Vita degli interinali del nucleare
In Francia sono attualmente in funzione 19 centrali nucleari, per un totale di 58 reattori operativi. Oltre ai dipendenti, queste centrali – gestite dall’EDF, la multinazionale maggiore produttrice e distributrice di energianel Paese – impiega un gran numero di interinali, saldatori, idraulici, meccanici, elettricisti e operai non qualificati provenienti da Francia, Belgio, Spagna e Svizzera. Organizzati in gruppi, gli interinali come Yann – il giovane io narrante di La centrale – si spostano da una centrale all’altra secondo una rigida tabella: «Quali sono i suoi progetti? Gli dico, Blayais ad aprile e Tricastin a maggio». Torneranno a tempo debito nella centrale che si sono appena lasciati alle spalle, ma ogni centrale è insieme estranea e sempre uguale. In realtà, questi lavoratori senza radici, dalla Centrale non escono mai.
Gli interinali, tutti stipendiati da società prestatrici d’opera, devono raggiungere il reattore e metterlo in arresto temporaneo per consentire l’accesso a zone normalmente confinate, la sostituzione del combustibile, le ispezioni di controllo e la manutenzione periodica, la loro unica ossessione è gestire al meglio la dose annuale di 27 millisievert, la quantità massima di radiazioni sopportabile da una persona in un anno. Chi supera il valore critico è automaticamente fuori circuito per molti mesi e deve fare i conti con i rischi connessi all’irradiazione la cifra è frutto di un calcolo statistico, nulla garantisce a chi non lo supera di non aver assorbito una dose sufficiente a dare nel tempo effetti cancerogeni.
Come l’itinerario, anche il lavoro è regolato da una rigida tabella di gesti e rituali: gli operai penetrano nella centrale girone dopo girone, come in un inferno tecnologico e i colori dei segnali cambiano, dal blu al rosso, contrassegnando zone sempre più “calde”; divisi in piccoli gruppi e protetti da uno scafandro, gli operai si alternano nel cuore del reattore, ciascuno lavorando due minuti prima di lasciare il posto al compagno seguente.
Gli interinali corrono altri rischi, oltre a quello di contaminazione: Loïc, amico di Yann, sanzionato per colpa grave sul lavoro, ha perso l’abilitazione ed è stato mandato in un altro sito nucleare a pulire le torri refrigeranti, alle prese con amebe, legionelle e prodotti clorati. Entrambi i giovani hanno ottenuto il contratto attraverso l’ANPE (agenzia per l’impiego) di Lorient.
Nomadi per necessità (e taluni, forse, per una sorta di oscura vocazione) Yann e i compagni hanno in ogni nuovo sito sempre il medesimo problema: dove alloggiare: una casa in affitto temporaneo o una camera d’albergo a prezzo ragionevole nei dintorni della centrale non sono facili da trovare, così molti optano per una roulotte in un campeggio comunale, nel quale a seconda dei turni trascorrono mattine, pomeriggi, notti:
Cosa succede dietro le porte delle roulotte, con le finestre e le tendine chiuse, tra il sonno degli uni e l’assenza degli altri? Niente, perché qui il tempo procede in modo diverso, lontano dal corso normale delle cose, secondo un ritmo che non è quello dell’orologio biologico.
Confinati in simili non-luoghi, questi girovaghi post-moderni costituiscono comunità a parte, unite dal medesimo gergo, da passati simili e dalle stesse prospettive, da timori inespressi e dall’ossessione della dose massima. Gli interinali diventano così una fratellanza coatta, gerarchica ma solidale, una casta di intoccabili, più setta di monaci-guerrieri che categoria di lavoratori: le donne che scelgono quella vita sono poche, gli uomini sono uniti da una solidarietà maschile e da un’etica del lavoro – sporco ma irrinunciabile – che tutti si sforzano di rispettare. Gettare la spugna, uscire dal gruppo è quasi come tradire, se la motivazione iniziale era la necessità di trovare un lavoro, rischioso ma non troppo mal retribuito, le ragioni per restare sono molto più complesse, talvolta lo si fa per gusto del rischio, ma altrettanto forte è la certezza di vivere in un mondo separato e sempre uguale. Questa gente viaggia, illudendosi di “uscire”, ma i punti di arrivo si somigliano tutti: la Centrale è un labirinto con 19 entrate, un’idra a 58 teste.
Deuteragonista grandiosa, Lei non è malevola, ma inconoscibile, indifferente… vive come un grande organismo, in un tempo inumano, servita da piccole creature che sono estensioni di un unico grande animale, il gruppo. E, come un animale, il gruppo cerca di imparare dagli errori compiuti da uno dei suoi arti: Yann, ad esempio, si è fermato più del lecito nella sala del reattore per raccogliere un piccolo frammento metallico che non avrebbe dovuto trovarsi lì; nei giorni seguenti un intero comitato studierà più volte l’intera sequenza dei suoi gesti, sia per stabilire quanto si sia contaminato, sia per migliorare il protocollo di sicurezza a favore delle squadre successive.
Ma, nonostante quest’apparente preoccupazione per la loro sicurezza, agli interinali viene data una formazione minima, soprattutto teorica, con un’esercitazione al simulatore. Il problema del rischio a lungo termine viene sottolineato, è chiaro, così come la condizione costituita dal non superare la dose:
Aver firmato sotto condizione. Quando la condizione viene meno, anche il contratto viene meno. Si manca di lucidità, qualcosa stenta a superare un certo limite. Ciò che resiste al reale è proprio il rischio, la comprensione del rischio, se ne conosce il prezzo, il suo valore di premio a piè di pagina sul contratto o più in alto l’importo lordo del salario un po’ migliore qui che altrove […] il rischio, si possono vedere e abbastanza bene le sue contropartite, rapidità di assunzione e compenso, ma se ne prende meno facilmente la misura. Poiché un’agenzia s’impegna, si è contenti un po’ troppo in fretta.
Ma il rischio esiste e la consapevolezza che l’errore umano, il guasto tecnico, la gestione truffaldina, la catastrofe naturale sono sempre possibili – come ci hanno insegnato Three mile Island, Tchernobyl (a cui l’autrice dedica un resoconto preciso e glaciale) e Fukushima – è fonte di uno stress mal sopportato anche dai dipendenti fissi, come dimostrano i suicidi di tre tecnici di ruolo impiegati nella centrale di Chinon.
Il romanzo d’esordio La Centrale, ha meritato ilPrix du livre France culture Telerama a Elisabeth Filhol – fino a 44 anni dirigente d’azienda – che ha scritto questa suggestiva e preziosa opera prima con uno stile freddo e minuzioso ma pieno di una cauta solidarietà umana, che mai scivola nell’enfasi e nell’eccessiva partecipazione. Filhol racconta vite sospese fra paura e quotidianità, interrogandosi (e interrogandoci) sulle ragioni che spingono i subappaltati del nucleare a entrare in questo sottomondo e, il più delle volte, a rifiutarsi di abbandonarlo.
Al di là della riflessione sulla liceità della scelta nucleare, sui rischi umani e ambientali che comporta, la forza del romanzo sta nella sua capacità di mettere pianamente in discussione il nostro intero modello di sviluppo, che ha scambiato la garanzia e la sicurezza del lavoro con una manciata di denaro in più e trasformato in norma il precariato, un sistema che glorifica l’insicurezza con l’elegante e ipocrita nome di mobilità e la rivende come sogno: “siamo tutti mobili, quindi abbiamo il diritto di cambiare”, va tradotto in “siamo tutti mobili, quindi abbiamo il dovere di riconvertirci, spostarci qua e là senza mai crescere davvero, senza costruire niente”.
Chi porta avanti questo modello di sviluppo sta tentando di farci credere che la stabilità sia una pretesa impossibile, un atto di egoismo intollerabile e una squallida dimostrazione di vigliaccheria. Ma la precarietà di cui i fragili interinali come Yann sono avanguardie e prime vittime è la faccia impresentabile del mito americano della frontiera: “laggiù, appena oltre la curva, c’è qualcosa di meglio per me”.
Oggi – per la generazione dei nostri figli – “laggiù” è troppo oltre il diritto a una accettabile quotidiana serenità. (S_3ves)
In Esercizi di dubbio, un mio intervento sul tema.
Due o tre cose sul nucleare francese
Con i suoi 58 reattori nucleari, (uno quasi per ogni milione di abitanti), la Francia è in percentuale il Paese più nuclearizzato del mondo, nel quale la grande maggioranza degli abitanti si trova a vivere a non più di 300 chilometri di distanza dal reattore più vicino. Nei mesi seguiti all’incidente di Fukushima, dopo decenni di fiducia, la maggioranza filonucleare del Paese ha cominciato a porsi domande che prima si facevano soltanto attivisti antinucleari come quelli riuniti in RéseauSortir du nucléaire (che riunisce 902 associazioni e 53375 membri). Temi come lo stoccaggio delle scorie, i rischi dell’eventuale smantellamento delle centrali, il rapporto rischi/benefici della tecnologia nucleare vengono ora posti con forza, spingendo i politici a prendere posizione:
– Nicolas Sarkozy ha garantito che tutte le centrali che non supereranno gli stress test verranno chiuse,
– Il ministro francese dell’ecologia Borloo ha sollevato da tempo il problema dello stoccaggio delle scorie
– I socialisti pensano ad una exit strategy trentennale,
– André-Claude Lacoste, direttore dell’Autorità per la Sicurezza Nucleare di Parigi, invece, nega che vi siano motivi per chiudere una qualunque centrale nucleare in Francia.
Autorità locali, commissioni d’inchiesta relative alla smantellamento di vecchie centrali, gruppi antinuclearisti nonché l’Autorité de Sûreté Nucléaire (Asn) hanno sollecitato un vero dibattito pubblico nazionale che non sia uno dei soliti “débats bidon” (dibattiti bidone) sul nucleare.
I vantaggi economici a breve termine dell’intensa nuclearizzazione francese sono evidenti: le centrali forniscono il 78% dell’elettricità consumata nel Paese e i prezzi delle risorse energetiche si mantengono significativamente più bassi rispetto alle altre nazioni (in Germania, ad esempio, sono mediamente 40% più alti), ma quali sono i vantaggi o gli svantaggi a lungo termine, quali il rapporto rischi/benefici e i costi economici e ambientali dello smantellamento delle centrali obsolete? E come pensa i nuclearisti francesi di risolvere il grosso problema dello stoccaggio sicuro delle scorie?
Secondo Sortir du Nucléaire, nonostante la massiccia diffusione delle centrali, la Francia è ancora significativamente dipendente dalle fonti fossili che coprono ancora il 75% dei consumi (N.B. Il dato indicato nel periodo precedente – 78% – si riferisce esclusivamente all’energia elettrica, non a quella relativa a trasporti, riscaldamento ecc).
Per quanto riguarda la riduzione delle emissioni gassose, il dato medio globale indica che se anche, da qui al 2030, il numero dei reattori triplicasse, esse diminuirebbero appena del 9%.
Quanto ai costi di smantellamento, la Gran Bretagna ha recentemente valutato in 103 miliardi di euro lo smantellamento delle proprie 19 installazioni; facendo una piccola proporzione, lo smantellamento del parco nucleare francese dovrebbe costare oltre 310 miliardi di euro. Per i costi di esercizio e manutenzione in rete ho trovato cifre parziali e discordanti.
Il dibattito, infine dovrebbe tener conto di un dato oggettivo che potrebbe tagliare la testa al toro: nel 2040 le riserve di uranio potrebbero essere esaurite.
Perché, allora, ostinarsi a tenere in vita una tecnologia presto definitivamente obsoleta, onerosissima in termini di manutenzione e tanto pericolosa?
Forse perché, nella sola Francia, il comparto nucleare impiega circa 200 mila lavoratori, con un giro d’affari che potrebbe raggiungere i 28 miliardi di euro all’anno?
Quanto a sicurezza, poi, forse i siti nucleari francesi non sono tanto sicuri quanto le autorità si affannano a dichiarare…
E i nostri, ufficialmente dismessi, dopo ben due referendum vinti dagli anti-nuclearisti?
Se qualcuno spedisce un drone con una bomba su Saluggia, contamina l’intera pianura. Ma la gente non lo sa. Non sa che tonnellate di scorie di centrali chiuse viaggiano ancora su treno da uno stato all’altro e che far deragliare uno di quei treni è facilissimo. Ma noi come possiamo passare ai nostri nipoti notizie che nemmeno noi siamo in grado di sapere? Giorgio Nebbia a Paolo Rumiz in Le case degli spiriti 25 La Repubblica Lunedì 29 agosto 2011.
Francia: suicidi e lavoro
In La centrale, l’autrice Elisabeth Filhol denuncia lo stress lavorativo dei dipendenti (e a maggior ragione degli interinali), un malessere solo in parte dovuto a rischi connessi con la tecnologia nucleare e che è all’origine del suicidio realmente avvenuto di tre tecnici della centrale di Chinon.
Questi episodi non son casi isolati, la questione dei suicidi sul lavoro in Francia esiste almeno dal 1995 (caso Melmot) ma solo negli ultimi anni ha avuto visibilità ed è stata riconosciuta per ciò che è: la risposta individuale a condizioni di generali di lavoro sempre più intollerabili di lavoratori ormai impossibilitati a elaborare risposte collettive e sindacali.
I casi più eclatanti si sono verificati in France Télécom, dove decine di suicidi di dipendenti nei primi anni del xxi sec. non avevano fatto notizia.
I suicidi però non erano limitati a France Télécom:
2007 –> 6 suicidi alla Peugeot di Mulhouse
2007 –> 4 suicidi di ingegneri del Tecnocentro di Guyancourt della Renault.
2007 –> 4 suicidi di tecnici di alto livello alla centrale nucleare di Chinon [figura centrale] (3 sono i medesimi citati da Finhol); 8 suicidi di lavoratori delle imprese che gestivano la manutenzione della stessa centrale erano stati denunciati nel 1995 dalla CGT.
I politici tacciono, i sindacati reagiscono con molta prudenza, le direzioni aziendali invocano difficoltà psicologiche individuali o problemi della sfera familiare; nell’aprile 2009, però, un tribunale del lavoro ammette per la prima volta in una sentenza il nesso diretto tra il suicidio (2004) di un tecnico di alto livello della centrale nucleare di Chinon, e la condizione di lavoro: il suicidio viene giudicato l’esito di una “malattia professionale” della quale è responsabile l’impresa.
Nel gennaio 2010 un’altra sentenza definisce “incidente sul lavoro” il suicidio (2006) di un ingegnere nel Tecnocentro di Guyancourt , imputando la Renault di “grave colpa” e “negligenza ingiustificabile”.
La successione di suicidi a France Télécom [figura] (2009) apre finalmente un vero dibattito pubblico. Su Le Monde lo psicanalista Cristophe Dejours definisce i suicidi sul lavoro “segnali di una svolta storica nel degrado della condizione di lavoro […] Il loro gesto disperato non può essere imputato a vulnerabilità psicologiche individuali. È l’organizzazione del lavoro che deve essere messa sotto accusa. Il manager assegna individualmente degli obbiettivi impossibili”, che vengono accettati dai dipendenti perché, dice Dejour, “l’organizzazione del lavoro ha distrutto il collettivo, la cooperazione e la solidarietà nel luogo di lavoro. Solo se c’è un collettivo si può discutere di ciò che è giusto o non è giusto e poi, uniti, si può negoziare con la controparte” In Francia, dei 400 suicidi annuali legati al lavoro, la maggioranza restano anonimi, invisibili, perché compiuti da lavoratori precari o licenziati.
La parabola della France Télécom da azienda di Stato ad alta tecnologia, impresa modello dell’integrazione sociale a impresa privata transnazionale con una gestione orientata prevalentemente verso una strategia finanziaria e commerciale è altamente significativa: in poco più di un decennio la condizione di lavoro – un tempo stabile meglio remunerata rispetto all media nazionale – si degrada al punto da valere a France Télécom la nomea di “azienda che uccide”. Il Presidente della società definisce cinicamente l’ondata di suicidi sul posto di lavoro una “moda”. Linee guida della nuova gestione sono 1) l’assegnazione dall’alto ai dipendenti di obbiettivi individuali valutatati con stretto controllo informatico delle modalità operative e dei risultati. 2) la parola d’ordine Time-To-Move, dal doppio significato di accelerare i tempi di lavoro e di accettare una mobilità interna rispetto sia a mansioni e ruoli (discendenti), sia a nuove sedi più scomode. Poiché le linee guida sono praticate a discrezione dei dirigenti i dipendenti sono ricattabili, frustrati, insicuri e messi in competizione feroce fra loro.
In teoria il posto di lavoro resta stabile e l’azienda non può licenziare ma France Télécom intende ridurre drasticamente il personale, quindi la direzione riduce il numero dei dipendenti attraverso un sistematico mobbing dall’alto, , Questo biennio è stato anche quello della massima mobilità interna:
Gli anni 2007 e 2008 – nei quali ha toccato l’apice della mobilità interna, con 14.000 spostamenti forzati e 20.000 “licenziamenti volontari” – France Télécom ha raggiunto rispettivamente la punta massima dell’utile netto realizzato di tutta la propria storia aziendale e il vertice del proprio giro d’affari. Un caso? No, certamente, ma il divario fra utili e condizioni di lavoro indecenti procura all’azienda un bel danno d’immagine, tanto che nel 2009 raddoppiano le disdette dei contratti privati e l’utile netto e il giro d’affari subiscono una flessione. I dipendenti, però, e i sindacati nazionali, non hanno però reagito come ci si potrebbe aspettare, non sono stati proclamati scioperi. Significativamente, però, nel 2009, 20 medici aziendali hanno presentato le dimissioni per incompatibilità tra presenza nell’impresa e deontologia professionale.
Nonostante il cambio anticipato al vertice dell’azienda, a France Télécom. nel gennaio 2010 ci sono stati altri 7 suicidi.
Paradigma dei guasti e della violenza psicologica generata da ristrutturazioni aziendali orientate puramente all’utile immediato e dai cambiamenti sempre più evidenti nei rapporti di forza tra “azienda” da una parte e lavoratori e sindacati dall’altra, resta il caso Mermot,una città-fabbrica dell’Aquitania specializzata in revisioni generali e riparazioni particolari di aerei, fondata nel 1919 dalla Compagnia di meccanica aeronautica dell’Ovest, che comprendeva stabilimenti, quartieri-giardino per i dipendenti e scuole tecniche di avanguardia. Generazioni di operai professionali e di tecnici della comunità “socialista” di Mermot hanno lavorato nella fabbrica forte solidarietà di mestiere, senso di appartenenza alla comunità territoriale e identità aziendale. Poi, a partire al 1995, è stata avviata una riorganizzazione del lavoro orientata a prodotti sempre più differenziati e personalizzati sull’esigenza del cliente…
Qui approfondimentisui casi Melmot e France Télécom
Élisabeth Filhol
La centrale
fazi 2011, pp. 123, € 12,00