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    Aria

    La Storia e le storie: Orhan Pamuk, La casa del silenzio

    • di Consolata Lanza
    • Ottobre 31, 2012 a 2:23 pm

    di Consolata Lanza 


    Questo romanzo, la cui edizione originale è del 1996, pubblicato in italiano da Einaudi nel 2007 con traduzione di Francesco Bruno, avrebbe secondo me bisogno di quell’obsoleto supporto editoriale che è la prefazione. Presentato così nudo e crudo a un pubblico di lettori anche sensibili e curiosi, ma lontani dalle problematiche storiche e culturali della Turchia moderna, rischia di essere letto come vicenda famigliare e di deludere chi, giustamente, da questo tipo di narrazione si aspetterebbe una maggiore sensibilità alle psicologie dei personaggi. Io penso invece che l’interesse di un libro come La casa del silenzio (che reca in calce le date 1980-1983, e si può quindi pensare a un’opera giovanile di Pamuk, nato nel 1952) sta proprio nel suo valore metaforico, che è anche il suo limite, e nella rappresentazione delle diverse anime della Turchia attraverso i personaggi che si alternano come io narrante. Per dirla tutta, mi è sembrato un imparaticcio ancora un po’ rigido della capacità di rappresentare la Storia attraverso singole vicende individuali che raggiungerà in Neve un livello di perfezione. La vicenda si svolge nell’estate del 1980, a ridosso quindi del colpo di stato militare del 12 settembre, che poneva fine a un decennio di conflitti tra destra e sinistra sostenuti e fomentati dal conflitto tra Stati Uniti e Unione Sovietica, e sfruttati dai militari per arrivare appunto alla presa del potere. Come tutte le estati, nella grande e vecchia casa di Fatma, a Tuzla, località sul Mar di Marmara non lontana da Istanbul, arrivano in visita i nipoti Faruk, Metin e Nilgün, unica femmina. Fatma è accudita dal nano Recep, il cui nipote, Hasan, giovane sfaccendato e infiammato da idee nazionaliste, parafasciste e violente, fa parte di un gruppo di estrema destra ai limiti della delinquenza. Le voci che si alternano sono quelle di Recep, Fatma, Faruk, Metin e Hasan. Fatma è depositaria di conoscenze e segreti che i nipoti non condividono, tra cui il fatto che Recep e suo fratello Ismail lo zoppo, che campa vendendo biglietti della lotteria, sono figli illegittimi di suo marito, il defunto medico Selâhattin, e di una serva bella e ignorante. Abbiamo così due blocchi ben distinti dall’appartenenza di classe, tra i quali Recep funge da trait d’union. Gli intrecci tra i vari personaggi sono complessi. Durante l’infanzia Metin e Nilgün  hanno avuto Hasan come compagno di giochi, ma ora che sono cresciuti le loro strade si sono divise, e Hasan è divorato dall’invidia, dal risentimento e da un’ambigua ossessione per Nilgün. Recep, il nano, e Ismail, lo zoppo, quand’erano bambini sono stati ridotti in questo modo dalle bastonate di Fatma, gelosa e esasperata dal marito che le aveva imposto la presenza dell’amante e di suoi figli; Selâhattin non ha saputo né voluto difenderli perché economicamente dipendeva dalla moglie. Da questo intreccio esplosivo deriva la conclusione inaspettata e anche un po’ ingiustificata. Ma come dicevo prima, quello che conta non sono le azioni dei personaggi ma ciò che rappresentano, sullo sfondo di un luogo di villeggiatura smemorato e peccaminoso che ha tradito le sue radici agricole per accogliere una ricca borghesia che pare non sappia che cosa fare di se stessa, e in un momento di grande instabilità politica in cui ogni giorno si contano morti ammazzati dell’una e dell’altra parte, dall’estremo est di Kars all’occidente di Edirne.

    Orhan Pamuk

    Fatma, novantenne querula e imperiosa, crudele, immersa nei ricordi felici dell’infanzia, che si vanta ossessivamente della purezza dei suoi pensieri e custodisce con pazza gelosia il suo cofanetto dei gioielli ormai vuoto, piena di astio contro il marito, diffidente nei confronti di Recep che è l’unico che si preoccupa di lei e del suo benessere, insofferente verso i nipoti, è la Turchia ottomana, la grande tradizione ormai morta che però con le sue ricchezze ha permesso alla Turchia moderna di nascere e formarsi; Selâhattin, che conosciamo attraverso le parole della moglie, il medico fallito, l’esiliato a vita, l’ubriacone illuso, il perdente che passa la vita a scrivere un’enciclopedia che cambierà le sorti del suo paese e dopo la sua morte verrà bruciata da Fatma, l’ateo, il razionalista che quando nel 1934 deve darsi un cognome sceglie Darvinoğlu, cioè De Darwin, che odia la moglie ma le fa vendere i diamanti della dote uno dopo l’altro per finanziare i suoi folli sogni, è la Turchia di Atatürk, filooccidentale, europeista, proiettata verso la modernità e piena di disprezzo per l’Oriente, le sue tradizioni e il suo oscurantismo, che ha sostanzialmente fallito nel suo sforzo per liberarlo; Faruk, l’intellettuale abbandonato dalla moglie che cerca consolazione nel vino e nel cibo, lo storico che nella storia non riesce a trovare un significato che vada al di là dei singoli opachi episodi, rappresenta l’impotenza della Turchia moderna di fronte all’incomprensibilità dei processi che hanno portato all’attuale situazione; Metin, giovane e brillante ma frustrato nelle sue aspirazioni alla ricchezza e alla bella vita, momentaneamente preso dalla ragazza Ceylan che non lo ricambia, con il sogno dell’America nel cuore, è la Turchia giovane che non ha la pazienza di aspettare che la patria sia in grado di realizzare i suoi desideri, e l’abbandona emigrando non per necessità ma per ambizione; mentre dall’altra parte della barricata, tra le classi dei diseredati, Hasan, invidioso dei cugini che lo hanno dimenticato, è la preda più facile per il populismo, la violenza immotivata e i valori distorti del nazionalismo sfrenato dei Focolari dell’Ideale, associazione fascista, in fondo uno degli sbocchi degenerati del kemalismo di cui Selâhattin rappresenta l’altra faccia. Infine, il mite Recep, pronto all’ubbidienza e a compiere il proprio dovere senza interrogarsi, solitario, bisognoso di un po’ di compagnia e di affetto ma capace di lasciare da parte le proprie esigenze per prendersi cura degli altri, è la Turchia reale, erede non riconosciuta di tradizione, modernizzazione e nazionalismo, che  pur storpiata dalla storia, senza esserne cosciente ha ne conciliato in sé i diversi significati e paziente e silenziosa va avanti senza guardarsi troppo indietro. Più sfocata la figura di  Nilgün, più detta che agita (l’unico atto da «comunista, come viene sempre definita, che la vediamo compiere, è l’acquisto del quotidiano Cumhurryet ), pur essendo in un certo senso il centro di tutta la narrazione. A questo proposito si può osservare che le figure femminili in questo romanzo sono piuttosto sbiadite, come Nilgün e Ceylan, o negative, come Fatma, mentre l’unica figura vissuta come positiva da  Selâhattin, la serva con cui ha generato Ismail e Recep, non ha né nome né storia. E anche questo sono certa che non è casuale ma rappresenta un aspetto della storia della Turchia.

     

    Io penso che tenendo presente questo forte sottofondo storico si potrà meglio apprezzare un romanzo ben lontano dalla meravigliosa, lancinante prosa di Neve o di Istanbul, ma che ha una sua potente attrattiva nella varietà di voci e personaggi che si muovono soli, senza capirsi né amarsi, nell’estate del 1980 sul Mar di Marmara.

    Una recensione molto completa e molto più chiara della mia, a opera di Francesco83, si può leggere qui.

    Orhan Pamuk

    La casa del silenzio
    Einaudi 2007,
    pp. 376, € 13,00
    trad. Francesco Bruno

    gentilmente da  Anaconda Anoressica, blog di Consolata Lanza

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