Noi europei abbiamo per la maggior parte un’idea piuttosto vaga del teatro di guerra asiatico nel corso della Seconda guerra mondiale. Ignoriamo la situazione internazionale che la precedette e la determinò e non abbiamo per nulla chiara la successione degli eventi.
Pearl Harbor, Okinawa, i kamikazee la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki sono i capisaldi della nostre nozioni in proposito, molto spesso basate esclusivamente sulla produzione cinematografica americana. Il fatto che l’aggressione agli Stati Uniti sia venuta quando già era in corso da qualche anno una guerra cino-giapponese con centinaia di migliaia di morti, feriti, profughi e vittime di bombardamenti è un elemento che spesso ci è ignoto. Questo ci impedisce di cogliere alcune specificità tipiche del fascismo espansionista giapponese, esattamente come ci nasconde alcuni elementi fondamentali dello sviluppo politico della Cina e dell’intera area del Sud-Est asiatico.
Per cogliere qualche elemento di comprensione delle radici ideologiche del fascismo nipponico può risultare prezioso il volume pubblicato da Bruno Mondadori La vera storia dei Kamikaze giapponesi di Eimko Ohnuki-Tierney, dal quale ho tratto questa lunga e interessante citazione:
Per quanto abbia commesso molte atrocità verso altri popoli asiatici, per esempio il massacro di Nanchino e la marcia della morte di Bataan, lo stato fascista giapponese non si impegnò in una sistematica trasformazione delle minoranze in capri espiatori come fecero i nazisti. Il regime concesse invece alle minoranze e alle popolazioni colonizzate «il privilegio» di diventare «giapponesi», cioè li mandò tutti alla guerra, concedendo loro un uguale diritto alla morte. […] Lo stato, per perseguire i fini espansionistici del Giappone imperiale, risolse il problema di conservare la purezza primordiale dei «giapponesi» estendendo l’anima giapponese (yamato damashii) a tutti.
Un elemento di rilievo della Weltanschauung fascista nipponica che permette di comprendere, senza fare riferimento a categorie «romantiche» o «umanitarie», le differenze di status e le possibilità di sopravvivenza per i prigionieri dei campi di concentramento giapponesi, senza farsi fuorviare dal troppo facile paragone con i campi di sterminio nazisti.
I due libri che presento nella prima parte di questo articolo affrontano, l’uno in forma di romanzo d’invenzione, l’altro di memoria, il tema della guerra e della prigionia in Estremo Oriente in un arco di anni che va dal 1937 al 1945.
Nanchino 1937 di Ye Zhaoyan è in apparenza la storia di un amore tormentato e «impossibile» tra Ding Wenyu, docente universitario cosmopolita, donnaiolo e viveur, figlio di un banchiere di Shangai, e Yu Yuyuan, militare ventenne di ottima famiglia, appena diventata moglie di Yu Kerun, ardito pilota militare della neonata aviazione da guerra cinese. Ding Wenyu, vero protagonista del romanzo, è un eccellente poliglotta, un uomo colto, ricco di interessi e di curiosità ma anche pieno di manie e di fissazioni sconvenienti. Tra queste l’assoluta incapacità di calcolare le conseguenze di un gesto o di una frase e un’impulsività da ventenne. Infatti si innamora di Yu Yuyuan senza minimamente curarsi della sua condizione di donna sposata, né, tantomeno, della circostanza che lui stesso è sposato alla figlia di un magnate dell’acciaio, un matrimonio organizzato e combinato dalle rispettive famiglie.
Le vicissitudini e gli espedienti d’amore di Ding Wenyu, la sua ostinazione ridicola e irritante nell’indirizzare centinaia di lettere d’amore a una recalcitrante Yu Yuyuan, formano l’intreccio del libro, condotto con rara e sorprendente abilità nel cogliere e illustrare anche i più piccoli elementi della psicologia della vita quotidiana, creando personaggi vivi e animati e momenti rivelatori della vita cinese di quegli anni. Una sorprendente ironia che non scivola mai nel sarcasmo accompagna le manovre di Ding Wenyu e le resistenze di Yu Yuyuan. Ye Zhaoyan accompagna la tormentata vicenda del loro amore con distacco, lo stesso che dedica a illustrare la vita politica e sociale della capitale della Cina nazionalista, un distacco pudicamente doloroso che trova ragione nella situazione internazionale del 1937. L’aggressivo imperialismo giapponese minaccia il fragile colosso cinese, gli incidenti di frontiera, le provocazioni, gli attacchi si susseguono. La Cina dell’epoca, allora solo di recente arrivata a una modernità più desiderata che reale, oscilla tra improvvisi e volenterosi soprassalti di nazionalismo e il desiderio di trovare a tutti i costi un accordo col prepotente vicino. L’aggravarsi della crisi alle frontiere, il definitivo tracollo della situazione e la criminale aggressione giapponese sono lo sfondo agli sviluppi del rapporto tra Ding Wenyu e Yu Yuyuan e il contrasto tra il piccolo mondo dei sentimenti e il sinistro succedersi degli eventi nel più vasto universo politico crea una tensione ideale per rendere con sorprendente chiarezza la crudeltà e la barbarie del bombardamento delle città, il massacro dei profughi, la distruzione dell’esercito cinese, di gran lunga inferiore all’armata imperiale nipponica per armamento e capacità bellica.
La storia d’amore di Ding Wenyu e di Yu Yuyaun diviene così una delle tante piccole quotidiane vicende di un’esistenza che, nonostante tutto, si sforza di conservare affetti, sentimenti e normalità. Una storia che non ha nulla di esemplare o di meraviglioso ma è soltanto umana. Qui, probabilmente, sta la sua pudica bellezza.
C’è qualcosa di intollerabile nel ricordare la Nanchino del 1937. Per gli abitanti della città non esiste nulla di più crudele nella loro storia, dello sconvolgente grande massacro di Nanchino. Secondo quanto riportato dai documenti storici, in quell’enorme catastrofe simile a un incubo furono uccisi più di trecentocinquantamila cinesi e avvennero circa ventimila stupri. […] L’amore in tempo di guerra è una cosa alquanto ridicola e assurda: spesso, in quel contesto, appare comico. Tuttavia se in tutti i cuori l’amore esistesse davvero, forse non ci sarebbero guerre.
Giapponesi entrano a Nanchino, capitale di Chang Kai-shek
A rendere sinistramente vicino alle nostre più recenti esperienze il massacro di Nanchino è il numero di stupri attuati dall’armata giapponese, un numero troppo elevato per essere soltanto il risultato dello sfogo di maschi tenuti troppo a lungo in una situazione di privazione sessuale. Lo stupro sistematico è il frutto di una concezione salvifica del proprio ruolo di fondatori e costruttori di una nuova identità. Probabilmente tipica della concezione del mondo del fascismo giapponese ma che curiosamente ritorna nelle molto più vicine gesta della milizie serbe. Una risonanza che richiama alla mente talune teorie novecentesche relative alla superiorità spirituale, figlie di un fascismo idealista non ancora sufficientemente compreso.
Dopo un romanzo un’esperienza reale, raccontata da Clara Olink Kelly, ne L’albero dai fiori rossi, Adelphi, trad. di Paolo Silvestri.
Clara ha quattro anni quando i giapponesi giungono a Giava e la occupano, spazzando via senza troppe difficoltà la resistenza delle truppe coloniali olandesi. Il padre di Clara, funzionario coloniale di un’impresa dei Paesi Bassi, viene presto reclutato e spedito in Birmania a collaborare alla costruzione di infrastrutture per gli occupanti, mentre il resto della famiglia dopo qualche mese verrà spedito in «uno dei campi di concentramento ricavati dalla recinzione di interi quartieri».
Qui Clara, la madre, il fratello più grande e il fratellino appena nato dovranno ingegnarsi a sopravvivere alla malnutrizione, ai maltrattamenti delle guardie del campo e al tenko – l’appello – che poteva durare anche ore, ore nelle quali le prigioniere malnutrite e i loro figli dovevano rimanere in piedi immobili sotto il micidiale sole dei tropici.
Nati e cresciuti nell’ambiente felice e irreale di un colonialismo commerciale, più paternalista che feroce, Clara e i suoi dovranno abituarsi alle piccole e grandi meschinità di chi tenta di sopravvivere a danno dei propri compagni di sventura, agli arbitri e alle crudeltà gratuite di un comandante del campo psicopatico, alla brutalità annoiata delle guardie, al lavoro pesante e intollerabile per donne e bambini denutriti e ammalati. Una situazione che si aggrava di giorno in giorno con il profilarsi della sconfitta dell’armata imperiale giapponese.
La fuga dei guardiani segna la fine della prigionia, ma il ritorno in patria per Clara e i suoi fratelli si rivelerà un’ulteriore non facile prova da superare.
A emergere con forza ne L’albero dai fiori rossi è l’immagine della madre di Clara, capace non solo di fatiche e rinunce, sotterfugi e rischi per mantenere sani e puliti i propri figli, tra i quali uno nato soltanto poche settimane prima dell’internamento, ma anche di sforzarsi di dar loro un minimo di istruzione senza mai cedere alla fatica e alla paura, in modo da mantenere viva la speranza.
Un eroismo che non si consumava in un unico gesto temerario ma che doveva trovare le risorse per rinnovarsi ogni giorno per quattro lunghissimi anni, in una condizione di stanchezza estrema, di pericolo, costrizione e malattia. Un genere di eroismo che è doloroso immaginare e soprattutto è difficile descrivere.
Il libro è nato come omaggio di Clara alla propria madre ma anche, dichiaratamente, come presa di posizione politica contro i crimini commessi dall’amministrazione giapponese nei territori occupati, crimini di guerra che, come è accaduto anche in Germania e in Italia, sono stati troppo rapidamente rimossi in nome della causa comune contro il nuovo nemico: il comunismo sovietico. Ed è forse questo l’elemento che finisce per colpire di più il lettore: l’evidente assenza di una giustizia capace di punire i colpevoli e i complici senza addossare indistintamente (e inutilmente) a un intero popolo le responsabilità di crimini e orrori.
I crimini senza colpevole possono essere rimossi ma non cancellati. E la loro ombra non finisce mai di proiettarsi sul mondo.
Zhaoyan Ye, Nanchino 1937. Una storia d’amore, Rizzoli, 2003, pp. 409, € 17,00, Trad. Pesaro Nicoletta
Clara Olink Kelly, L’albero dai fiori rossi, Adelphi, 2003, pp. 187, € 15,00, Trad. Paolo Silvestri