Frank Westerman
Ingegneri di anime
Feltrinelli
€ 22,00
trad. F. Paris
Quale rapporto esiste, sempre che esista, tra ingegneria e letteratura?
Nessuno, in apparenza.
Eppure l’ingegneria, e in particolare quella branca dell’ingegneria che si occupa delle cosiddette «Grandi opere» ha una grandissima rilevanza non soltanto politica – basterà ricordare certi «contratti» e mirabolanti promesse di mostri architettonici di un recente governo? – ma anche, come racconta l’ingegnere idraulico olandese Frank Westerman, letteraria.
Il punto di partenza del suo itinerario – insieme storico, letterario e scientifico – è la frase: «Più sono colossali i progetti idraulici intrapresi da un potere statale, più sono dispotici i suoi governanti». Una semplice ipotesi o realtà probabile e provata?
Amante della storia e della cultura russa, Westerman si dedicò allo studio dei grandi progetti di canalizzazione dei fiumi russi attuati o progettati da Stalin negli anni Trenta. E da questi il passaggio al milieau culturale che li rese possibili, legittimi e desiderabili il passo è molto breve.
Il despota Stalin, come tutti gli autocrati, aveva bisogno di giullari, cantori e creatori di miti, ma il rapporto che venne a crearsi tra gli scrittori «proletari» della Russia Sovietica e i deliri di grandezza del regime non fu in realtà lineare o univoco come crediamo.
Kara-Bugaz è il titolo di un romanzo di Konstantin Paustovskij, pubblicato nel 1932, ma è anche il nome di un golfo del Mar Caspio, una vastissima laguna ricca di solfato di sodio, «materia prima indispensabile per l’industria del vetro e della carta, le concerie e le fabbriche di concime». Un bene di importanza strategica, tanto che Westerman non riuscì a rintracciarlo in una carta dell’URSS successiva al 1932:
E se i cartografi sovietici erano stati capaci di spostare intere catene montuose in Crimea per mascherare l’ubicazione di un porto di sottomarini, la cancellazione di un intero golfo era certo da far rientrare nel novero delle possibilità.
Per Westerman il «golfo scomparso» diviene così il filo rosso intorno al quale organizzare il suo testo. Ricostruendo la figura di Maksim Gor´kij che
Non era solamente il presidente della potente Unione degli scrittori sovietici, creata da Stalin negli anni Trenta […]. Grazie a borse di studio e a sussidi destinati ai viaggi, finanziava ora l’uno ora l’altro dei talenti letterari, sottoponendoli nel contempo al filtro della sua critica.
E se il programma di Stalin per il mondo letterario si poteva riassumere con la frase: «Voi scrittori siete ingegneri di anime», il programma per i fiumi e le acque delle Repubbliche Sovietiche avrebbe dovuto essere altrettanto grandioso e definitivo.
Stalin vuole fare di Mosca un porto di mare […] ha decretato che la flotta mercantile deve avere la possibilità di salpare da Mosca alla volta di tutte le direzioni della rosa dei venti: verso il Mar Baltico, il Mar Bianco, il Mar Nero e il Mar Caspio.
Gli scrittori e le loro opere debbono essere testimoni e alfieri di questa «seconda rivoluzione» che renderà definitivamente l’Uomo nuovo sovietico padrone della natura e della storia.
Ed ecco saldarsi l’ingegneria – figlia della scienza – e la letteratura, entrambe protese verso il Futuro, entrambe strumento e scopo della vita umana.
Non è facile ripercorrere i passaggi logici che conducono alla definizione del grandioso «modello sovietico». Nulla di più sbagliato (o, peggio, inutile) che un approccio basato sull’analisi del «grado di democrazia». Fonte primaria della legittimazione del comunismo sovietico (ma anche, a ben guardare, del nazismo e del fascismo italiano) è stata la mobilitazione verso il futuro, l’adesione a un disegno di palingenesi morale e sociale.
Le repubbliche sovietiche degli anni Trenta furono l’oggetto di un grandioso (e delirante) progetto nato dall’incontro tra l’ideologia comunista, il positivismo, il populismo pauperista di matrice cristiana e il nazionalismo russo. Che il progetto di Nuova Storia fosse poi costretto a scendere a patti con la realtà di carestie, sofferenze, stermini, deportazioni, delazione, tradimento e corruzione non è materia di scrittura né di racconto. Lo scrittore è chiamato a «guardare avanti», a misurarsi con la necessità del «riscatto» delle plebi russe.
Il contrasto tra realtà e sogno, tra utopia e vita quotidiana diviene così stridente oltre ogni possibile misura, tanto da assumere un profilo francamente allucinante. Gli ingegneri sovietici, sospinti da un’ideologia totale, ignorano la realtà sociale – oltre che in molti casi anche quella geologica – dei luoghi scelti per le loro opere e sovrappongono al dettaglio del reale le cartografie dell’immaginario stalinista. E non diversamente da loro gli scrittori di quegli anni narrano di eroi popolari capaci di condurre intere comunità fuori dal recinto di antiche povertà verso una nuova vita, attraverso il lavoro per nuove mirabolanti realizzazioni.
La letteratura regala motivazioni e sogni all’ingegneria che, a sua volta, le fornisce nuovi spunti epici, creando un ciclo che soltanto la realtà può incaricarsi di fermare.
Proprio ciò che avvenne quando molti progetti incontrarono crescenti difficoltà, tanto da dover essere abbandonati o radicalmente ridimensionati, mentre il sospetto e la delazione – puntualmente raccontate da Westerman – decimavano le fila degli «scrittori proletari», gradualmente ridotti al silenzio e alla miseria.
Natura e storia insieme si ribellano al delirio sovietico e non resta altro che un regime chiuso, oscuro e sanguinario, non troppo lontano dai modelli di autocrazia orientale che hanno prosperato in Asia per millenni. La sconfitta dell’Uomo Nuovo è anche la sconfitta definitiva del comunismo storico e reale.
Generoso, anche se talvolta dispersivo o eccessivamente ambizioso, il libro di Westerman si rivela, come molti «libri di confine», raro e prezioso, capace di innescare nuove riflessioni e aprire inaspettati punti di vista a chi voglia riflettere sul rapporto tra letteratura e ideologia, come anche, semplicemente, per chi non si accontenti dell’ennesimo Libro Nero del Comunismo.
Personalmente, da amante dell’«arte per l’arte», come l’avrebbe sprezzantemente definita Maksim Gor´kij, ne ho tratto ulteriore conferma alle mia intolleranza verso ogni forma di canone artistico e di valutazione della narrativa sotto un profilo «didattico». Quanto basta per rendermi soddisfatto e appagato di questa lettura.