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    TerraNova

    I fantasmi di Capuana e i viaggi nel tempo di Salgari: un secolo di fantastico italiano

    • di Massimo Citi
    • Febbraio 16, 2012 a 10:37 pm


    Non è un paese per fantastici? – 1

    di Massimo Citi 


    Tra i primi a venire in mente è Sir Horace Walpole, con il suo Castello di Otranto, storia di fantasmi ambientata in una Puglia oscura e tenebrosa, per passare al Roderick Hudson di Henry James, ambientato tra dirupi e vette alpine fino a giungere a Damiano, di Roberta McAvoy ambientato in un Piemonte del tutto degno della tradizione scozzese.

    Quanto basta per affermare che l’Italia ha una storia non così trascurabile in quanto teatro del fantastico. Ma qual è la tradizione del fantastico italiano, quali gli autori, le storie, i racconti, i romanzi?
    Non granché, verrebbe da dire. Praticamente inesistente il gotico, rarissime le ghost-stories, debole la fantascienza, assente l’horror, anche nel dopoguerra l’Italia ha visto ben pochi autori capaci di affrontare e utilizzare il genere fantastico: Buzzati, Landolfi, Calvino – sia pure in una sua personalissima lettura – Bigiaretti, Soldati. Pochi, ma già falange rispetto al poco di cui è giunta notizia nella produzione del XIX secolo.
    Francesco De Sanctis scrisse: «il fantastico non è che un mezzo per produrre impressione, scopo ultimo è il sentimento», praticamente una pietra tombale critica. Per Benedetto Croce il problema nasce dal fatto che «l’anima italiana tende, naturalmente, al definito e all’armonico», facendo completamente proprie riserve, insofferenze e ironie dei maggiori autori italiani dell’Ottocento, Alessandro Manzoni (il gotico: «un non so qual guazzabuglio di streghe e spettri») e Giacomo Leopardi (i romantici che cercano «… misfatti atrocissimi, cuori e menti d’inferno, stermini subbissi orrori diavolerie strabocchevoli, così altre invenzioni da spaccamonti»).
    Il fantastico italiano sembra essere definito unicamente nei termini di una narrativa di scarsa qualità, frivola, emotiva e troppo evidentemente debitrice a una tradizione non sua, genericamente definita come «nordica».
    Ma ciò che rischiamo di dimenticare – almeno noi che ne parliamo e vi riflettiamo in un’Italia con l’incidenza di lettori sulla popolazione più alta della storia nazionale (unitaria e preunitaria) –  è che Manzoni e Leopardi facevano riferimento a una popolazione alfabetizzata e dotata di padronanza della lingua italiana che non superava il 4% della popolazione adulta dell’epoca, cioè un po’ meno di duecentomila persone. Lettori che, nella maggior parte dei casi, reputavano l’esercizio della lettura parte di un più ampio ventaglio di doveri e necessità. In un paese nel quale la libera lettura era stata considerata l’anticamera della Riforma e dove per tutto il Settecento e gran parte dell’Ottocento la migliore produzione straniera era stata posta all’indice in molti stati italiani, attività come  leggere e scrivere possedevano necessariamente un valore sia pure indirettamente politico, ben lontano dalle apparenti frivolezze della narrativa di pura invenzione.
    Un quadro tanto sommariamente definito non può costituire una spiegazione efficace agli esiti incompleti e non raramente poco originali del «gotico italiano» ma certo aiuta a comprendere i motivi della scarsa vitalità del genere in Italia.

    Emilio Salgari

    E proprio all’assenza di un vasto pubblico di lettori – oltre che al prevalere di atteggiamenti ideologici che richiamano con molta evidenza le intolleranze e le ironie dei due padri della letteratura italiana – va probabilmente attribuita anche la limitata fortuna del fantastico nella prima metà del nostro secolo. La narrazione d’avventura, che nei primi anni del Novecento ha costituito in molte letterature la necessaria premessa alla narrativa di speculazione fantascientifica, era in primo luogo una letteratura popolare, adatta all’intrattenimento e in secondo luogo all’informazione tecnico-scientifica. Ma in Italia era proprio il mercato editoriale a essere gracile, tanto da non permettere la nascita di un’editoria libraria interamente dedicata al fantastico e alla fantascienza. Testi e racconti trovavano così spazio soltanto all’interno di riviste e supplementi domenicali senza che per gli autori esistesse la possibilità – fatta eccezione per l’onnipresente e attivissimo Emilio Salgari – di cimentarsi in testi di maggior impegno e respiro.

    Così – mentre per la letteratura «romantica» italiana pochi sono stati gli autori di rilievo, con una produzione spesso timorosa e convenzionale, vincolata a considerazioni di opportunità, moralità, misura e gusto medio nell’ambito di un milieu culturale provinciale e antiquato – per la narrativa «popolare» è probabilmente stato soprattutto l’insufficiente sviluppo dell’editoria industriale a sancirne la minorità estetica.
    Se agli elementi che ipotizziamo aggiungiamo la fervida resistenza accademica ad ammettere all’interesse degli studiosi la letteratura d’intrattenimento, sia pure con lodevolissime eccezioni (cfr. Petronio, Sulle tracce del giallo), le resistenze ideologiche di buona parte della sinistra italiana, legata a canoni realistici e a un concetto di lettura come formazione, le secolari diffidenze cattoliche nei confronti della letteratura laica d’invenzione, si completa facilmente il quadro di un fantastico italiano rachitico e povero di elementi originali.


    Fin qui le ipotesi. Ma è poi vero che il fantastico italiano è stato tanto misero, così scarso di autori e di invenzione?

    A smentire questa tesi due titoli, ora  purtroppo esauriti, ma che costituivano un’ottima introduzione al tema, tanto da meritare una ricerca sulle bancarelle oppure on line. Si tratta di Le aeronavi dei Savoia, Protofantascienza italiana 1891-1952, a cura di Gianfranco De Turris, editrice Nord e Il vero e la sua ombra, Racconti fantastici dal Romanticismo al Primo Novecento, a cura di Leonardo Lattarulo, collezione di Scrittori Italiani, Quiritta editore.
    Pur risultando curiosamente in consonanza i due testi nascono con intenti e per ambiti diversi. Il libro curato da De Turris, infatti, nasce a coronare una ricerca iniziata nel 1992 e una trentennale attività di raccolta di materiali sulla «vecchia fantascienza italiana», mentre il volume di Quiritta si candida a costituire parte di un percorso di ricerca delle «anomalie della nostra letteratura» rivendicando a esse un ruolo e un contributo originale nell’ambito della storia della letteratura nazionale.

    Massimo Bontempelli

    Molto diversa anche l’origine dei testi pubblicati: l’antologia di De Turris nasce da un paziente lavoro di raccolta di materiali pubblicati su rivista o su supplementi settimanali di quotidiani mentre i racconti selezionati da Lattarulo provengono per la maggior parte da antologie. Eppure, e non poi troppo stranamente, vi sono nomi che ritornano. Tra gli autori presenti in entrambe le antologie se è infatti prevedibile trovare Emilio Salgari, lo è molto meno trovare Luigi Capuana o Guido Gozzano. Da segnalare inoltre, nell’antologia protofantascientifica, la sorprendente presenza di Rosso di San Secondo e di Massimo Bontempelli. Quasi a richiamare l’attenzione dei lettori di oggi su una maggiore permeabilità tra diversi generi nella cara, vecchia, provinciale narrativa italiana dell’Ottocento e Novecento.

    L’antologia curata da De Turris è nata con un preciso scopo: dimostrare che non fu la scarsa qualità ma un insieme di circostanze avverse a determinare lo scarso sviluppo di una fantascienza italiana. Il curatore giunge ad affermare che «Se i racconti contenuti in questa antologia fossero stati scritti da autori americani, sarebbero diventati dei “classici” della fantascienza, tradotti in tutto il mondo», affermazione generosissima e non del tutto, come vedremo, campata per aria.

    Le aeronavi dei Savoia è organizzata per temi. Tra essi: Altri mondi, Invenzioni straordinarie, Scienziati pazzi, Mostri, Catastrofi, Avventure metapsichiche. In appendice, a cura di Claudio Gallo, le schede biografiche degli autori e bibliografiche delle riviste dalle quali sono tratti i testi.

    Luigi Capuana

    La maggior parte di essi sono stati pubblicati nei primi vent’anni dello scorso secolo ed è interessante notare come gli anni compresi tra il 1900 e il 1910 furono tra i più ricchi di testate dedicate alla letteratura fantastica o di speculazione, particolare che spiega l’inconfodibile gusto Belle Époque di situazioni e personaggi. Inimitabile, in questo senso, il delizioso Il fascino dell’ignotodi Anton Ettore Zuliani, cronaca della conquista del polo nord di Venere da parte de «L’illustre ingegnere Maurizio Moriani, un appassionato cultore della scienza in generale e della meccanica altra-terrestre in particolare», della sua bella nipote, del di lei fidanzato, Emanuele Lucci e del fido meccanico Mariano. Il racconto, uno dei più lunghi dell’antologia, mostra con tutta evidenza l’influenza di Jules Verne, fino al punto di replicare l’indimenticabile duello marino tra un plesiosauro e un ittiosauro, una delle pagine più emozionanti di Viaggio al centro della terra. Ma l’audace dottor Moriani è solo il primo di una lunga serie di scienziati/ tecnici/ inventori/ esploratori/ negromanti che popolano le pagine dell’antologia. Tra questi a colpire maggiormente il lettore il dottor Morini del racconto L’acciaio vivente di Luigi Capuana, un racconto del 1913 che curiosamente propone un tema fortemente critico verso la sperimentazione scientifica più radicale, e il dottor Donati de L’esperienza di Donati di Ettore Santi (1906), testo che inaugura drammaticamente il tema del teletrasporto.

    Ma il tema del teletrasporto non è certo il solo a comparire in modo originale: L’Uomo vegetale di Luigi Ugolini (1915) nasce dallo stesso spunto – la metamorfosi in forma vegetale – di un celeberrimo racconto di Edmund Hamilton, Unati. Altrettanto suggestivo e, a suo modo titanico, il tema di Ciò che accadde a noi tutti il 9 settembre 190… di Secondo Lorenzini (1906), cronaca puntuale di una catastrofe planetaria dove la Terra diviene un pianeta con una faccia perennemente esposta alla luce solare mentre l’altra sprofonda nell’oscurità e nel gelo.

    Guido Gozzano

    Deludente, a essere sinceri, il racconto Cataclisma di Massimo Bontempelli (1924), troppo chiaramente nato da un intento metaforico e condizionato da uno stile attentamente ricercato. Irresistibile, viceversa – anche se per nulla fantascientifico – Dopo il voto tragico di Guido Gozzano, perfida parodia dei tanti racconti di misteri dell’India. A proposito: l’antologia ospita un solo racconto di Emilio Salgari, pubblicato con lo pseudonimo di Enrico Bertolini, Il mio terribile segreto (1904), una breve avventura onirica non particolarmente originale e un testo di Cesarina Lupati, unica donna della compagnia, Avventura Notturna (1918), racconto goticizzante scritto in evidente omaggio a Edgar (anzi Edgardo) Allan Poe.

    Tra le curiosità un racconto, La vita di domani (1925), opera di Fillia, membro di spicco del futurismo italiano e un altro, La vita delle comete, (1936), scritto da Salvatore Gatto, vice-segretario del PNF e pubblicato sulla rivista Le grandi firme, diretta da Pitigrilli, testo più che modesto e per il quale non è davvero difficile immaginare il motivo della pubblicazione…


    Ma ha ragione, De Turris? Probabilmente no. Ma non perché i racconti presentati siano troppo nettamente inferiori ai loro congeneri americani, ma perché dotati di caratteristiche e peculiarità – tra queste un sottile e persistente humour – che ne fanno un prodotto tipicamente europeo, più legato alla tradizione francese del romanzo utopico che alla space opera americana. Nella maggior parte dei racconti manca quella componente di esaltazione acritica della tecnologia che, viceversa, si ritrova facilmente nei racconti scelti da Hugo Gernsback o da John Campbell Jr. Tanto è vero che la figura dello «scienziato pazzo», ovvero del tecnarca maniacale e socialmente pericoloso compare con una frequenza non comune e con esisti estetici il più delle volte convincenti. Curioso, poi, come in buona parte dei racconti persista una certa, indistruttibile tendenza al «bello scrivere», con risultati inevitabilmente comici per il lettore italiano contemporaneo. Eppure un dubbio, un fremito, un sentimento oscuro ci ha colti e pervasi: tra la lingua «preziosa» e talvolta ridondante degli autori delle Aeronavi e l’italiano sterilizzato dei traduttori al quale fanno inevitabilmente riferimento i giovani autori italiani non ci sarà forse, oltre che la naturale evoluzione della lingua, una rottura innaturale, una separazione traumatica dovuta alle vicende storiche del nostro paese?


    Il vero e la sua ombra ospita probabilmente uno tra i migliori racconti fantastici scritti in lingua italiana: L’alfier nero di Arrigo Boito, un esempio davvero affascinante di come, nell’ambito di un testo breve, si possano far coesistere e sviluppare temi come la follia, la passione politica e civile e la suggestione del fantastico. Arrigo Boito, per chi avesse dimenticato la Storia del Risorgimento, è stato uno dei Mille e nel suo racconto emergono con tutta evidenza le caratteristiche cosmopolite e libertarie dei radicali italiani di metà Ottocento, caratteristiche che, in questa Italia del terzo millennio, aggredita da rielaborazioni clerico-fasciste e pseudolegittimiste, assumono un rilievo del tutto nuovo.

    Chiusa la parentesi polemica, veniamo all’antologia. Tesi del curatore è che con l’avvento del futurismo e, più in generale, con lo sviluppo di una letteratura più direttamente legata alla coscienza e alla percezione siano venuti meno i motivi dell’esclusione del fantastico dalla nostra tradizione letteraria. Lattarulo presenta questa evoluzione con un racconto di Giovanni Papini, Due immagini in una vasca, dove «un fantastico non più “dualistico” […] universalizzandosi tende a risolversi nell’assurdo».
    Osservazione penetrante se si pensa che è soprattutto attraverso l’assurdo che la narrativa fantastica italiana ha trovato spazio e popolarità in Italia. Basti pensare a un autore come Buzzati eccellente narratore di incubi e, ancor più, di ossessioni saldamente legate alla vita quotidiana (anche se non troppo apprezzato in sede accademica).

    Arrigo Boito

    L’antologia curata da Lattarulo è organizzata in forma cronologica, a partire da Il sotterraneo di Porta Nuova, di Giovan Battista Bazzoni, 1832, fino a La Donna ideale di Nicola Moscardelli, 1930. Un secolo di letteratura fantastica dove incontrare, a parte il già citato Arrigo Boito, Igino Ugo Tarchetti, esponente della Scapigliatura e autore di un racconto, Un osso di morto, esempio rarissimo di humour nero nazionale. O Camillo Boito, l’autore di Senso, presente con il racconto Macchia grigia (1877) nitido, ossessivo, persino crudo, scritto – secondo la tradizione del gotico – in prima persona e seguendo una scansione invertita, ossia ricostruendo a posteriori la vicenda che ha definitivamente distrutto la vita del protagonista. Più vicino alla tradizione umoristica e grottesca del fantastico italiano, quella che si incarna in primo luogo in Pinocchio e più di recente nella trilogia dei Nostri Antenati di Italo Calvino, il racconto Il folletto nello specchio, di Antonio Fogazzaro (1889), L’Invitata di Remigio Zena (1895) o Il diavolo alla festa, di Enrico Annibale Butti (1905). Quest’ultimo, in particolare, mette in scena un Satana ballerino eccelso e gran fumatore in tutto degno, per umorismo e originalità, dei numerosi confratelli narrati nel corso del Novecento. Il racconto di Scipio Slataper, Il professor Ausserleben e la sua anima (1911), apologo del solipsismo scientifico, potrebbe figurare senza difficoltà anche nell’antologia curata da De Turris, come pure il racconto di Emilio Salgari, Il vascello maledetto, dove, come ne Il Castello dei Carpazi di Jules Verne, una spiegazione rigorosamente scientifica riconduce al reale una cupa vicenda di fantasmi marittimi.

    A concludere, non solo simbolicamente, l’antologia una bozza di sceneggiatura di Gabriele D’Annunzio, L’uomo che rubò la Gioconda, testo terminato (o perlomeno così pretende la firma in calce) a Fiume nel 1920. Si tratta più che di una sceneggiatura, di una traccia per un film possibile, ovvero, come recitava una presentazione di cinquant’anni fa: «di una forma di visione cinematografica».


    Di Gabriele D’Annunzio, eccellente manipolatore della lingua, si può qui ammirare la capacità (sublime) di enfatizzare un testo povero e convenzionale, ricchissimo di immagini e situazioni viete e retoriche fino a farne un testo in qualche modo definitivo, inappellabile e inconfondibile. Una capacità, anzi un dono, che solo di recente è riapparso nella letteratura italiana – sia pure con una caratura di gran lunga inferiore – nei testi di Alessandro Baricco, caratterizzati da altrettale gonfiore enfatico e magniloquente, da un uso temerario della paratassi e da un’allarmante assenza di contenuti e personaggi. Fortunatamente, comunque, Baricco non ha reputato necessario andare a redimere la Dalmazia ma si è limitato a fondare la Scuola Holden.

    Da Salgari a Baricco siamo così ritornati nelle acque calme, forse fin troppo calme, della narrativa italiana contemporanea.
    Una narrativa dove il fantastico, genere che richiede comunque l’uso e la conoscenza di strumenti e tecniche narrative raffinate, attraversa un momento decisamente oscuro. Divenuto rarissimo il testo metaforico, venuta meno la narrativa «psicologica» – definizione vaga e orripilante per indicare quel genere di narrazione che si inoltra tra flussi di coscienza e riflessioni non narcisistiche –, il grottesco degradato a commedia all’italiana, tuttora carsica la fantascienza, l’horror ricalcato a piacere sul modello di Stephen King, non resta al lettore che accontentarsi del testo giovanile – autobiografico, sia pure reinterpretato secondo molteplici sottostili, birignao e innovazioni puramente formali, o fantasy, declinato secondo i modelli più ortodossi – o di un certo testo «femminile» (biografico / autobiografico / scherzoso / autoparodistico / disincantato / deluso o appassionato) del quale non si deve parlar male per political correctness, del polpettone storico Echiano o, ancora, del testo d’Autore con recensione prefissata, ricco dell’acuta e dolorosa coscienza della crisi definitiva del narrare.
    Di fronte a un panorama tanto ovvio, sia pure illuminato a tratti da qualche opera e qualche autore fuori da questi schemi fissi, invitiamo volentieri a ricercare e leggere queste due antologie, anche per reincontrare un piacere del racconto divenuto ormai raro. Un piacere del racconto e del narrare sia pure pagato con qualche ingenuità, ma che suona imprevisto e ormai poco familiare alle nostre orecchie.

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