Guardate! Voi volete guardare!
Beatevi gli occhi, alimentate la vostra anima
della mia orribile deformità
Gaston Leroux, Il fantasma dell’Opera
L’esibizione pubblica di esseri umani, esemplari «esotici» o individui devianti dalla norma è una pratica profondamente occidentale e positivista, motivata dalla convinzione che la conoscenza possa essere mediata soltanto dallo sguardo, che lo sguardo sia sempre neutrale, indipendente dalla visione del mondo di chi guarda, e che l’occidentale colonizzatore abbia il diritto, conferitogli proprio dalla politica coloniale, di mostrare e/o guardare gli «altri» come oggetti di studio.
Le scienze non furono certo estranee a queste concezioni, anzi l’intenso sviluppo ottocentesco delle «discipline umane» – antropologia, antropometria, etnologia – fu legato a queste forme di spettacolarizzazione da un rapporto di reciproco vantaggio: gli studiosi ne ricavavano occasioni per misurare e osservare i «soggetti» umani e fornivano un imprimatur scientifico agli eventi, premettendone la trasformazione da semplici spettacoli in mostre «educative».
L’esibizione della diversità, il suo rapporto con lo «spirito dei tempi» e il contributo da essa fornita al consolidarsi del pensiero razzista è il tema di un’ampia raccolta di articoli recentemente pubblicata da ombre corte/culture, Zoo umani. Dalla Venere ottentotta ai Reality show, di autori vari, a cura di S. Lemaire, P. Blanchard, N. Bancel, G. Boetsch, É. Deroo[delle citazioni, che appartengono tutte al testo, non vengono indicati i singoli autori, N.d.R.].
La messa in scena di «altri» – individui di «razze» differenti, devianti dalla norma («nani», «giganti»), individui «tarati» o malati – spesso accanto ad animali rari e di provenienza esotica prende piede nella seconda metà del XIX secolo; «primo fenomeno di massa del xix secolo», le esposizioni radunavano prodigi di estrema varietà: «selvaggi del Borneo» e donne obese, «principi delle Figi» e «donne barbute», gemelli siamesi e circassi tatuati, «amazzoni», e «tronchi umani», trigemini nani, e cannibali, ermafroditi e «boscimani». L’esibizione comprendeva allestimenti di ambienti etnici con animali esotici e abiti adeguati per i fenomeni: donne obese e barbute comparivano con vestiti vezzosi, gli ermafroditi indossavano abiti per metà maschili e per metà femminili, gli zulu – il cui talento militare diede molto filo da torcere agli inglesi – si esibivano vestiti di pelli animali e agitando lance davanti a un fondale che rappresentava una «giungla» e così via.
Freaks – 1932 di Tod Browning |
Divertire, informare ed educare erano gli scopi dichiarati delle esibizioni; spesso vi assisteva, oltre che una folta rappresentanza d’importanti personaggi dell’epoca, il gotha delle scienze umane: «gli zoo umani nascono nel momento cruciale in cui le scienze umane sono in cerca di “prove”». Mentre il pubblico si beava di costumi e stranezze, gli scienziati si davano da fare misurando e annotando caratteristiche come il colore della pelle, i capelli, gli occhi, la forma e le dimensioni del cranio, la fisionomia, la «somiglianza con le scimmie». Anche una neotenia spiccata (cioè una fisionomia più simile a quella infantile e giovanile) era ritenuta una prova evidente di primitività.
Cercando di trarre il massimo profitto dai loro investimenti, gli esibitori portavano le loro «compagnie», in giro per tutta Europa e anche negli Stati Uniti (mentre gli esibitori americani, il primo dei quali fu il famoso Barnum, compivano il percorso opposto), tanto che non è azzardato supporre che l’antropometria ottocentesca abbia basato la sua gerarchia delle razze – al gradino più basso i negri, al più alto i bianchi – in buona parte sulle misure di campioni limitati di individui, talvolta assegnati al gruppo etnico sbagliato o a gruppi di fantasia, non di rado imparentati fra loro o, comunque, appartenenti al medesimo clan o tribù.
Il fenomeno degli zoo umani fu anche legato a filo doppio con l’affermarsi del colonialismo:
La nascita e poi la diffusione degli zoo umani emergono dall’incontro di tre processi concomitanti: la costruzione di un immaginario sociale sull’altro […], la teorizzazione scientifica della «gerarchia delle razze» nel solco dei progressi dell’antropologia fisica e, infine, l’edificazione di un impero coloniale allora in piena espansione.
L’etno-show si basa su una concezione zoologica della storia umana, cioè sulla convinzione che il progresso culturale sia il riflesso diretto delle capacità biologiche. È quindi un’operazione che si autolegittima e rende inutile fornire motivazioni per inferiorizzare l’altro. Già l’atto di esibire i devianti dalla norma eurocentrica in un luogo separato (recinto, pista circense o «villaggio indigeno» ricostruito), crea una barriera invisibile tra chi guarda e chi è guardato.
Le conseguenze della lunga esibizione dell’«altro» come un animale si trascineranno per molto tempo: «presentare questi uomini come esponenti di razze non evolute e non educabili contribuisce enormemente a stabilire le solide basi di un razzismo popolare la cui vitalità non sembra affatto affievolirsi ai giorni nostri». Lega docet.
L’avvento del cinema offrì nuove spettacolari possibilità: dopo quasi cent’anni di spettacoli gli etno-shows furono soppiantati dalla fotografia e soprattutto dal cinema, entrambi strumenti eccezionali di manipolazione. Essi, infatti, prima di parlarci degli osservati ribadiscono il nostro ruolo di «osservatori», un ruolo di potere che oggettivizza l’«altro» e lo pone in nostra balia per sempre, ben oltre il momento dello scatto o della ripresa. L’immagine, poi, non è la realtà, non la riproduce ma la rappresenta e, spesso, la costruisce. Chi ritiene che la fotografia «rubi l’anima» probabilmente ha ragione: a conti fatti, la sua è una sintesi sofisticata e non una sciocca superstizione.
Le riprese cinematografiche (e ancora prima le fotografie) eliminano volutamente il contesto spazio-temporale dell’«altro», sottolineandone invece le sole relazioni di sopravvivenza (l’allattamento di bambini, il pasto, la caccia…), le emozioni semplici e assolute (la gioia della danza, il dolore della morte violenta).
Spesso l’«altro», il «selvaggio», è mostrato nudo e la nudità è un elemento fondamentale di differenziazione perché nella concezione borghese occidentale e cristiana coincide con l’animalità. Così il «selvaggio» diventa un’entità fuori del tempo, il suo tempo sta per terminare: «Bisogna catturare ciò che sta scomparendo», proclamano i manuali coloniali, i popoli «esotici» sono già condannati all’estinzione, sono dei perdenti (degli inadatti!) nell’impatto inevitabile con la nostra società «superiore». Soltanto le fotografie, le riprese che noi abbiamo effettuato ci consentiranno di testimoniare a posteriori la loro esistenza.
La spettacolarizzazione dell’«altro» fu particolarmente efficace negli Stati Uniti, dove la società scivolò senza strappi dal freaks-show all’eugenetica, cioè alla politica attiva di sterilizzazione del freak, e dall’etno-show alla segregazione razziale.
Ma gli etno-shows non sono completamente scomparsi: sono stati aperti da poco un «villaggio africano» nello zoo-safari vicino a Nantes e un villaggio masai in Belgio; entrambi hanno sollevato soltanto le proteste dei soliti noti (organizzazioni sindacali e associazioni antirazziste).
Le esibizioni di un tempo hanno lasciato anche altri, meno sospettabili, discendenti, come la messa in scena dei conflitti e delle guerre, che resta sospesa tra informazione e spettacolarizzazione; e come il Reality show e le varie versioni del Grande Fratello, dove un gruppo di individui selezionati resta per lungo tempo sotto lo sguardo delle telecamere, mentre la narrazione di loro stessi, vera o fasulla che sia, avviene altrove, a opera di osservatori a loro volta ripresi dall’occhio inesorabile delle telecamere.
Negli Stati Uniti sta prendendo piede l’esibizione televisiva della chirurgia estetica:
Chirurgia estetica. Telefilm con i medici come eroi. Reality show a premi sulle vite cambiate dal bisturi. Negli USA la correzione operatoria dell’aspetto fa spettacolo. Provocando una corsa di massa agli interventi e un boom dei servizi offerti ai clienti entusiasti […] Nip/Tuck, serial «chirurgico-sentimentale» […] è uno dei successi della stagione televisiva via cavo americana […] Un ventaglio di microstorie raccontate in maniera spietata e realistica (i corpi sono quelli veri degli attori), che puntualmente si concludono sul tavolo operatorio, in una specie di «festino pulp» (con materiale tratto da filmati reali, con schizzi di sangue, tagli, incisioni, inserimenti e gonfiori» [F. Gentile, Sogni di Plastica, in «D. Repubblica delle donne», 377, viii, 22 novembre 2003].
E occorre ricordare Bisturi – Nessuno è perfetto, il Reality show presentato da Irene Pivetti e Platinette e a suo tempo trasmesso da «Italia 1» il martedì sera?
Lo show e il business continuano.
Aa.Vv.
Zoo umani.
Dalla Venere ottentotta ai reality show
pp. 234, € 17,00 Ombre Corte |