di Consolata Lanza
Magari sarà anche vero che gli scrittori scrivono sempre di se stessi (non ci credo per niente), certo che quando lo fanno coscientemente è molto interessante osservare la strada che scelgono per costruire il racconto autobiografico. Ho radunato questi tre libri perché appartengono tutti alla categoria del ricordo, della memoria, dello scavo nel proprio passato, ma utilizzano tecniche diversissime, così come è diversissimo l’atteggiamento verso la narrazione di sé che rivelano. Bennett piano e quasi dimesso, Anau divertita, dolorante e compiaciuta, Amerano epica e intensa.
Alan Bennett: Una vita come le altre
Ho molto amato altri libri di Alan Bennett (così a memoria, soprattutto La sovrana lettrice, La cerimonia del massaggio, Signore e signori) e anche questo l’ho trovato un bel libro, anche se molto diverso dalla maniera frizzante e spiritosa che contraddistingue l’autore. Qui siamo piuttosto nel campo della sobrietà che confina facilmente con la depressione. Almeno questa è l’impressione che mi ha lasciato, a lettura finita, Una vita come le altre. Forse non tutti i ricordi d’infanzia sono condivisibili senza il rischio di annoiare chi ascolta o legge. Il fatto è che quasi tutti hanno avuto almeno un paio di nonni/e, di genitori, zii e zie, fratelli ecc; e chi non li ha avuti, forse non è interessato a ascoltarne le storie, a meno che non cerchi rassicurazione sul fatto che è stato veramente fortunato fin dall’inizio. Ci vuole qualcosa che renda unico o universale il parentado altrui per farcelo sorbire. Quello di Alan Bennett secondo me non lo è.
O almeno, rinunciando alla sua scrittura spiritosa e pungente, rinuncia a farcelo apparire tale. Figlio di un macellaio introverso e molto composto e di una casalinga gravemente depressa che trascorre anni dentro e fuori dalle cliniche psichiatriche, precocemente intelligente, studioso e esibizionista, Bennett cresce a Leeds in una normale famiglia piccolo borghese. Ci narra di suo padre e di sua madre, delle due sorelle della madre, di un segreto, il suicidio del nonno materno, gelosamente custodito per anni e scoperto per caso, delle gite e dei Natali, degli ultimi anni della madre in una casa di riposo anticamera della morte (indimenticabili le inservienti euforiche e affettuose). Forse a lui ha dato molto scriverne, forse è una specie di risarcimento o omaggio alla famiglia, ma ha me non ha lasciato molto. È come se Bennett fosse più preoccupato di scrivere una testimonianza, di essere sincero e rispettoso della realtà, che dell’effetto che può suscitare nel lettore. La parte dedicata agli ultimi anni della madre mi ha fatto pensare, per contrasto, a quanto mi aveva coinvolto un libro pur distaccato e minimalista come Ricordi di mia madre di Yasushi Inoue. Certo Una vita come le altre si fa leggere, è pur sempre l’opera di uno scrittore notevole, ci dà uno spaccato dell’Inghilterra dagli anni ’30 agli anni ’70 acuto e interessante, rappresenta in punta di penna dei caratteri che più british non si può. Ma forse un eccesso di britannico aplomb lo rende un po’ freddo, forse, a dirla tutta, un po’ depresso e deprimente.
Alan Bennett
Una vita come le altre
Adelphi 2010, pp.172, € 17,00
trad. dall’inglese di Mariagrazia Gini
Roberta Anau: Asini, oche e rabbini
Questo bel libro, che la quarta di copertina definisce romanzo, in realtà è tutt’altra cosa, anzi, molte altre cose. È innanzitutto una dichiarazione di appartenenza e identità ebraica, piena di affetto e orgoglio. È un’autobiografia che si diverte a ricostruire un teatrino famigliare pullulante di tutto ciò che è vita, dalle manifestazioni alte come la religione, la tradizione, alle sue espressioni più basse e corporee, che tanto divertono i bambini, nulla disdegnando né dimenticando; e la voce della protagonista fa rivivere davanti ai nostri occhi i personaggi della sua infanzia (alcuni larger than lifecome l’amata-temuta-ammirata madre Fernanda), l’amatissima Ferrara e le sue nebbie avvolgenti e tiepide, gli oggetti, i cibi, gli spazi della «casa d’angolo» in città e della Luchinata, la casa di campagna delle estati di libertà e natura, le parole (moltissime) che trasmettono la cultura ebraica e i riti familiari, quelle del dialetto ferrarese paterno e soprattutto quelle del nonno materno Orazio, piemontese e depositario di formule adatte a qualsiasi occasione. Man mano che Roberta cresce, lascia Ferrara per la gelida Torino in seguito alla morte del padre, al calore della famiglia d’origine si sostituisce il matrimonio, la nascita di una figlia, dolori grandi, grandissimi, e piccole difficoltà, le fatiche e le gioie della vita degli adulti, la voce diventa più dolente e il mondo un po’ più monocromo. Ma non diminuisce la sensazione di ricchezza che questo libro trasmette. Il punto di forza è la scrittura sapiente di Roberta Anau, euforica e barocca, amante dell’accumulo fin dal titolo, dei sinonimi, delle liste di paragoni e metafore, pimpante e esagerata. Una scrittura che vuol farsi notare, non teme di portare via la scena ai contenuti, soprattutto all’inizio in cui sembra che voglia rendere conto dello stupore goloso di una bambina di fronte alla vita bella e nuova, tutta da scoprire. È viscerale e carnale, cresce su se stessa, un pensiero tira l’altro, non ha bisogno di fatti cui appoggiarsi, è sovrabbondante e ellittica, espressionista. Fa un generoso uso di ironia, condimento paragonabile solo all’amato grasso d’oca. Sa operare trasformazioni favolose sulla realtà (basti come esempio l’episodio della conserva di pomodoro di pagina 125), caratterizza i numerosi personaggi con voci sempre personali, li accarezza con amore e li punzecchia senza pietà nel caso che lo meritino.
Asini, oche e rabbini è un libro intensamente originale sia nell’affrontare l’argomento mille volte trattato della ricostruzione di un mondo dell’infanzia, sia nell’appassionata dichiarazione di appartenenza ebraica, nella sensualità con cui racconta i cibi, la scoperta della sessualità, la baldanza giovanile e le prime malinconie dell’età, definite con felicissima ironia le ultime stagioni della mia «età della ragione». Per concludere, ottima la scelta editoriale di mettere in copertina i genitori di Roberta, ritratti nello splendore del loro giorno di nozze. Un esauriente glossario riunisce i termini ebraici disseminati nel testo.
Roberta Anau ha vissuto a Ferrara e a Torino, è stata insegnante e ora gestisce un agriturismo, La Miniera, nel Canavese, dove propone cibi della tradizione ebraica e piemontese. Ha pubblicato con Elena Loewenthal Cucina ebraica (Fabbri 2000), La cucina della Bibbia (Il leone verde 2002) con Daniela Messi e Gianburrasca: Ragazzo di marzapane e cervello di crema (Il leone verde 2010).
Roberta Anau
Asini, oche e rabbini
Edizioni e/o 2011, pp. 226, € 18,00
Valeria Amerano, Non voltati, abbiamo perso
Tutt’altro percorso è quello di Valeria Amerano in Non voltarti, abbiamo perso, rievocazione in forma di autobiografia sentimentale di due amori finiti, che vince la difficile sfida di trasformare una piccola vicenda in un’epica dell’anima o meglio del cuore, dove l’amore è declinato in modi spudoratamenti «fuori moda», assoluti, senza vergognarsi della passione né tentare di mistificarla, anzi, traendone orgoglio. L’autrice sceglie la forma del romanzo in prima persona; l’io narrante è Anna, Marco e Davide i due uomini che costituiscono in varia misura i pioli su cui si arrampica la vita di Anna. E perdonatemi la metafora faticosa, ma mi è venuta in mente proprio perché il romanzo narra fatica e la determinazione con cui la protagonista giunge a scoprire se stessa e affermarsi come persona attraverso la sensualità, la capacità di essere «schiava d’amore» senza difese ma consapevole. La vicenda si svolge negli anni ’70 in una Torino fascinosamente indistinta e precisa, un po’ buia, lontana nel tempo, dove ogni indicazione topografica rappresenta una tappa di vita. Anna, maestra elementare, sposata troppo giovane, intreccia un’amicizia amorosa con un collega, Marco, un po’ sfuggente e poco disposto a concedersi del tutto. Per lei inizia un percorso arduo ma inevitabile: sfidando le regole sociali e la disapprovazione della sua famiglia d’origine, si separa, va a vivere da sola , si dedica al suo sogno più vero, più profondo, quello di scrivere. Marco rimane un amore accettato con abbandono e lucidità: Una volta, era forse San Valentino, gli avevo dato il suo regalo seduta sul letto dell’albergo. Lui, superiore da sempre a queste cose, s’era messo in testa il fiocco colorato della scatola dicendo: “Sono io il regalo”. Avevo sorriso e fatto finta di nulla. (Dieci anni dopo non gli avevo ancora perdonato quel gesto, né il fatto che avesse ragione.), ma non diventa mai un rapporto intorno al quale costruire la sua vita: Ero la donna di Marco. Non l’unica forse; ma se io potevo stare al posto di un’altra, un’altra non poteva stare al mio posto quando lui voleva me.
Gli subentra Davide, amore ancora più evanescente anche se condivide con Anna la passione per la scrittura. Intorno ci sono gli anni tumultuosi delle rivolte giovanili, del femminismo, ma nulla di tutto questo raggiunge Anna nel suo quasi monacale isolamento: percorre la medesima strada di liberazione e autoaffermazione in perfetta solitudine, dedicandosi totalmente alle sue passioni, il dono di sé come amante, le parole da allineare sulla carta per narrare di sé.
I fatti sono pochi, e ciò che permette a Valeria Amerano di rendere appassionante questa vicenda intima e all’apparenza banale sono la stupefacente capacità di scrittura, che riesce a dare parole a ogni sfumatura di un rapporto, una eccezionale profondità di sentimento, e un’originalità di analisi davvero rara. Non manca neppure un leggero velo d’ironia che impedisce alla storia di un’anima di diventare storia di un ego. Infatti, malgrado l’intensità e la nostalgia che lo pervade, questo non è un libro difficile, anzi, il lettore viene accompagnato con leggerezza all’inseguimento dei giovani passi di Anna che esplora i confini della crudeltà dell’amore e della sua libertà. Se ci fosse giustizia a questo mondo, Valeria Amerano sarebbe riconosciuta per quello che è, una grande scrittrice. Mi auguro che questo libro incontri almeno ciò che di diritto gli spetta, molti lettori capaci di lasciarsi andare all’incanto delle sue parole.
Valeria Amerano
Non voltarti abbiamo perso
Edizioni Alga 2011, pp. 205, € 3,00