nel tempo per salvare il se stesso di molti anni prima da una dolorosa separazione, infine ne L’uomo sovraccarico il protagonista riesce lentamente a rimuovere la realtà dal suo universo percettivo, consegnandosi definitivamente a una forma estrema di libertà.
Chi conosce la produzione successiva di Ballard sa che la solitudine dei suoi personaggi non è soltanto transitoria o episodica, ma costituisce il perno delle sue storie. Una solitudine amplificata da un rapporto con il reale ritornato a un’apparente condizione naturale. Condizione illusoria, all’interno di un universo definitivamente divenuto artificiale.
Artificiale
Ballard racconta di ambienti sfigurati dall’antropizzazione, di luoghi artificiali o di una natura chimerica che, definitivamente modificata dall’umanità, diviene ancor enigmaticamente minacciosa. I suoi personaggi vivono nei santuari di una posterità tronfia e fallita, tra le rovine divenute sinistramente patetiche di un futuro da American way of life moltiplicato a dismisura. I romanzi Vento dal nulla, Il mondo di cristallo e Condominio ne sono eccellenti esempi. In questa raccolta Cronopoli, il luogo dove il tempo artificialmente scandito scivola lentamente in polvere ne è senz’altro una buona rappresentazione. Come lo sono, anche se in forma sorniona e apparentemente frivola, i racconti ambientati a Vermillion Sands, non-luogo per eccellenza come tutte le cittadine di villeggiatura.
E il tempo dilatato e inutile di Vermillion Sands richiama un altro tema: la percezione del tempo.
La percezione del tempo
Viviamo all’interno dei nostri ritmi fatti di sonno e di veglia, di attenzione e di sogno. Il tempo artificiale del lavoro vi si sovrappone imponendo un’uniformità del tutto innaturale. Due racconti in particolare, curiosamente speculari, vertono sul tema della veglia e del sonno e sui ritmi umani. In Cubicolo 69 un esperimento che nasce dall’ipotesi che sia possibile giungere ad abolire completamente il sonno negli umani si risolve in un fallimento dai contorni allucinanti. In Le voci del tempo è viceversa un sonno incontrollabile a indicare il percorso di una nuova possibile e grottesca apocalisse.
Girotondo, infine, è un bizzarro e atroce divertissement interamente giocato su una delle più enigmatiche doti del nostro cervello: il déjà-vu, qui divenuto incantesimo senza uscita.
Senza uscita
Ballard non concede vie d’uscita ai suoi personaggi come non ne concede ai lettori. I suoi racconti sono nella maggior parte dei casi incubi premeditati che non ammettono soluzioni. Il racconto è funzionale esclusivamente all’esplorazione dell’incubo e obbliga il protagonista a esplorarlo a fondo. Esito dell’esplorazione è il naufragio definitivo della coscienza, la frattura percettiva, l’isolamento e una particolare qualità di lucida follia: quella che appartiene ai profeti, agli asceti e ai visionari.
Si potrebbero citare un paio di racconti dell’antologia che meglio di altri illustrano questo aspetto della narrazione ballardiana, Aberrazione o Amplificazione, testi che esplorano più da vicino il tema della malattia mentale e della sua gelida e allucinata coerenza, anche se si tratta di un elemento che attraversa l’intera raccolta, insieme a una sottile e persistente misoginia.
Misoginia
La misoginia non è una sottocategoria del maschilismo patriarcale. Identifica il terrore per la diversità del corpo e della mente femminile. La misognia è onirica e irrequieta tanto quanto il maschilismo patriarcale è rozzo e ovvio.
La misoginia emerge in molti dei racconti di questa raccolta, inutile attardarsi a enumarli. Le donne di queste storie sono per la maggior parte creature altre, gelide e appassionate, enigmatiche e sensuali. Si direbbero altrettante incarnazioni della Madre – invincibile, onnipotente, inafferrabile – il cui corpo è impensabile per il figlio. Ma l’effetto di sacrilegio, il sentimento di intollerabile imbarazzo alla vista del peccato materno è mitigato e rovesciato dall’iperrealismo di certe descrizioni e dal sense of humour. Unica eccezione Lo Spazzasuoni, un racconto lungo ricco di felicissime invenzioni – lo spazzasuoni, le discariche sonore – ma che si legge con disagio e una certa fatica, quasi si trattasse di un abbozzo ancora non del tutto elaborato e maturo.
Maturità
È forse una delle caratteristiche più sorprendenti dell’antologia. Si tratta di racconti scritti quasi cinquant’anni fa ma che appaiono paradossalmente più attuali e urgenti letti adesso, nel nuovo millennio.
L’organizzazione della recensione per voci, come piccola enciclopedia o minidizionario non è il frutto di un’accorta pianificazione o il risultato di un progetto, ma è semplicemente il risultato del mio tentativo di introdurre i lettori alla ricchezza e alla complessità dei temi e delle suggestioni della narrativa ballardiana.
Personalmente sono convinto che il talento di alcuni scrittori sia quello di definire un nuovo e coerente approccio al mondo, elaborare un sentimento di realtà che non era mai apparso prima in modo altrettanto nitido.
Sono personalmente convinto che James Graham Ballard sia uno scrittore di questo genere.
J. G. Ballard, Tutti i racconti 1956 – 1962, (Fanucci 2003, ed. or. 2001, pp. 628, € 18,50 trad. Roldano Romanelli)
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