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    TerraNova

    Un welfare estremo

    • di Silvia Treves
    • Febbraio 9, 2013 a 5:59 pm

    di Silvia Treves

    rimase immobile a lungo osservando i morti viventi che continuavano il loro movimento circolare senza interruzioni o variazioni. Se in quel momento qualcuno le avesse detto che era quella loro danza a permettere alla terra di continuare a ruotare, Flora avrebbe annuito e detto: sì, lo so…


    Un’estate anomala regna su Stoccolma: giorni torridi e notti velate da nuvole di vapore che si alzano da marciapiedi ed edifici. L’atmosfera è pervasa da un campo elettrico che provoca emicranie e malfunzionamenti in ogni genere di apparecchiature. Gli abitanti continuano caparbiamente a vivere la loro vita: David scrive i monologhi comici che reciterà la sera, sul palco, e cucina per Eva e il loro figlioletto Magnus; Mahler, un tempo giornalista di valore, tira avanti selezionando notizie della Reuters per una rubrica di cronaca locale e si prende cura della figlia che ha da poche settimane perso il figlioletto Elias; Elvy, vedova da qualche mese dopo lunghi anni di assistenza al marito malato di Alzheimer, tiene compagnia alla nipote Flora, una quindicenne sensitiva. Tutti soffrono a causa del caldo e dei tremendi mal di testa, tutti hanno guai con le apparecchiature elettriche di casa. Ma si deve pur vivere, no?
    No, invece. Fra meno di un’ora i fenomeni naturali giungeranno al culmine, cefalea, stordimento ed emicranie pure. Ci saranno incidenti, i PC rifiuteranno di spegnersi, le piastre dei fornelli diventeranno roventi i fischi emessi dai microfoni sul palco di David saranno insopportabili…. Poi tutto si arresterà in un attimo. Scompariranno i dolori e i fischi, il campo elettrico cesserà di colpo di interferire.
    E allora la natura cederà il posto all’innaturale. All’impensabile.
    L’estate dei morti viventi inizia, come ogni gotico di alto livello, con una lacerazione nel mondo quotidiano, un varco attraverso il quale l’impossibile irrompe nel reale.

    Quando aveva comprato il pane una settimana prima, tutto era normale, la vita era una sequenza di giorni buoni e di altri meno buoni che si accumulavano […] Quanti giorni, quanti anni prima che un solo ricordo piacevole potesse essere collegato a un tempo dopo l’incidente di Eva? Sarebbe mai successo?

    John Ajvide Lindqvist

    Nel romanzo di Lindqvist vivi e morti viventi coesistono in una Svezia quotidiana, alle prese con problemi individuali e collettivi: dolori privati, incomprensioni familiari, conflitti sociali ancora irrisolti, malesseri adolescenziali ai quali gli adulti spesso non sanno dare risposte, frange di popolazione che vivono una religiosità militante, intolleranze che nemmeno un paese più civile e più attento ai diritti umani dell’Italia è ancora riuscito a tenere sotto controllo. E sono proprio gli aspetti in un certo senso più invidiabili di quel paese: la scelta di investire nel Welfare, un’amministrazione più trasparente e più efficiente a provocare i contraccolpi peggiori di una coesistenza impossibile.
    Gotico inconsueto e quasi privo di effetti gore, il romanzo di Lindqvist punta su uno stile sobrio, sull’attenzione ai personaggi, sui dettagli. Pervaso dal misticismo tipico del genere, L’estate dei morti viventi rinnova la figura dello zombie senza cancellare la valenza etica e politica di un topos nato per rappresentare l’estrema forma della schiavitù, quella di chi, dopo essere morto di fatica deve tornare a vivere per faticare senza più la speranza di morire.
    Lo zombie, come del resto il vampiro, è un tòpos (forse più cinematografico che letterario) potente, che di volta in volta ha personificato non solo se stesso – il morto del folclore haitiano che, richiamato in vita dal bokor, diviene suo schiavo – ma di profonde lacerazioni nel tessuto sociale: è lo schiavo di I walked with a zombie, l’indimenticabile pellicola di Tourneur (il più fedele alla versione folclorica[1]), costretto a faticare ancora dopo essere morto di fatica; è consumatore coatto del mondo tardocapitalistico in L’alba dei morti viventi e sottoproletario ribelle in La terra dei morti viventi (secondo e quarto film della saga di Romero; è telespettatore inebetito dai programmi più turpi e assurdi in Rischiamorto di Brian Hodge[2], signore della guerra che mina la convivenza umana in Sassofono di Nicholas Royle[3].
    Ma lo zombie di Lindqvist non è altro da noi. È il nipotino che Mahler è corso a disseppellire al cimitero, è il nonno con l’alzheimer che miracolosamente ha ricordato la strada di casa e pateticamente «sta fingendo di essere vivo», È la moglie amata, morta in seguito a un incidente stradale e misteriosamente resuscitata mezz’ora dopo. Potrei essere io o uno di voi, se il caso ci avesse fatto vivere e morire a Stoccolma L’estate dei morti viventi.


    Dopo il primo smarrimento, i vivi del romanzo nutrono speranze e desideri di ricongiungimento, si aspettano che lo Stato faccia qualcosa per risolvere quella che pare un’emergenza, non un a vera crisi. E alcuni cristiani vedono nel risveglio dei morti quella resurrezione dei morti che giungerà alla fine dei tempi e che sarà il vero inizio dell’eternità. Ma i morti viventi sono soprattutto morti, ben diversi dai defunti rimpianti e questa differenza è parte della frattura: il piccolo Elias, il più tenero di loro, è soltanto un’orrida caricatura del bimbo biondo e pieno di vita di qualche mese prima, Eva non è più la moglie amata da David, né tantomeno la madre di Magnus… No, non si tratta di una semplice emergenza, risolvibile con un certo numero di errori e aggiustamenti da un’amministrazione efficiente…
    Ma la vera frattura, che riporta questi zombie nel solco dell’interpretazione sovversiva che li ha resi grandi, è il flop dello Stato Sociale, la morte dell’illusione che si possa raggiungere un livello di vita decente, che gradualmente si possa dare a tutti almeno l’indispensabile a vivere umanamente. Mano a mano che Lindqvist amplia il campo visivo ci accorgiamo che la Svezia non è un modesto paradiso: i giovani esternano i loro malesseri con rabbia e violenza o con scelte estreme, i quartieri ghetto sono semplicemente nascosti meglio che altrove… ma non basta: i suoi zombie quotidiani non mangiano carne umana, si comportano in maniera meno sconveniente ma pongono un grande interrogativo: «dove li metteremo? Chi pagherà per loro?».
    Le recenti polemiche di casa nostra suggeriscono osservazioni inquietanti: Se le nostre risorse non bastano a pagare la pensione ai vivi, tanto che possiamo soltanto sperare in un rapido aumento di popolazione dovuto agli immigrati (che in questo caso, sa va sans dire, sarebbero benvenuti e non rubalavoro) come faremmo, in Italia, ad assicurare il mantenimento di questi scomodissimi revenants… Veri pesi morti e bisognosi di assistenza, i poveri zombie – gli stranieri più sgraditi che si possono immaginare – restano i soliti paria.

    [1] Figlia delle credenze popolari di Haiti la figura dello zombie è stata utilizzata fino agli anni Ottanta dalla dittatura haitiana per terrorizzare la popolazione: i tomtom macout della polizia segreta avrebbero posseduto droghe neurotossiche (a base di tetradotossina e di veleni estratti da molluschi gasteropodi) in grado di indurre nelle vittime uno stato catatonico parzialmente reversibile con un blando antidoto in grado di ripristinare le funzioni vitali senza restituire la volontà. Vera o no, questa versione venne fatta ampiamente circolare dalla famiglia Duvalier e il regista Lucio Fulci sosteneva che la Chiesa haitiana avesse contribuito ad alimentare la superstizione.
    [2] in Il libro dei morti viventi, a cura di John Skipp e Craig Spector, prefazione di G. A. Romero, Bompiani «tascabili», 2000, pp. 466, € 9,40;. (ed. or. 1989, Book of the Dead )
    [3] ibid.

    John Ajvade Lindqvist
    L’estate dei morti viventi
    Marsilio
    € 17,50
    trad. G. Puleo

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