di Mario Prisco
Il nuovo millennio ha visto progressivamente crescere le difficoltà dell’Occidente a mantenere il ruolo trainante per lo sviluppo umano, occupato per secoli. Un modello messo in crisi dal crollo delle Twin Towers– che ha emblematicamente rappresentato la fine del sogno occidentale, per dirla con Serge Latouche (1) – e dalla crisi finanziaria e culturale che ha investito l’America e l’Europa.
Nonostante la cultura giudaico-cristiana – sulla quale si è costruito il vecchio continente – si poggi sull’aspirazione a raggiungere una fratellanza universale, nella lunga storia della civiltà occidentale costantemente si è ricaduti in quello che viene definito «solipsismo culturale», cioè in quella tendenza, come sappiamo, a imporre la propria cultura su quella altrui. Fin dai tempi dei Romani questo esercizio è stato ampiamente portato avanti, convalidato anche agli albori del secondo millennio, dalle Crociate e, con la scoperta dell’America, dai conquistadoresche selvaggiamente – come si ritrova nei libri di Bartolomeo de Las Casas (2), di Cortés (3) e in epoca attuale di Todorov (4) – con violenza spesso inaudita trucidarono oltre 70 milioni di persone, distruggendo o infliggendo danni irreversibili a culture millenarie.
Tuttavia, nelle epoche più vicine a noi l’Occidente ha via via abbandonato questo solipsismo cercando di entrare in contatto con le culture altre. Lo stesso mea-culpadi Giovanni Paolo II sull’atteggiamento cruento dei crociati, e il costante tentativo di dialogo con le altre religioni, sono andati in questa direzione.
Ma il crollo delle Twin Towerse la crisi finanziaria che negli anni successivi ha trafitto con estrema insistenza il mondo occidentale, ha mutato questo atteggiamento propositivo, lasciando libero spazio a un’accentuazione del modello occidentalicentrico – La paura dei barbari, per riprendere il titolo di un recente e importante lavoro di Todorov (5) –, ha aperto scenari nuovi sia nella politica internazionale sia in quelle nazionali. Gli interventi militari in Iraq, Afganistan etc., l’avversione di una parte dell’opinione pubblica nei confronti dei popoli musulmani, accomunati e accusati di essere portatori di odio e animati da un desiderio di distruzione nei confronti dell’Occidente, secondo un’idea sostenuta anche negli ultimi libri di Oriana Fallaci – senza tra l’altro distinguere tra le tante correnti presenti in una religione che conta nel mondo il più alto numero di seguaci –, dimostrano quanto la cultura occidentale sia andata verso la radicalizzazione di un pensiero unico, accentuato tra l’altro sul piano politico dalla precedente fine del comunismo e dall’affermazione incontrastata del modello di sviluppo americano.
A questo punto, quella tendenza a lungo inseguita dall’Occidente di uniformare l’economia sulla base dei propri princìpi è diventata quasi una forma impositiva.
Integrando le varie parti del mondo nel mercato mondiale, l’Occidente ha fatto qualcosa di più che modificarne i modi di produzione: ha distrutto il senso del sistema sociale, cui tali modi erano strettamente connessi. […] Il benessere canalizza tutti i desideri (la felicità, la gioia di vivere, il superamento di sé…) e si riassume in qualche dollaro in più. Così si universalizza l’ambizione allo sviluppo. Lo sviluppo è l’aspirazione al modello di consumo occidentale,al potere magico dei bianchi, alla considerazione legata a questo modo di vivere. (6)
Tutto questo ha significato, sul piano delle politiche economiche dei singoli paesi occidentali, una tendenza sempre più marcata verso una forma di sviluppo altrettanto radicale rispondente a un’accentuazione della funzione demiurgica del mercato capace di risolvere qualsiasi problema. In verità, la crisi e la volontà di affermazione del modello occidentale hanno solo dilatato quanto era, come ormai appare chiaro, cominciato negli anni Ottanta nel periodo dominato dalla Thatcher e da Reagan che, nella furia del loro neo-liberismo oltranzista, sollecitarono la fine del concetto di società – considerato come insieme organico di individui appartenenti ad una stessa comunità, oltre che ad una stessa sorte umana – e la contestuale affermazione del singolo. Il premier inglese non a caso con delirante disinvoltura aveva detto: “non esiste una cosa chiamata società, esistono solo gli individui e le famiglie”, mentre Reagan contemporaneamente aggiungeva che il problema era l’eccesso di stato, così come frotte di economisti, ignorando le precedenti lezioni, proponevano la centralità del mercato coniando lo slogan meno stato, più mercato.
Per tre decenni – dagli anni Ottanta ad oggi – abbiamo assistito a un’abbuffata liberista con la quale la Gran Bretagna e gli Usa hanno pensato di risolvere i problemi, seguiti in questo dall’Irlanda, la Grecia, la Spagna fino a lambire tutti gli altri paesi mediterranei come il Portogallo e l’Italia.
L’immensa sbornia è ora finita e si stanno raccogliendo i cocci del disatteso miracolo. Senza scendere in dettagli tecnicistici, diciamo che, mentre l’Irlanda ha cercato di attrarre i capitali stranieri riducendo oltre ogni limite di tollerabilità la pressione fiscale, la Spagna – come ha rivelato con estrema chiarezza, il compianto Edmondo Berselli (7) –, utilizzando la manodopera proveniente dalla forte immigrazione e approfittando dei fondi dell’Unione Europea ha dato vita alla prima grande speculazione edilizia delle famose new townsperiferiche, consentendo mutui subprimefino al 120% del prezzo d’acquisto. Le conseguenze sono state il crollo dei prezzi delle case e un surplusdi offerte di abitazioni pari al doppio della richiesta.
Il vasto movimento, teso ad accentuare l’importanza dell’accumulazione capitalistica individuale, ha prodotto non solo catastrofiche conseguenze economiche, ma è andato a ledere profondamente i rapporti lavorativi e umani che regolavano i precedenti decenni che pur erano stati all’insegna della crescita e della mobilità sociale. Il capitalismo ha disintegrato ogni vincolo morale, fondamentale in ogni tipo di organizzazione socio-economica. Il grande aforisma kantiano: “il cielo stellato sopra di me, la morale dentro di me”si è improvvisamente dissolto, lasciando i morti sul terreno. Ha scritto Tony Judt, in un altro libro fondamentale pubblicato quest’anno in Italia,
ancora negli anni Settanta, l’idea che lo scopo della vita fosse arricchirsi e che i governi esistessero per agevolare tale obiettivo sarebbe stata dileggiata non solo dai tradizionali detrattori del capitalismo, ma anche da molti dei suoi più accaniti sostenitori. Nei decenni del dopoguerra, la ricchezza in sé e per sé era giudicata da moltissime persone con relativa indifferenza. (8)
Inoltre, la riduzione della mobilità, unitamente al tracollo dell’etica sociale stanno creando forti apprensioni sulla reale persistenza democratica in buona parte dei paesi occidentali, anche in quelli tradizionalmente sensibili alle sue sorti. È questo il leit-motivdi un altro libro uscito nel maggio di quest’anno, La felicità della democraziadi Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky. C’è in effetti nel lungo dialogo tra i due raffinati intellettuali, la preoccupazione che la politica non riesca più a farsi garante né dei più deboli, né dello stesso futuro della democrazia. L’esperienza moderna, afferma Zagrebelsky, mostra il rovesciamento dei vecchi parametri secondo i quali governano i migliori. Infatti,
i peggiori non sono più i poveri, i poco istruiti. Non sono populace, lumpenproletarieat. Sono i Prominenten, quelli che dalla società hanno avuto tanto: ricchezza, benessere, potere e tutto questo usano nella dimensione politica estraendo da se stessi il peggio che rispecchia il peggio che c’è nella società: volgarità, incultura, irresponsabilità, rapacità, ecc., e, cosa sorprendente, trovando larghi consensi.(9)
Questa enorme trasformazione dei presupposti valoriali è stata accompagnata anche dall’incapacità delle forze di sinistra europee di comprendere e contestare questa delirante tendenza che, nel giro di qualche decennio, ha annullato i progressi sociali e culturali precedenti. Per cui da una società finalizzata alla riduzione delle disuguaglianze, siamo passati a una poggiata sulle grandi differenze economiche. Ha scritto a questo proposito Edmondo Berselli,
nella società fordista veniva considerato equo che il presidente o l’amministratore delegato di una grande impresa guadagnasse trenta volte lo stipendio di un usciere. Oggi, o soltanto fino a ieri, si considerava normale che il reddito del grande manager ammontasse da tre a quattrocento volte la retribuzione di un impiegato di basso livello. In Italia il 10% delle famiglie più ricche possiede il 44% dell’intero ammontare di ricchezza netta.(10)
Eppure, anche per i seguaci più fedeli dell’economia di mercato, a lungo la lotta alla riduzione delle disuguaglianze è stata uno dei propositi prioritari. Non a caso, uno dei primi teorici dell’economia Adam Smith scrisse che “nessuna società può essere florida e felice se la grande maggioranza dei suoi membri è povera e miserabile”.E, anche nel corso del Novecento, il grande economista inglese conservatore J. Maynard Keynes riteneva che il capitalismo non sarebbe sopravvissuto se si fosse limitato a consentire ai ricchi di arricchirsi ancora di più e ai danni dei più poveri. Pertanto, ricorda Berselli, “non dovrebbe essere un segreto che le società bene ordinate hanno prosperato quando sono riuscite a distribuire con sufficiente equità il benessere generato dall’attività economica”.(11)
Inoltre, un’altra questione scatenata dall’affermazione della new economyè che la ricchezza, almeno fino alla crisi attuale che ha sconvolto l’intero mondo occidentale, non è stata generata dalla produzione di beni o servizi, ma prevalentemente dalle transazioni finanziarie. Ora, se è vero che, come ha scritto Federico Rampini (12) poco più di un decennio orsono, la new economynon è solo speculazione finanziaria, ma è anche un nuovo corso economico, che mette a disposizione dell’economia le ultime frontiere tecnologiche, è altrettanto vero che essa non può essere lasciata, nel bene e nel male, alle forze dissennate del mercato. Occorre, quindi per evitare che qualcosa si rompa nei meccanismi sofisticati delle società occidentali, sempre più vincolate l’una all’altra, al di là delle singole sovranità nazionali, che gli stati rispondano con l’opportuna attenzione evitando accumuli di ricchezza capaci poi di tramutarsi in un impoverimento dei più.
Come ha indicato Judt con estrema lucidità – basandosi su dati concreti, piuttosto che su ipotesi teoriche – nelle società occidentali si sono interrotti i meccanismi virtuosi attivati nel dopoguerra grazie ai quali, provvedendo con manovre aggiustative, non solo si erano ridotte le disuguaglianze ma era cresciuta fortemente la mobilità sociale vero e proprio fondamento della democrazia. Tra l’altro, ricorda ancora Judt, “la disuguaglianza non è solo fastidiosa: è inefficiente” e “l’egoismo è scomodo perfino per gli egoisti”.
Il problema è che l’affermazione di un economicismo di indubbio spessore morale nei paesi occidentali è stato consentito da una classe politica decisamente deficitaria.
A prescindere dallo schieramento politico, Léon Blum e Winston Churchill, Luigi Einaudi e Willy Brandt, David Lloyd George e Franklin Roosevelt rappresentavano una classe politica profondamente sensibile alle proprie responsabilità morali e sociali. […] Politicamente parlando, la nostra è un’epoca di pigmei. (13)
Inoltre, c’è da considerare che nella storia umana i momenti migliori, che hanno dato vita ad una effettiva evoluzione collettiva sono stati quelli cadenzati dall’equazione crescita economica = crescita culturale e viceversa. Quando i due elementi cominciano a essere squilibrati a vantaggio solo del successo economico, l’uomo inevitabilmente perde i suoi requisiti fondamentali e si trasforma in soggetto di consumo. (14)
È necessario aprire scenari finalizzati a una maggiore sobrietà che possono essere l’inizio di quell’umanesimo nuovo fondamentale per ridare a ciascuno di noi il senso del limite, riportando gli elementi nei loro alvei naturali. Ritenere il denaro o peggio ancora il consumo di beni non primari l’unica possibilità di realizzazione individuale significa perdere di vista il senso profondo del vivere quotidiano. Non è, intendiamoci, un messaggio ecumenico, ma solo un modo per dare il giusto peso agli elementi, perché, ha scritto Tony Judt,
c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel nostro modo di vivere oggi. Per trent’anni abbiamo trasformato in virtù il perseguimento dell’interesse materiale personale: anzi ormai questo è l’unico scopo collettivo che ancora ci rimane. […] Il materialismo e l’egoismo della vita contemporanea non sono aspetti intrinseci della condizione umana. (15)+
Note
1) Fautore di un modello di decrescita consapevole dell’Occidente, Latouche nei suoi numerosi scritti ha sviluppato da anni il principio che opporsi alla globalizzazione imperante è non solo importante, ma indispensabile per poter conservare l’immenso patrimonio di civiltà accumulato nei secoli. Su questo argomento è fondamentale anche il saggio di A. Touraine, Come liberarsi del liberismo. I movimenti contro la globalizzazione, Il Saggiatore, 2000. Infine, anche l’ultimo romanzo di Edoardo Nesi, Storia della mia gente, Bompiani, 2010, vincitore del Premio Strega 2011, è incentrato sugli aspetti drammatici della globalizzazione.
2) B. de Las Casas, Brevissima relazione della distruzione delle Indie, Edizioni Cultura della pace, Firenze 1991
3) H. Cortés, La conquista del Messico, Rizzoli, Milano 1987
4) T. Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’altro, Einaudi, Torino 1992
5) T. Todorov, La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà, Garzanti, Milano 2009
6) S. Latouche, L’occidentalizzazione del mondo, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 28-29. Dello stesso autore cfr. anche La fine del sogno occidentale, Elèuthera, Milano 2010
7) E. Berselli, L’economia giusta, Einaudi, Torino 2010
8) T. Judt, Guasto è il mondo, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 32
9) E. Mauro e G. Zagrebelsky, La felicità della democrazia. Un dialogo, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 17
10) E. Berselli, op. cit., pp. 32-33
11) Ibidem, p. 37
12) F. Rampini, New Economy. Una rivoluzione in corso, Laterza, Roma-Bari 2000
13) T. Judt, op. cit., p. 120
14) A questo proposito si rimanda all’importante saggi di G. Ritzer, La religione dei consumi. Cattedrali, pellegrinaggi e riti dell’iperconsumismo, Il Mulino, Bologna 2000
15) T. Judt, op. cit., p. 3