Prendete 13 storie. 13 storie veloci, anche se non sempre brevi: piene di ritmo eppure accurate nei dettagli, tanto da darvi la sensazione di essere lì, accanto ai personaggi, nella luce del sole in un ippodromo, o nella calma di un agosto quasi autunnale, o in ristorantino vicino ai mercati generali a guardare una cameriera gradevole ma non più giovane servire – trafelata ma soddisfatta – uomini affamati che vanno di fretta e scherzano con lei per abitudine – o dietro le quinte, in un teatrino di provincia ad assistere alla più strepitosa e inaspettata esibizione di una spogliarellista agée eppure formidabile. I personaggi vi somigliano un po’ forse, provano rimpianti per un futuro che non riusciranno mai a vivere:
«Certo che ce la faremo», disse lei. «È solo l’abitudine, tutto qua […] La compreremo prima di spendere i soldi per qualcos’altro. E ci verremo a vivere». Ma per qualche motivo la sua voce mancava di convinzione. […] Nel silenzio sentì un suono cupo, lamentoso, un suono simile ai rintocchi di una campana. «È meglio che ci muoviamo», disse […].
I loro desideri e le loro ambizioni, per quanto stravaganti, o minuscoli, travalicano le loro possibilità di realizzarli:
Non parlava mai della sua famiglia o della cittadina da cui veniva, ma si capiva che era dell’Ovest, anche se aveva preso un forte accento newyorkese, probabilmente da una di quelle minuscole cittadine con le luci del drugstore sempre accese che si vedono dai finestrini dei pullman.
Le donne non sono quasi mai belle, possiedono un fascino modesto, sufficiente a suscitare l’interesse di uomini che conducono vite altrettanto modeste e lavorano duro:
Non aveva un bel corpo. I polpacci erano grossi e pesanti, e poi era completaente piatta. Sapeva muoversi, camminava come se fosse bella e attraente e ne fosse consapevole […] sorrideva a quelli seduti al bancone. La adoravano tutti.
Si aggrappano a sogni destinati a non avverarsi, vivono fingendo che tutto andrà bene, contano su quel po’ di fortuna che deve pur entrare anche in una vita difficile, mentono a se stessi e a chi amano ma non per crudeltà:
Era ormai un mese che non si vedevano , ma quell’incontro non fu un incontro. Sembrava piuttosto la prosecuzione di una lite che avevano interrotto soltanto qualche minuto prima. «Questa è l’ultima volta», disse lui.
Talvolta hanno fiuto e riescono a sovvertire i pronostici che tutti, a cominciare dai lettori, hanno già fatto su di loro. Talvolta, mossi da impulsi e scrupoli insospettati, compiono atti abbattendo edifici di trame e piccoli inganni con la medesima scrupolosa pazienza con cui li avevano costruiti. Talvolta si limitano a registrare il tempo che passa:
Amy si alza, va allo specchio e si conta le rughe. Poi torna a sedersi, a dondolarsi avanti e indietro mentre guarda fuori dalla finestra e pensa alla sua età. È impossibile comprendere quarantacinque primavere, e la quarantacinquesima sarà un fallimento come le altre.
I tempi sono duri per un sacco gente. Qualcuno, più consapevole lotta e chiede agli altri di lottare per cambiarli. Ma il compito esorbita le forze degli uni e degli altri e parlare di lotta e di rivoluzione diventa un’abitudine, o addirittura una professione.
C’era solo una manciata di persone ad ascoltarlo. Ma lui si rivolgeva agli alberi, al vento e al cielo come se stesse parlando a migliaia di persone […] lo riconobbi da lontano dagli occhialini e dalla sua voce secca, lievemente stridula […] Non mi trattenni a lungo; faceva troppo freddo per restare fermi. Non sono andato a parlargli. Non so neppure se mi avrebbe riconosciuto.
E dopo una vita di lavoro, si sentono relitti lasciati indietro da un mondo che cambia troppo in fretta:
Si sono dimenticati di noi. Tutto quello che sappiamo è inutile […] Si sono dimenticati di noi come ci si dimentica dei vecchi elenchi del telefono, degli almanacchi, delle lampade a gas e di quelle grandi case gialle con i cornicioni e la cupola che costruivano una volta.
E per quanto di personaggi si Cheever siano diversi da noi, lontani nel tempo e nel modo di vedere il mondo, ci somigliano troppo per non seguire i loro frammenti di vita con inquietudine e con riconoscimento.
John Cheever morì nel 1982, con la meritata fama di vincitore di Premi Pulitzer (con cinque novelle) e di autore di alcuni dei racconti brevi più brillanti mai pubblicati. Apprezzatissimo, era stato soprannominato il Cechov dei suburbian. Negli anni seguenti la sua morte, però, biografi più o meno autorizzati, con la collaborazione (piena di buone intenzioni) dei due figli e quella più interessata di amanti occasionali, resero di pubblico dominio particolari scabrosi riguardanti la complessa vita matrimoniale di Cheever, la sua bisessualità e dipendenza da alcool e droghe. Vennero intervistati parenti e amici, pubblicati i corposi diari sulle cui pagine Cheever si macerava in sensi di colpa per la propria sessualità promiscua e commentava malevolmente quella altrui. Pieno di talento e formidabile narratore, non doveva essere semplice da sopportare come marito, padre, amante. Uno psichiatra che lo sostenne durante una terapia contro la dipendenza da alcol, lo descrisse come «un uomo nevrotico, narcisista, egocentrico, senza amici, e così profondamente coinvolto dalle proprie illusioni difensive da inventare una moglie maniaco-depressiva».
Ma fu un grande, talentoso e formidabile narratore, che non smise mai di interrogarsi sul significato e sul percorso della scrittura:
La narrativa è sperimentazione, se cessa di esserlo cessa di essere narrativa […] Cocteau disse che scrivere è una forza della memoria che non viene capita. Io concordo. Raymond Chandler descriveva questo come una linea diretta con il subconscio libri che si amano veramente danno il senso quando li apri per la prima volta di essere stati là. E’ una creazione, quasi come una camera nella memoria. Posti in cui non si è mai stati, cose che non si sono mai viste o sentite, ma la loro forza è così profonda che si è stati là in qualche modo1.
John Gardner lo definì
Uno dei pochi scrittori che si possono definire dei veri artisti. La sua opera spazia da competente a impressionante sotto tutti i punti di vista:padronanza formale e tecnica, educazione dell’intelligenza,quella che chiamo «sincerità artistica» […] e,infine, valore, o quel che Tolstoj chiamava, senza scuse, un rapporto morale corretto dell’artista con il proprio materiale.
John Cheever