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    Magazzino

    La malinconia dell’uccidere

    • di Massimo Citi
    • Dicembre 24, 2011 a 9:05 pm

    di  Luca Battisti

    Siamo a Roma in pieni anni ’70. Per l’esattezza siamo nel 1974 perché il giallo ha limiti temporali ben delineati e dettati dalla cronaca del periodo. Diciamo che si apre con gli scompigli legati al rapimento Sossi e si conclude in coincidenza alla strage dell’Italicus.

    Dicevo che siamo a Roma e più precisamente negli ambienti universitari di medicina, una zona fisica ed intellettuale dove la politica attiva (di per sé molto vitale in quegli anni) entra in modo prepotente. E caratterizza anche la vita del nostro protagonista, il giovane Lorenzo, (futuro medico e studente molto dotato ma con la testa ormai fuori dal mondo universitario e dal movimento del medesimo) che si trova a scoprire con un suo amico all’interno della Facoltà il cadavere del professor Mori – uno dei baroni del corpus universitario – completamente dissanguato. Il fatto di per sé già raccapricciante è reso ancora più inquietante dal particolare che il cadavere è accompagnato da un messaggio truce e sibillino. Siamo di fronte al tipico serial killer.

    Non c’è tempo per metabolizzare il trauma perché per Lorenzo si apre una serie di mesi di fuoco in cui sarà sottoposto a prove di ogni genere, mesi nei quali si troverà ad indagare suo malgrado sul caso Mori visto il ricatto politico e professionale con cui lo obbliga e lo tiene inchiodato il commissario Diotallevi, detentore ufficiale dell’inchiesta. Saranno mesi cruciali per la sua formazione politica e sentimentale che incrineranno le sue amicizie, cambieranno l’inclinazione del suo sguardo sul mondo, il suo rapporto d’amore con la storica fidanzata Carla messo dapprima a dura prova e poi recuperato. Mesi che cambieranno il suo rapporto con i celerini ed i compagni del movimento…. Ci saranno molte morti accanto a lui. Troppe. Malattie ingiuste, cariche delle forze dell’ordine e soprattutto quell’assassino imprendibile che continuerà a mietere vittime all’interno di medicina. Solo alla fine si arriverà a tirare le fila di tutto il discorso e ci arriveremo in modo definitivo grazie ad un capitolo ambientato ai giorni nostri, scaturito da un incontro casuale che farà fare al nostro protagonista un tuffo indietro nel passato che lo obbligherà a tirar fuori dai cassetti della memoria tutti i personaggi legati a quella triste vicenda ormai vecchia di trenta anni.
    E spalmerà l’ennesimo strato di malinconia su tutta questa lettura. Perché al di là delle trame dell’indagine è proprio la malinconia ad essere la cifra ed il tratto che dà linfa al romanzo che, col pretesto del giallo, vuol forse più essere un omaggio alla giovinezza ed alle aspettative legate a quella e con quella destinate a perdersi o nello smarrimento o nella realizzazione delle medesime. Perché quando la tensione verso qualcosa termina, sia pure con il coronamento del risultato più ampio, termina sempre qualcosa di bello. E allora ripensare al percorso diventa essenziale e struggente, ancora più coinvolgente che assaporare la meta del viaggio.

    Il romanzo di per sé è godibile, tutto ammantato di questa tenue coltre malinconica e di questa avvolgente ambientazione che ci cala negli anni di piombo facendoci scoprire il fascino e tutto il fermento che c’era dentro i ragazzi di allora. I ragazzi di Pazienza, i ragazzi ripresi, incitati e ancora ripresi da Pasolini. Quella generazione che insomma sta tornando di moda, forse per contrapporla a quella d’impatto più vacua di oggi, come dimostra anche il successo legato al Fasciocomunista di Pennacchi.
    Per quello che riguarda invece i meccanismi del giallo tout court diciamo in modo schietto che molte ingenuità potevano essere evitate. Va segnalato intanto che al lettore molti elementi vengono rivelati in corso d’opera e dunque può essere normale non capire da subito chi può essere l’assassino. Ma per i personaggi del romanzo la cosa è diversa: sulla carta sono ben informati degli sgarbi e dei conseguenti malesseri serpeggianti in Facoltà e tutto (o quasi) doveva esser loro chiaro fin dall’inizio. O almeno qualche dubbio ben fondato poteva venirgli in testa. Dico in particolare a quelli destinati a morire. Diamine, saranno anche stati dottori affermati e gente di scienza ma a conti fatti, nel romanzo, sono rimasti sempre tranquilli al loro posto come dei citrulli belli e buoni senza neanche azzardare una denuncia alla polizia in barba alla loro sorte di bestiame prossimo al macello. Dico: passi il primo omicidio che è sempre una sorpresa. Passi il secondo ad esser larghi di vedute…. ma gli altri due malcapitati… Oh, io lo dico per loro… insomma in qualche modo potevano evitare di farsi trucidare in maniera così solenne e complicata. Ma poi la vita era la loro, se han deciso di immolarla così nulla da obiettare. D’altronde la saggezza popolare ci ricorda che c’è chi ama mettere le palle sotto il treno per sentir gli scoppi…

    Diciamo soltanto per dare un punto a questa recensione che il finale intessuto in una malinconia leggera ma fitta (ad esser cattivi molto in stile al vanziniano Sapore di mare) fa di questo giallo un unicum. O almeno parrebbe questa la promessa di Coletta al suo ormai medico Lorenzo. Non inizieranno indagini seriali. Ma poi chissà: Beautifulci ha insegnato che alla decenza intellettuale non c’è mai limite…



    Claudio Coletta,
    Viale del Policlinico.
    Ed. Sellerio,
    € 14,00, pp.330

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