di Davide Mana
Ai tempi in cui io andavo a scuola l’educazione musicale funzionava più o meno così: una persona che non esitava a palesare il suo fastidio nell’essere circondata da ragazzini – di solito una giovane donna variamente nubile al suo primo incarico d’insegnamento – faceva subire ai suoi studenti (discenti, li chiamano oggi) l’ascolto passivo di alcuni classici (Bolero, Carmina Burana, Inno alla Gioia), riprodotti su uno di quei giradischi a valigia che si usavano per le gite e i picnic, ai quali appiccicava a mo’ di spiegazione una biografia in capsula dell’autore – come se le date di nascita, morte e pubblicazione fossero sufficienti a sviscerare la natura del brano. Poi mandava tutti a comprarsi un piffero di plastica e in capo a sei mesi si aspettava un’esecuzione nota-per-nota del Concerto per due violini di Bach, sulla base di circa quaranta minuti di strane farneticazioni sul fatto che vogliono due semiminime per fare una minima e senza neppure premurarsi di dire ai propri pupilli dove diavolo mettere le dita sul dannato piffero.
Chiave di basso, chiave di violino.
Poi venne Fame, il film e il serial televisivo, e dietro di loro, come i corvi accompagnano le battaglie, i litigiosissimi, egocentrici Amici della Defilippi.
Oggi ci si aspetta che i liceali si maturino facendo il pezzo finale del Rocky Horror Show in palestra, quindi delle due una – o l’insegnamento della musica è radicalmente migliorato nei vent’anni trascorsi, o i ragazzi hanno imparato a cavarsela da soli meglio di quanto facessimo noi.
Perché ci insegnavano tanto male la musica?
Probabilmente perché la musica non era percepita – al pari del disegno, dell’educazione civica e della matematica – come una pratica utile.
Eravamo tutti comunque destinati a scuole professionali dove in ore interminabili avremmo imparato a usare la lima bastarda su un pezzo di ferro dolce prima di essere bollati periti e spediti in un’officina a fare da spalla a una macchina a controllo numerico riguardo alla quale nessuno s’era preso la briga di spiegarci dove mettere (o non mettere) le dita.
Proprio come il piffero.
Ricostruzione di un uomo di Neanderthal |
Alla più inutile delle attività indispensabili alla vita dell’uomo è dedicato il recente Il Canto degli Antenati, dell’archeologo Steven Mithen, massiccio e relativamente costoso volume della Editrice Codice.
Perché esiste la musica?
Da dove viene – da quale recesso della nostra corteccia cerebrale, da quale esigenza, lungo quale percorso evolutivo?
È forse la musica un metalinguaggio universale? Un prodotto emergente della complessità cerebrale umana, quasi un effetto collaterale dell’essere eretti e dotati di pollice opponibile?
Come lavora il nostro cervello quando si trova a dover maneggiare i concetti musicali?
E come opera la musica sulle nostre emozioni?
Mithen tenta di rispondere a queste domande seguendo un cammino tortuoso, passando per la teoria del linguaggio, i versi delle scimmie urlatrici, l’etologia dei neanderthaliani innamorati.
Si parte dalla questione di che cosa sia un linguaggio, per passare a decidere se la musica sia un linguaggio, e di che tipo.
È una lettura avvincente, che riesce a mascherare il profondo tecnicismo di certe questioni con una struttura investigativa fitta e ben strutturata, nella quale Bach e Horowitz siedono fianco a fianco con Darwin e con oscuri ricercatori intenti a esperimenti improbabili.
Il risultato forse più interessante della vasta, complessa, spesso divertente analisi di Mithen, è la corrente che attraversa il libro dalla prima pagina alla fine. Divagando fra antropologia, archeologia, biologia evolutiva ed etologia, l’autore traccia una storia di ciò che ci rende umani, di come sia venuto in essere e di come sia stato influenzata dalla nostra evoluzione, e l’abbia a sua volta influenzata.
Imitando gli animali che li circondavano o forse attingendo a un passato meno illuminato, i nostri antenati impararono forse a modulare suoni armoniosi – per lo meno alle loro orecchie – prima per conquistare una compagna e poi, molto più tardi, per sincronizzarsi nel lavoro di produzione di utensili di pietra.
L’uso conscio della musica per il corteggiamento contribuì forse a sviluppare il corpus di complicate emozioni che noi umani associamo all’accoppiamento.
La musica è quindi strettamente legata al nostro linguaggio – lo precede e lo definisce – al nostro procedimento di apprendimento e alla nostra capacità di provare emozioni complesse e di creare arnesi.
Chiacchiere, sospiri e asce – ciò che ci separa dalle bestie.
Se così è stato – e Mithen porta argomenti convincenti a supporto – allora la musica ci ha resi umani.
Bello, denso e interdisciplinare come piace a noi, Il Canto degli Antenati è un volume che soddisfa tanto l’appassionato di musica che il curioso della storia umana.
Altrettanto bello, altrettanto denso e altrettanto interdisciplinare è il minaccioso, fin dal titolo, Armonia celeste e Dodecafonia(Rizzoli BUR) del benemerito divulgatore nostrano Andrea Frova. Compatto, con un violoncello distorto in copertina e una costola argentata come la pelle di un robot, il libro di Frova sembra attenderci con la tranquilla sicurezza del predatore in agguato.
Basta quella parola – Dodecafonia.
Brividi.
Superata una prefazione supponente e vagamente offensiva di Roman Vlad, che in meno di due pagine danna un secolo di democratizzazione della fruizione musicale e passa a citare Adorno ogni due paragrafi, possiamo comunque avvicinarci al testo, che è sorprendentemente fresco e agile nonostante la Dodecafonia.
L’interesse di Frova si appunta, abbastanza curiosamente, proprio su un aspetto del panorama musicale che Mithen non tratta a fondo – la comparsa, nel ventesimo secolo, di una musica – la Dodecafonia – fortemente dissociata dai gusti generali e immediati del pubblico, tanto da essere un piacere per pochi e una fonte di dannazione per i più.
Nel suo studio – ricco di immagini e grafici – alle radici della dodecafonia, Frova torna a esplorare le radici della musica – non tanto da un punto di vista evolutivo quanto dal punto di vista fenomenologico. La fisica e la fisiologia del suono sono quindi i suoi punti di partenza fino all’inevitabile finale, la morte della Dodecafonia (un genere o una scuola ormai estinta a tutti i fini pratici).
Leggendo spalla a spalla i due volumi, di Mithen e Frova, si assiste così, diciamo «in differita», anche a un dibattito che rimane centrale nel panorama dell’insegnamento della teoria dell’evoluzione – quello che contrappone l’evoluzione umana «naturale» preistorica alla «stasi» evolutiva instauratasi quando gli esseri umani hanno preso a modificare l’ambiente anziché modificarsi in risposta a esso.
La musica di Mithen emerge dall’interazione fra cervello umano primitivo e necessità contingenti dei primi uomini: comunicare, riconoscersi, riprodursi, creare utensili utili alla sopravvivenza.
La dodecafonia di Frova al contrario sembrerebbe essere un «ramo secco» evolutivo sviluppatosi in risposta non a stimoli esterni ma alla sola spinta delle pressioni culturali, una musica che tenta di imitare le moderne teorie della fisica quantistica e di rappresentare così non l’universo percepito nel quotidiano, ma quello conosciuto attraverso artifici.
Poiché i due libri esistono inconsapevoli l’uno dell’altro la dicotomia rimane irrisolta, e stimola lunghe ore di riflessione notturna nel lettore.
Possibilmente ascoltando della buona musica.
[scritto ascoltando la musica dei Southern All Stars]
Steven Mithen
Il canto degli antenati
Codice 2007,
pp. 380, € 32,00
trad. E. Faravelli, C. Minozzi
Andrea Frova
Armonia celeste e Dodecafonia
Rizzoli BUR 2006,
pp. 360, € 12,00