Il grande gioco. I servizi segreti in Asia Centrale, di Peter Hopkirk (Adelphi, ed. or. 1990, trad. Giorgio Petrini), è un grande saggio dedicato al minuzioso, rischioso e segreto lavoro di esplorazione, spionaggio e diplomazia compiuto dai funzionari della Compagnia delle Indie da una parte e da agenti dello Zar dall’altra. Il saggio copre un arco di tempo di circa cento anni, dall’inizio del XIX secolo, quando la Russia cominciò ad avanzare verso sud in direzione della Persia, allarmando il governo britannico e i dirigenti della Compagnia, fino al 1907, con la firma della convenzione anglo-russa. Il «grande gioco», così chiamato da uno dei giocatori, Connolly, e immortalato da R. Kipling in Kim, fu ricchissimo di episodi e venne giocato in un’area vastissima delimitata a nord dalle steppe dell’Asia centrale, e dagli Altai, a est dalla Cina, a sud dall’Oceano Indiano, a ovest dalla Turchia e dal Mar Nero e comprendente Paesi di importanza cruciale come la Persia, l’Afghanistan, l’attuale Iraq, il Pakistan, le attuali repubbliche asiatiche ex sovietiche, il Tibet. Avvincente come un romanzo ma lucido e rigoroso come uno studio storico, Il grande gioco si legge tutto di un fiato e dà ai lettori il piacere di una lettura in progress, a cui tornare sera dopo sera, cartine alla mano, immaginando altissimi valichi nevosi e deserti inesorabili, alla ricerca di spiegazioni per comprendere gli avvenimenti attuali.
Impossibile da riassumere, il saggio di Hopkirk colloca le vicende personali e le peculiarità dei vari giocatori sullo sfondo della politica imperiale ottocentesca di Gran Bretagna e Russia. Espandendo i propri territori e le rispettive sfere d’influenza politica e commerciale in Asia, le due potenze europee erano destinate a scontrarsi. A nord gli zar tentavano da tempo di allargare il dominio e il monopolio commerciale sui khanati vicini e sulla Persia per acquisire nuovi mercati e per avvicinarsi ai confini della ricca penisola indiana; il clima, i deserti senza fine e la continua guerriglia dei turkmeni logoravano i loro eserciti. La lenta avanzata dei russi verso l’India attraverso paesi immensi ma privi di governi stabili, come la Persia e l’Afghanistan, era diventata l’incubo dei viceré inglesi in India e degli alti grandi della Compagnia delle Indie. Dei territori che le separavano, entrambe le potenze sapevano poco – spesso non disponevano nemmeno di carte attendibili – e i vari khan, re e capi tribù di quei paesi nulla sapevano della lontana Inghilterra e della Madre Russia, tanto da chiedere ingenuamente agli «agenti» in visita quanti cannoni avessero i loro sovrani.
Sotto il lungo regno di Vittoria i governi whig e tory si susseguivano e l’opinione pubblica oscillava, infiammata contro la Russia dai falchi o rabbonita dalle colombe di turno; ma la Compagnia delle Indie, pur fra mille cambiamenti di tattica, restava fedele alla strategia di creare tra l’India e la frontiera russa in espansione stati cuscinetto con governi forti; sbandierando la propria missione civilizzatrice ma pronta a qualunque compromesso, aveva vitale necessità di informazioni per decidere quali alleanze stringere, quali pretendenti al trono appoggiare, a quali monarchi inviare truppe e ufficiali per addestrare le loro. Le osservazioni sul campo venivano effettuate dai giocatori, spesso più avventurieri ed esploratori che soldati, che – tutti giovani, tutti ambiziosi, tutti forniti di grande talento per le lingue e per il travestimento e quasi tutti «falchi» – viaggiavano soli o con piccole scorte, unendosi a carovane di mercanti nei panni di pellegrini, mercanti, sant’uomini, con il compito di cartografare terre all’epoca completamente sconosciute agli europei, di valutare la forza militare e il potenziale commerciale dei numerosi regni e khanati, il valore in termini di alleanze e dei vari re, emiri, shah e aspiranti tali. Gli agenti erano rampolli di nobile famiglia in cerca di gloria, giovani funzionari in carriera, idealisti convinti di portare la civiltà ai selvaggi, pazzi assetati di avventure o esploratori animati da sacro fuoco, e non di rado erano un mix di tutte queste categorie. Abili, pieni di inventiva e di improntitudine, curiosi e capaci di entrare in sintonia con regnanti austeri o con pendagli da forca, i giocatori del Grande Gioco ottennero successi insperati, ma altrettanto spesso andarono incontro a gran brutte morti: «Per Connolly e Stoddart, come per Burnes e Macnaghten, il Grande Gioco era terminato. Tutti avevano pagato con la vita le conseguenze di quella politica aggressiva che loro stessi avevano con tanto ardore caldeggiato e contribuito a creare». L’autore li descrive senza retorica e spesso con ironia, divertendo il lettore con le loro trovate fantasiose per trarsi d’impaccio.
Rigoroso e documentato, Hopkirk, se raramente scivola in affermazioni razziste descrivendo efferatezze belliche degli asiatici, molto più spesso ci mette in guardia contro le dichiarazioni di principio dei politici e dei funzionari della Compagnia, dimostrandone l’arroganza e la mancanza di scrupoli: «Si stabilì che questi [Dost Mohammed, Signore di Kabul e pretendente al titolo di shah, N.d.R.] doveva essere spodestato con la forza e sostituito con una persona più docile. Ma quale?» Talvolta nemmeno la doppiezza, i mezzi economici ingenti e la Realpolitik bastarono a salvare la Gran Bretagna da terribili disastri, come la spedizione in Afghanistan per insediare il sostituto di Dost Mohammed, iniziata sotto i migliori auspici perché «sostituire un sovrano a un altro non sembrava un’impresa troppo problematica o pericolosa, tanto più presso un popolo che in meno di mezzo secolo aveva trasferito la sua fedeltà da questo a quel principe ben otto volte», continuata con battaglie cruente e intermezzi farseschi come l’insediamento del sostituto, celebrato con imponenti sfilate di truppe in divisa sfarzosa, distribuzione di denaro e una coreografia da mondovisione, davanti a… un centinaio di sfaccendati e indifferenti abitanti di Kabul che quella mattina, evidentemente, non avevano altro da fare. Ma, come predisse il duca di Wellington, «al termine dei successi militari sarebbero cominciate le difficoltà politiche». E cominciarono molto presto, mentre gli inglesi ancora si godevano gli ozi dorati di Kabul, raggiunti dalle famiglie degli ufficiali con al seguito servitù, cibi ricercati, mobili e lampadari di cristallo. Tra l’ostinata incredulità degli inglesi, i capi afghani, forse per avidità o forse per insofferenza verso gli invasori, riuscirono a mettere da parte le antichissime ruggini per il tempo necessario a cacciare e sterminare – con la forza, l’inganno, la guerriglia – la guarnigione e i civili inglesi di Kabul, in tutto sedicimila persone; al termine dell’esodo soltanto poche decine di sopravvissuti riuscirono a rientrare in India.
Leggendo Il grande gioco, il lettore è doppiamente spaesato: a causa dell’estraneità fascinosa del mondo lontano raccontato da Hopkirk dagli stereotipi che noi occidentali associamo alla società ottocentesca; a causa di un’inquietante sensazione di familiarità: civiltà occidentale contro il paganesimo violento dell’Islam, guerre facili da vincere contro tribù di selvaggi, sostegno dato ad accomodanti governi fantoccio… «Io queste storie le ho già sentite», si pensa… poi, con un brivido, ci si corregge: «queste storie le ho sentite di nuovo, a un secolo e mezzo di distanza, qui e adesso».
Quello del Grande Gioco, conclude l’autore nel 1990, «era il tempo dell’arroganza imperialista, dell’orgoglio patriottico, della fede incrollabile nella supremazia della civiltà cristiana». Ma in sette anni le cose sono molto cambiate, annota in una nuova prefazione del 1997, e «Il Grande gioco è ancora di sinistra attualità».
Ne sono trascorsi quasi venti, e noi non possiamo più tranquillizzarci coniugando il Grande gioco al passato.
Peter Hopkirk, Il Grande Gioco. I servizi segreti in Asia Centrale
Adelphi 20104, pp. 624, € 18,00, trad. Giorgio Petrini
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