Grazie, Bram. F.P.]
Bram Stoker
A paragone col Novecento e i suoi mostri dilagati a oggetto d’industria e fenomeno di costume (o magari gerarchi di regime, ma questo è un altro discorso), le fantasie teratologiche del secolo precedente appaiono senz’altro più parche – forse più per i limiti dei mass mediadell’epoca che per un’oggettiva minore richiesta (come del resto testimonia il successo di certi mostri popolari a puntate, si pensi a Varney the Vampyre; or, The Feast of Blood, del 1845-1847). Certo, per gli autori «nobili» dell’Ottocento, il mostro costituiva – etimologicamente – una rarità impressionante da giocare con studiata efficacia, in vario rapporto con mostruosità morali, tutte umane, non meno disturbanti: e in generale spettri, doppelgängere demoni già fornivano un ricco bacino di risorse narrative. La teratologia sovrannaturalistica poteva vantare il successo dei vampiri e, in minor misura, dei licantropi, ma il brulicante bestiario novecentesco (fino ai Gormiti da edicola) era ancora lontano. E d’altra parte proprio nell’Ottocento sorsero o trovarono statuto moderno alcune maschere teratologiche fondamentali, che continuano a interpellare la nostra fantasia: e non stupisce che i nomi dei creatori (o piuttosto evocatori) di tali figure mitiche ne siano stati in qualche modo divorati.
È difficile, per esempio, pensare al nome di Mary Shelley (1797-1851) senza definirla «autrice dell’indimenticabile Frankenstein», come nella terza di copertina di un volume 2006 edito da La Tartaruga, e che sotto il titolo Metamorfosi. Racconti gotici raccoglie tre interessanti novelle dell’Autrice tradotte da Masolino d’Amico. Gli sfondi sono appunto quelli del gotico classico: anzitutto l’Italia medioevale, più precisamente una Liguria tra bufera romantica e idillio, legata per la scrittrice inglese a un tessuto di forti emozioni (pensiamo alla tragica fine del marito, il poeta Percy Bysshe Shelley, proprio in quel mare); poi la Germania dei maghi rinascimentali, e in ultimo la pittoresca Grecia. D’altro canto il titolo, derivato dal primo racconto, evidenzia una chiave di lettura più generale: tutte le tre storie parlano infatti di mutazioni, fisiche e soprattutto interiori, ma sempre volte a plasmare i connotati dei personaggi come l’imprudente Victor con la carne del suo golem. Così nella novella Metamorfosil’apparizione allucinatoria di un nano deforme con cui il protagonista Guido scambia temporaneamente il corpo (e che sotto l’apparenza demoniaca potrebbe essere uno spirito buono, o piuttosto il doppio fisico di una bruttezza morale alla Dorian Gray) non è molto lontana dai giochi di doppi e di corpi del Frankenstein– enfatizzati dal cinema fino all’esilarante scambio di potenza sessuale in Frankenstein junior. E d’altra parte il motivo di maggiore originalità della novella sta forse nella cifra equivoca, misteriosa, della vicenda di Guido – che al di là delle ipotesi abbozzate, da lui o dal confessore, e da un lieto fine abbastanza consueto (anche al gotico) resta senza spiegazioni certe e lascia un segno nel pallore sulla guancia, ennesimo stigma corporeo dagli abissi dello spirito.
L’ombra del maggiore romanzo torna anche nel secondo testo, Il mortale immortale, che non solo vede in scena una sorta di apprendista stregone, sia pure involontario, ma persino quel Cornelio Agrippa citato nel Frankensteincome autore venerato da Victor, e la figura di una donna amata vittima (in qualche modo) dell’alchimia del partner. Fino a farsi mostro ella stessa: l’immagine di Bertha invecchiata e inacidita che si abbrutisce in belletti e panni da ragazzina è in fondo speculare a quella di un compagno che resta innaturalmente – e dunque mostruosamente – giovane. Anche il finale, con la scelta del protagonista Winzy di affrontare «le forze del gelo nella loro dimora» per mettere definitivamente alla prova la propria immortalità richiama agli esiti polari del Frankenstein. Ma Mary Shelley non si consuma nel romanzo più noto, e anche in questo caso offre spunti interessanti e originali – a partire proprio dalla figura problematica e umanissima di Bertha, che nelle poche pagine concessele si svela una tra le più suggestive e patetiche della storia del gotico. E in parallelo alla cifra enigmatica dei fatti del primo racconto, anche qui l’aspetto fantastico più provocatorio sta nel finale virtualmente aperto: non tanto cioè nella drammatica bizzarria di una sopravvivenza eccessiva, quanto nel rovello (e timore) di Winzy che si tratti davvero d’immortalità.
Ma l’abilità di sceneggiatrice di Mary Shelley emerge pienamente nell’ultimo racconto, Il malocchio. Qui l’elemento sovrannaturalistico si razionalizza nelle voci superstiziose circa lo sguardo dardeggiante dell’eroe nero Dmitri (appunto) dal Malocchio e le temute trasformazioni dei morti in vampiri: e un tessuto che in altre mani si sarebbe arenato nel melodramma greve o nel gioco estenuatamente esotico da favoletta etnologica (a beneficio, ovviamente, del civilepubblico inglese) evolve in una storia incalzante e senza sbavature. Certo, c’è il genere – occhi dardeggianti, eroi maledetti, una Grecia di banditi e storie di morti inquieti (inevitabile è il richiamo all’episodio ellenico di The Vampyre di Polidori, 1819, legato alla famosa vacanza svizzera del ’16 con Mary, il partner Shelley e Lord Byron) – ma l’Autrice non ne rimane prigioniera. E come nei migliori racconti d’avventure (inseguimenti, struggimenti, scontri a fuoco, agnizioni) coinvolge sempre più il lettore.
Il pregio della proposta editoriale e la bontà della traduzione, con note in calce e una sintetica Nota biografica al fondo, non sono purtroppo accompagnati da altri elementi fondamentali, cioè i titoli originali (ne è riportato solo uno complessivo, Transformation) e le datazioni dei testi, almeno delle prime pubblicazioni. Per un quadro più completo si può rinviare per esempio a Mary Shelley. Collected tales and stories with original engravings, a cura di Charles E. Robinson, The John Hopkins University Press, Baltimore and London 1976, che permette di accostare alle tre novelle citate una panoramica di parecchie altre, con un ricco corredo di informazioni. Mentre sull’opera più nota – o meglio sugli sviluppi derivati nelle riletture cinematografiche – occorre almeno menzionare la recente uscita di un vivace saggio di Alvise Barbaro, Frankenstein. Un mostro di celluloide tra horror e parodia, per i tipi di Costa & Nolan, Milano 2006.
Meno estremo è forse il rapporto che lega Joseph Sheridan Le Fanu (1814-1873) alla sua creatura più nota, la vampira Carmilla – anche se in effetti, presso un ampio pubblico, il nome dell’autore irlandese è sbiaditamente (e impropriamente) associato a pellicole scollacciate su succhiasangue lesbiche. Le edizioni degli ultimi decenni, anche in Italia, hanno permesso di apprezzare in Le Fanu il principale cantore di spettri dell’Ottocento di lingua inglese – e non solo attraverso la più nota raccolta In a Glass Darkly, 1872, in cui lo stesso romanzo breve Carmillafu incastonato; e se a oggi manca un’edizione italiana completa dei racconti (o almeno virtualmente completa, data l’impossibilità di mapparne in totola produzione dispersa su riviste) è comunque possibile farsi un’idea complessiva di temi e suggestioni fondamentali, in larga parte legati al folklore angloirlandese e alle storie di fantasmi lì fermentate. A ben vedere la stessa vicenda di Carmilla rappresenta una ghost storydi confine (anche sul piano geografico), e nell’ambiguità del personaggio è compresa una dimensione spettrale, fantasmatica e inafferrabile sopravvissuta persino al cinema in una certa libertà dagli stereotipi vampireschi.
In particolare nei testi lefanuiani più celebri e maturi, spettri e doppelgängersorgono dall’indecidibile confine tra psiche e oltretomba, e si presentano omologhi a una più ampia visione narrativa ed esistenziale fitta di doppi e duplicazioni – una realtà ambigua di cui l’ineffabile erudito Martin Hesselius, figura-cornice dei casi di In a Glass Darkly, discetta con speculazioni sugli osmotici acciacchi del corpo e dello spirito. Nella stessa raccolta, nel racconto Tè verde, il povero reverendo Jennings – vittima di uno scimmiotto demoniaco – mostra un «volto teso e dolente che riluceva d’un riverbero strano, come un ritratto di Schalken, su uno sfondo di tenebra» (traduzione di Attilio Brilli per Tè verde. Storie di fantasmi indiscreti, Serra e Riva, Milano 1981, pag. 42): e la citazione dell’immaginario pittore ha sapore descrittivo e insieme di gioco, in riferimento al protagonista di un altro racconto lefanuiano, appunto Il pittore Schalken, ora presente in una nuova edizione tascabile per Costa & Nolan, Il destino di sir Robert Ardagh e altre storie del soprannaturale. Anche la storia di Schalken, in effetti, è una ghost story atipica, sia per lo sfondo geografico fiammingo, sia per il tenebroso personaggio che turba il pittore – plausibilmente un non-morto, forse un cadavere invasato dal demonio. Eppure lo spiacevole Minheer Vanderhausen di Rotterdam che sembra penetrare nel tessuto della realtà lacerato dalla doppia imprecazione del protagonista (contro i diavoli e contro il sant’Antonio di uno schizzo malriuscito – dunque una sfida e una bestemmia) non costituisce forse la presenza più inquietante; e il disagio fluisce in modo diretto dalle enigmatiche oscurità dei fatti. Come ha scritto Guido Almansi nella Prefazione alla citata edizione di Tè verde, Le Fanu «è troppo furbo per credere agli esseri soprannaturali, troppo intelligente per non credervi» (pag. 12), e l’eleganza dello stile, la padronanza del gioco tra naturalità travisata e incongrua sovrannaturalità restano straordinariamente godibili anche in testi già proposti (come appunto Il pittore Schalken) in diverse edizioni recenti nella nostra lingua.
Banshee
Più emblematici della «classica» produzione lefanuiana nutrita di folklore irlandese e inaffidabile chiacchiericcio di comari sono altri testi della stessa raccolta: a partire dal primo, Il destino di sir Robert Ardagh, presentato come «Secondo estratto dal manoscritto del defunto padre Purcell», cioè una seconda figura di collezionista di storie fantastiche – un bonario ecclesiastico, molto diverso dal supponente Hesselius. Qui il gioco di duplicazioni e ambiguità investe insieme la struttura del racconto e il protagonista, costruendo un brillante dittico che alla vicenda tenebrosa del Robert Ardagh leggendariofa seguire, in una seconda parte, quella dell’omonimo personaggio (virtuamente) storico. La seconda vicenda dovrebbe aver ispirato la prima, che però, come in uno specchio oscuro, ne fornirebbe un’interpretazione – e gioca a sviare dalle possibili spiegazioni razionali. Nonostante fin dall’inizio (di ciascuna parte) il lettore sospetti come i fatti precipiteranno, l’abilità di Le Fanu nel dominare in punta di penna atmosfere e trasalimenti rende il racconto una festa narrativa non solo per il cultore del brivido.
Dagli oscuri commerci di sir Robert la suggestione folklorica conduce poi alle Storie di spettri a Chapelizod, un bel trittico avviato con l’esilarante proposta di una Commissione parlamentare di inchiesta sulle entità sovrannaturali del territorio; e infatti il connettivo-cornice non è fornito da un raccoglitore esplicito come Purcell o Hesselius ma dal luogo stesso, un villaggio in decadenza lungo la strada per Dublino. Dal più ampio corpo delle sue memorie fermentano come bolle inafferrabili i racconti sulla punizione spettrale di un violento, il (possibile) scampato pericolo di un sacrestano ciarliero e lo strano incontro di un ubriacone, a ideale matrice per infinite epopee di villaggi del fantastico popolare – una Spoon River di testimoni ormai tumulati nel piccolo cimitero locale, in cui la voce del passato costituisce in fondo l’unico fantasma sicuro.
Ma nel racconto che segue, Storie di fantasmi di Tiled House, Le Fanu si diverte a complicare le cose, e smonta il meccanismo di Chapelizodin un disordine apparente – frutto in realtà di studiata eleganza narrativa. Formalmente si tratta stavolta di un dittico, strutturato ancora come il Robert Ardagh: la parte I, col racconto della vecchia Sally alla padroncina Lilias che desidera qualche brivido serale, introduce storie sparse di paura sulla vecchia Tiled House, che però la parte II gioca a derubricare a favole, prendendo a narrare una veravicenda. Il fatto è che la bizzarra cronaca (1753) sulla mano fantasma che causerà addirittura una controversia giuridica e riguarda la famiglia Prosser – impossibile pensare che Wilde non l’avesse in mente nell’evocare il suo spettro di Canterville – sembra si colleghi proprio con una parte dei racconti di Sally; e la menzione dell’ultima pagina su un (altro?) Prosser vittima di un fantasma, collegato a «una vecchia casa vicino a Chapelizod», pone al lettore una serie di problemi. Tiled House è, paradigmaticamente, la casa degli spettri, di tuttigli spettri possibili nella loro realtà frantumata ed equivoca – una realtà che, tuttavia, è a sua volta specchio delle narrazioni frantumate ed equivoche (per i più vari motivi) e delle fisime stesse di chi racconta, come Le Fanu sottolinea alla fine. Così il narratore, che ha (dichiaratamente) «una certa età» non appare più credibile della vecchia Sally, e il gioco di «prove» confonde e rende inaffidabile più di quanto convinca. Anche il fatto che Tiled House sia vicina a Chapelizod (se poi il riferimento sulla «vecchia casa» va inteso così) richiama l’altro racconto ma insieme mischia le carte: e il lettore che dalla geometria del trittico Chapelizodaveva creduto di trarre una chiave di lettura (problematica, ambigua ma volta a un qualche ordine), ora si sperde tra i frantumi pneumatici che Le Fanu ha imbandito. Come la giovane Lilias nel letto ben caldo, la smarrita ragazzina dell’ultimo testo (Il fantasma di Madam Crowl, quello cioè della megera che per le solite duplicazioni appare prima in un’orrida epifania da viva e in seguito come spirito inquieto) o altre infinite voci narranti femminili della sua produzione, l’Autore gioca a «impazzire di paura»: ma insieme, e modernissimamente, a provocare l’intelligenza dei lettori e la loro capacità di porsi domande. Su un testo infarcito di questioni di affidabilità, allusioni oblique, inabissamenti e risorgive di temi, nomi, suggestioni – ma anche in fondo (e perché no?) sul sabba di spettri della nostra vita quotidiana.
Ma l’ombra del mostro, meno prepotente nell’associazione tra Le Fanu e Carmilla, riemerge con furia nel caso di Bram Stoker (1847-1912) e della sua creatura più nota: e benchè il resto della produzione dell’Autore non sia assente dai cataloghi editoriali (anche italiani), lo scarto tra la fortuna di Draculae quelle degli altri romanzi e racconti appare nettissimo. Se l’epopea del Conte, frutto di anni di ricerche e scrittura, rappresenta il prodigioso precipitato di miti, sogni e angosce del moderno occidente che tutti conosciamo, sarebbe comunque ingiusto sottovalutare le opere «minori»: e a tale proposito merita segnalare la bella raccolta che, nella stessa collana tascabile del precedente volume di Le Fanu, offre novelle inedite (in realtà non tutte) e di valore diseguale. Nella stessa collana e con gli stessi limiti: l’unica presentazione è quella (buona ma minima) della quarta di copertina, e soprattutto mancano datazioni e titoli originali, come se un lettore pronto ad apprezzare la chicca dell’inedito non fosse interessato a simili aspetti per nulla peregrini.
La raccolta comprende cinque testi, tra i quali due piccoli capolavori: e in particolare al terribile racconto finale, Il segreto dell’oro vivo, goticissima storia di villain, vendetta e morte, suona in controcanto il beffardo Le sabbie di Crooken, dove il motivo gotico a base di doppelgänger, profezie allarmanti e geografia dell’estremo (la Scozia dei romantici, ma anche dei vacanzieri) è come ripiegato su se stesso in termini d’ironia nera. Si potrebbe dire che Le sabbie costituisca un racconto anti-gotico, nel senso dell’allegra sovversione dei meccanismi di genere: e tuttavia il rapporto di doppelgänger smascherato alla fine per falso (non si dice di più per non guastare la sorpresa al lettore) svela una paradossale, inquietante autenticità a un diverso livello. Se con Il segretoStoker conferma la propria bravura di sceneggiatore lavorando con modelli tradizionali del gotico (e la scena finale ha una straordinaria potenza), in Le sabbie gioca a smontare gli stessi modelli con ironia quasi wildiana e un esito estremamente originale.
I motivi della profezia inquietante – che in genere in qualche modo viene neutralizzata – e del suo medium onirico corrono in realtà lungo la maggior parte dei racconti presentati, sostenendo anzi in toto la trama degli altri tre più deboli. In La catena del destino la sconfitta dell’antica maledizione avviene nel contesto di una storia d’amore al suo sorgere; ne Il sogno delle mani insanguinate, la prospettiva onirica della condanna ultraterrena di un infelice assassino è virtualmente cancellata dal drammatico riscatto morale; mentre in La profezia della zingara l’evento vaticinato si rivelerà formalmente corretto ma, con sollievo di tutti, infinitamente meno grave. Quello di Stoker è un mondo vittoriano di innamoramenti pilotati o devozioni coniugali messi alla prova da oscure minacce, di religiosità tormentate in cerca di espiazione, di inquietudini e svenimenti: e molto particolare è il racconto iniziale La catena del destino, dove la curiosa struttura (lungo preambolo, lungo finale e un nucleo breve e improbabile) provoca a domandarsi se si tratti d’imperfezione narrativa o non piuttosto dell’involuto, sghembo fluire di un sogno – con risveglio non narrato o non possibile. E dove, in specie, l’epifania spettrale entro il riquadro di una finestra (ancora una volta legata alla dimensione del sogno e della visione) si manifesta con forme ingenue che paiono richiamare al teatro ottocentesco e ai relativi effetti speciali – comodamente gestibili proprio grazie al riparo della cornice. Se il legame di Stoker col mondo teatrale è ben noto, le apparizioni circoscritte in un video da sfondare (come fa il protagonista) per esorcizzare ineluttabili catene dello spirito pare una buona, profetica metafora di un certo rapporto odierno con la realtà mediatica e magari virtuale.
Quanto detto costituisce un semplice abbozzo per la riconsiderazione di narratori troppo spesso nascosti all’ombra delle rispettive creature. E nel segno almeno di una contiguità fantastica piace dedicare le pagine che precedono a due illustri, recenti scomparsi del mondo del cinema, entrambi membri della leggendaria squadra Hammer – lo sceneggiatore Tudor Gates (1930 – 14 gennaio 2007), che da Barbarellapassò a evocare proprio una trilogia Karnstein d’ispirazione lefanuiana, e Freddie Francis (1917 – 17 marzo 2007), regista e grandissimo direttore della fotografia. Senza i fremiti orrifici da loro celebrati – e i loro mostri, ancora una volta – oggi il mondo sarebbe più povero.
Mary Shelley, Metamorfosi. Racconti gotici, trad. di Masolino d’Amico, La Tartaruga edizioni (Baldini Castoldi Dalai) Milano 2006.
Joseph Sheridan Le Fanu, Il destino di sir Robert Ardagh e altre storie del soprannaturale, trad. di Paola Azzolini (Il destino di sir Robert Ardagh), Gian Luca Mestriner (Il pittore Schalken, Storie di fantasmi di Tiled House, Il fantasma di Madam Crowl) e Silvia Roberti Aliotta (Storie di spettri a Chapelizod), Costa & Nolan (Ritmi 109) Milano 2006.
Bram Stoker, La catena del destino e altri racconti inediti, trad. di Alessandra Lanzoni, Costa & Nolan (Ritmi 110) Milano 2006.