Viaggio nella Napoli letteraria in compagnia di
Anche se meno numerosi e diversamente distribuiti nel corso del secolo, gli scrittori e intellettuali angloamericani lasceranno testimonianze in alcuni casi fondamentali sulla città. La forza descrittiva di Lewis e di Burns o i rapidi commenti del regista John Huston, come vedremo in questa terza «tappa» del nostro viaggio sull’immagine letteraria di Napoli, arricchiranno, sotto il profilo documentale, la storia della città nei drammatici anni finali della seconda guerra mondiale, sui quali si era soffermato il toscano Curzio Malaparte con altrettanta forza espositiva. In altre circostanze la città diventerà, invece, luogo dove cercare riparo nei momenti difficili della propria esistenza, come accade nel 1897 ad Oscar Wilde. Quando giunge a Napoli è da pochi mesi uscito dal carcere nel quale era stato rinchiuso con l’accusa di «pratiche illecite», nel maggio del 1895. La lunga avventura giudiziaria, l’ostracismo della società inglese e i due anni di prigione avevano profondamente logorato il suo fisico e la sua mente.
Wilde poco dopo l’uscita dal carcere si trasferisce per qualche mese in Francia, poi all’improvviso e contro il parere dei suoi stessi amici, con Lord Alfred Douglas, figlio di Lord Queensberry, l’uomo che lo aveva fatto arrestare, decide di partire per Napoli[1].
Oscar Wilde
Wilde vi arriva sotto il falso nome di Sebastian Melmoth, ma dopo circa due settimane in città si era già sparsa la notizia della vera identità dell’ospite inglese. L’accoglienza che il mondo culturale napoletano riserva allo scrittore è decisamente negativa. Inizialmente è un atteggiamento di scherno, di sottile, ma penetrante denigrazione, poi un articolo di Matilde Serao sembra far assumere alla notizia significati più pesanti[2].
Definendo Oscar Wilde il «decadente inglese» reduce di un «processo ripugnante» la Serao afferma con tono sprezzante: «sarebbe una calamità la presenza tra noi dell’esteta britannico, sia pure – come si annuncia – sotto falso nome! Noi avremmo assai vicino il più insopportabile tipo di seccatore che le cronache contemporanee abbiano inflitto al pubblico paziente![3]»
Poi il tono dell’articolo supera ogni forma anche minima di pietà e di partecipazione umana; usando via via espressioni come «flagello wildiano» e ringraziando i giudici della condanna inflitta contro individui «odiosamente pervertiti», la Serao dà una prova di totale mancanza di buon gusto oltre che di sensibilità, come traspare in modo ancora più netto nelle frasi finali del suo «pezzo».
Matilde Serao
Le «preoccupazioni» della Serao relativamente alla presenza «nefasta» di Oscar Wilde presto si dissolvono. Lo scrittore inglese era arrivato a Napoli cercando un luogo dove lavorare e sfuggire alla mondanità come si può rilevare nelle lettere inviate ai suoi pochi amici inglesi. Wilde aveva imparato a convivere con la sua «diversità», con l’ostilità ossessiva che lo circondava dappertutto, anche se le ristrettezze economiche, l’impossibilità di comunicare con gli altri, le stesse difficoltà che ad un certo punto sorgono nel suo rapporto con Bosie (Alfred Douglass), ledono profondamente il suo animo[4].
Non a caso nelle lettere non ci sono commenti sulla città, sulla gente, sui luoghi visitati, per cui si ha la sensazione, leggendo questo breve epistolario, di un disagio ormai giunto ad un punto senza ritorno che né Napoli, né qualsiasi altra città potevano di fatto lenire.
Di particolare interesse è la visita che lo scrittore inglese George Gissing compie in Italia nel 1897. Uomo dall’esistenza profondamente travagliata, Gissing fu autore di numerosi romanzi che, tuttavia, non riuscirono a destare l’attenzione del grosso pubblico. Non era il suo primo viaggio in Italia, ma è in tale occasione che annota le sue importanti impressioni. Le considerazioni iniziali, allorché giunge a Napoli, prima tappa del lungo itinerario che lo porterà fino a Reggio, sono i profondi mutamenti architettonici e urbanistici effettuati in città nei dieci anni intercorsi dalla sua precedente visita. È colpito dallo sventramento del vecchio quartiere Pendino, tagliato dal Corso Umberto I e poi dallo stravolgimento del quartiere di Santa Lucia, culminato con la costruzione della odierna Via Francesco Caracciolo. «Il porto dal quale si partiva per Capri – annota Gissing – è colmato; il mare è stato scacciato a una disperata distanza, dietro squallidi mucchi di rifiuti. Vogliono fare un argine lungo e diritto da Castel dell’Uovo al porto Grande, e tra non molto Santa Lucia sarà una strada qualunque, chiusa fra gli alti caseggiati, senza nessuna veduta. Ah, le notti che si passavano qui, osservando i rossi bagliori del Vesuvio, seguendo la linea scura del promontorio di Sorrento o aspettando che il chiaro di luna spandesse la sua magia su Capri, a fiore delle acque! Rimangono gli odori: le bancarelle di frutti di mare sono ancora indisturbate, come le brocche degli acquaioli; le donne ancora si pettinano e si fanno le trecce per la strada, e i pasti vengono cucinati e consumati al fresco come in passato[5].»
George Gissing
Poi, continuando il suo giro per la città, è colpito dalla sua silenziosità. «Nella stretta ed affollata Strada di Chiaia trovo poca confusione; un tempo levava di cervello[6].» Deluso di non ritrovare i vecchi organetti che giravano per le strade del centro, dopo aver gustato il piacere di entrare in una di quelle trattorie dove si possono assaggiare le tante specialità culinarie della zona, chiarisce le ragioni che lo avevano portato al Sud, sostenendo che «ogni uomo ha un suo anelito intellettuale» e il suo era quello di ritrovare quell’antico mondo delizia della sua immaginazione giovanile.
I nomi della Grecia, dell’Italia mi attirano come nessun altro; mi riportano alla mia giovinezza e mi rendono le vivide impressioni di quel tempo in cui ogni nuova pagina di greco e di latino era per me una nuova percezione della bellezza. Il mondo greco e romano è la terra della mia immaginazione; una citazione nell’una o nell’altra di queste lingue mi eccita stranamente, e vi sono dei passi di poesia greca e latina che non riesco a leggere senza che mi si velino gli occhi, e che non riesco a ripetere forte perché la voce mi trema[7].
L’influenza greca percepita lungo le vie di Napoli e nel suo paesaggio costiero da Gissing e, successivamente, da Rodó e da Rilke, viene riconosciuto anche dallo scrittore inglese David Herbert Lawrence che nel 1920 scrive:
quant’è bello guardare, come Ulisse, in un giorno chiaro il Golfo di Salerno verso sud-est, con sullo sfondo la ripida costa afosa e le montagne cristalline. Si abbandonano gli dèi di oggi e si scopre di nuovo un se stesso perduto, mediterraneo, anteriore[8].
Poi, nel corso degli anni Venti e Trenta gli scrittori e intellettuali anglo-americani dirottano verso Parigi, Berlino e le ultime luci della mitteleuropa, prima della oscurità nazionalsocialista.
Con l’armistizio e lo sbarco alleato gli anglo-americani ritornano, anche se per motivi diversi, in città, registrando le loro impressioni, come accade al giovane ufficiale inglese Norman Lewis. Il militare annota, inizialmente, le operazioni che le truppe alleate svolsero nel territorio napoletano tra il settembre del ’43 e l’ottobre del ’44, poi il suo rapporto si estende alle considerazioni umani e sociali sollecitate dalla frequentazione degli ambienti cittadini e dell’hinterland campano. L’ufficiale inglese, il 9 settembre, giorno del suo sbarco a Paestum, viene colpito dalla bellezza del paesaggio e scrive:
mentre il sole cominciava a immergersi maestosamente nel mare dietro di noi, abbiamo camminato, senza meta in questo bosco pieno di cinguettii, e all’improvviso ci siamo ritrovati al suo margine. Al nostro sguardo si è offerta una scena di incanto soprannaturale. A qualche centinaio di metri si ergevano in fila, perfetti, i tre templi di Paestum, superbi e splendenti di luce rosata negli ultimi raggi del sole. È stata come un’illuminazione, una delle grandi esperienze della vita[9].
Norman Lewis
Nei giorni seguenti il lavoro militare prende, però, il sopravvento e subentra anche il disincanto. In cammino verso Napoli, Lewis si imbatte nei sobborghi passando per quelli che definisce «sudici paesi semidiroccati dalla guerra: Torre Annunziata, Torre del Greco, Resina e Portici, cresciuti uno vicino all’altro fino a formare una ventina di chilometri di squallido suburbio lungo la costa[10].»
Poi le prime scene di sconcertante povertà: tranquille massaie vestite con gli abiti di tutti i giorni pronte a darsi ai soldati alleati per qualche scatoletta. È un’immagine che immobilizza la maggior parte dei militari; ma è solo l’inizio di un viaggio verso l’inferno. Napoli li accoglie con montagne di macerie. È una città affamata e assetata: prima le incursioni alleate e poi le devastazioni compiute dai tedeschi, avevano distrutto anche le condutture dell’acqua e la popolazione prova in qualche modo a distillare l’acqua del mare per poterla bere. L’ufficiale inglese, allorché acquisisce un minimo di familiarità con il luogo, annota sul suo taccuino: «è sorprendente assistere agli sforzi di questa città tanto colpita, affamata, privata di tutte quelle cose che giustificano l’esistenza di una città, per adattarsi alla ricaduta in condizioni di vita da Medioevo[11].»
L’amicizia con un certo Lattarulo, avvocato disoccupato, gli è utile per tentare di decifrare la città. Lewis comprende che la guerra ha solo estremizzato i mali di Napoli, dilatando fino all’inverosimile il disagio già presente prima del conflitto nella popolazione.
Da dieci secoli questa terra è battuta da eserciti invasori. Sul trono di Napoli si sono avvicendati re stranieri che hanno ridotto in schiavitù il popolo. Le rivolte sono state soffocate nel sangue. Ma niente di tutto questo ha lasciato la minima traccia nella fantasia o nella memoria dell’uomo comune, né ha sollecitato una qualsiasi aggiunta al repertorio del cantastorie[12].
Napoli, molo bombardato, 1943
Queste considerazioni si avvicendano con le suggestioni positive del clima o dello spettacolo «maestoso e terribile» dell’eruzione del Vesuvio. Poi lo sguardo si sposta inevitabilmente sulla popolazione e sul disagio economico che si allarga a tutti gli strati sociali, anche alle classi considerate immuni. E osserva le strade che si riempiono di gente disposta a vendere oggetti di ogni tipo: dai giornali, ai libri, ai quadri, ai vestiti. Lewis è colpito dall’imbarazzo che traspare dai volti e dagli atteggiamenti di chi non è abituato ad avere un approccio di questo tipo con gli altri. Come in un film le scene si succedono rapide. Sono sequenze, piccoli segmenti in grado di testimoniare da soli il senso di una ripetuta disfatta. E allora nei pressi di piazza Dante l’incredulo ufficiale inglese viene avvicinato da un’anziana signora che non avendo più niente da vendere lo implora di accompagnarla a casa. Qui, in una stanza senza finestra, egli intravede una ragazza di tredici anni, magra in piedi in un angolo della camera. È la figlia che la donna pensa di avviare alla prostituzione. Ha appena il tempo di allontanarsi dall’inquietante scena alla quale inerme ha assistito, quando sulla via del ritorno si imbatte in un sacerdote che, nel tentativo di vendergli qualcosa, apre una borsa nella quale ci sono «candelabri e piccoli oggetti ornamentali di ogni genere intagliati in ossa di santi e cioè ossa trafugate da qualche catacomba[13].»
Più avanti l’obiettivo si ferma sulle brutalità compiute dalle truppe coloniali francesi ai danni delle donne con efferati stupri collettivi e la conseguente reazione della popolazione che, in un paese nei pressi di Cancello Arnone, si vendica uccidendo in maniera feroce cinque marocchini. La permanenza in città consente a Norman Lewis di verificare anche l’incredibile condizione abitativa dei quartieri popolari.
Trecentomila napoletani abitano nei bassi. In un basso della Vicaria, due metri quadrati possono alloggiare anche tre persone. E’ lì che molte prostitute portano i loro clienti. Quando entrano, è facile che nella stanza ci siano altri occupanti – magari un vecchio costretto a letto e sistemato su una brandina contro la parete – che non possono andare altrove. In tal caso, non fanno che voltarsi contro il muro. A Napoli ci si arrangia sempre nel modo più civile possibile[14].
John Horne Burns
Come a Norman Lewis, anche al capitano dell’esercito americano John Horne Burns, giunto a Napoli nell’agosto del 1944, la città sollecita riflessioni e racconti che confluiranno ne La galleria, pubblicato nel 1947 e tradotto in italiano nel 1949[15]. Anche se molti racconti inseriti nel volume appaiono eccessivamente lunghi in rapporto al loro contenuto, fondamentali sono invece le tre «passeggiate napoletane» nelle quali Burns raggiunge un livello di scrittura eccelso. La Napoli descritta dal capitano americano è a tutto tondo, ispezionata senza veli nella sua povertà, come nella sua dignità profonda, nella malinconia, come nella allegra, scanzonata gioia della sua gente, che malgrado le avversità, prova costantemente a inventarsi un modo per continuare a sperare e a vivere.
Quando Burns giunge a Napoli il porto mostra i segni lampanti di un immane disastro: navi affondate si mescolano ai resti di macchinari distrutti. Tuttavia, nonostante l’incredibile disfatta, lo sguardo complessivo sembra trasmettergli una misteriosa carica vitale che l’ufficiale americano intravede nella luce del sole, la quale
conferisce a Napoli crudezza e inesorabilità, tocca, frugando con le sue dita spietate, i fabbricati bombardati presso il Comando della Marina. Nelle case mezze diroccate ciò che resta dell’intonaco sotto le grondaie è vivo e purulento, come pelle umana. E proprio sopra a Napoli si elevano i colli dove il Vomero se ne sta sulle terrazze serpentine e sulle rampe delle scalinate come una vecchia signora pericolosamente librata su di un trapezio[16].
Napoli sembra avvolgerlo con i suoi odori diversi da vicolo a vicolo, con il vento caldo che accarezza «le natiche e i seni meravigliosi delle donne», ma anche mostrargli il volto più disperato dell’esistenza attraverso una povertà visibile nello stato pietoso degli abiti, nelle vetrine vuote, nelle lunghe file ai pochi spacci alimentari. Le immagini di vita si alternano, si mescolano con quelle disgustose: «ogni vicolo aveva un lezzo diverso emanante dai residui di numerose famiglie: di escrementi umani, di sudore, di aliti fetidi e di forfora[17].»
Poi Burns viene colpito dal dialetto e dalla gestualità della città. Quel dialetto «che è come la lingua italiana masticata e triturata in bocca da un uomo affamato» e che muta a seconda dei quartieri nei quali si capita. I gesti sono parte integrante del linguaggio capaci di trasmettere una carica espressiva talvolta superiore alle stesse parole.
L’orgoglioso e fiero ufficiale americano man mano che penetra nella realtà napoletana ha un crescente senso di straniamento fino a percepire che qualcosa nel suo animo sta cambiando. Giunto in Italia convinto che «il modo di vivere americano fosse un’idea sacra» via via Burns si convince che al di là della propaganda
gli Americani erano spiritualmente molto poveri. I loro ideali servivano a far dollari. Le loro anime erano in fallimento. Questo è vero, forse, per molti popoli del ventesimo secolo. Pure il mio cuore si spezzò. Ricordo che questa convinzione mi si manifestò nel più crudo «bianco e nero». Nella Napoli del 1944 gli Americani avevano tutto. Gli Italiani, perduta la guerra, non avevano nulla. E perché mai si faceva questa guerra? Mi convinsi che la guerra si faceva perché la maggioranza dei popoli della terra mancava delle sigarette, della benzina e dei generi alimentari che noi Americani avevamo[18].
Con una pregnante critica ante-litteram al modello consumistico, che il mondo occidentale affermerà decisamente negli anni successivi al conflitto mondiale, egli prende le distanze dalla prevalenza di significato, che nella concezione statunitense le cose hanno sulle persone. E l’accusa alla sua amata America diviene feroce, nel momento in cui si accorge che il suo Paese pur possedendo gran parte delle ricchezze del mondo, possiede «ben poco della sua anima». Molti di noi, scrive Burns,
erano abbastanza onesti in patria; ma quando si venne oltremare non si riuscì a resistere alla tentazione di guadagnare qualche dollaro a danno dei popoli che erano già a terra.[…] Con la nostra etica da Hollywood e la nostra logica da rete radiofonica non ci si dava neanche la pena di meditare sul fatto che la guerra era diretta contro il fascismo, non contro ogni uomo, donna o bambino d’Italia… Ma dopo tutto una guerra moderna è totale[19].
Ciò che l’ufficiale americano contesta è l’incapacità delle truppe d’occupazione di esprimere solidarietà nei confronti dei popoli occupati. A suo avviso, l’esito finale del conflitto non fece nient’altro che eliminare ogni residuo onore agli americani impropriamente dichiaratisi difensori della civiltà, della democrazia e della giustizia. Con straordinaria lucidità, ma anche con profonda amarezza, Burns affronta lo sporco commercio compiuto dalle truppe statunitensi che illecitamente guadagnavano vendendo sigarette, abiti, prodotti alimentari a un popolo trafitto dal bisogno e impossibilitato spesso a scegliere. «Mi convinsi – scrive ancora l’autore – che potevamo gridare contro i delitti del fascismo ed essere crudeli quanto i fascisti, con chi era già stato gettato a terra. Ecco perché il mio cuore si spezzò a Napoli nell’agosto del 1944[20].»
Egli scopre la profonda umanità racchiusa ancora, nonostante il disagio della guerra, nell’animo della gente comune e senza esitazione aggiunge, «non credo di fare del romanticismo o di ingannare me stesso. In piena guerra, nell’agosto del 1944, col cuore spezzato per un ideale, toccai le spiagge del paradiso, a Napoli. In certi momenti almeno[21].»
Per quanto il libro possa inorgoglire il lettore napoletano per l’estrema passione che Burns esprime ripetutamente per la città, c’è comunque da rilevare che in alcuni momenti l’estremismo delle considerazioni positive riduce il valore realistico e documentaristico dell’opera letteraria. C’è in Burns una sorta di mitizzazione romantica dei momenti vissuti a Napoli, una sensazione in parte ascrivibile alla scoperta di un universo altro così diverso, nel bene e nel male, da quello d’origine e capace di trasmettere un’emozione all’autore talmente forte da rimanere inalterato anche nella successiva fase della scrittura. Burns, come ha rilevato Raffaele La Capria, rappresenta fino ad incarnarla «la storia di un animo puritano che a Napoli viene affascinato e posseduto dall’anima pagana della città (o per lo meno che a lui tale appare nelle circostanze in cui la conobbe). Sì, è lei che lo possiede, e questo libro sembra scritto sotto il segno di una possessione da cui si è incapaci di liberarsi[22].»
John Huston
Anche il famoso regista americano John Huston capitò a Napoli nell’autunno del 1943 per documentare l’ingresso delle truppe alleate. L’impatto con la città, colpita dal tifo e ancora obiettivo di sporadici bombardamenti, fu talmente intenso che Huston molti anni dopo nella sua autobiografia scriverà:
Napoli era come una puttana malmenata da un bruto: denti spezzati, occhi neri, naso rotto, puzza di sporcizia e di vomito. Mancava il sapone, e persino le gambe nude delle ragazze erano sporche. Le sigarette erano la merce di scambio comunemente impiegata e per un pacchetto si poteva avere qualsiasi cosa. I bambini offrivano sorelle e madri in vendita. Di notte, durante l’oscuramento, dalle case sbucavano a frotte i topi e se ne stavano semplicemente lì, a guardarti con gli occhi rossi, senza muoversi. Si camminava evitandoli. Salivano vapori su dai vicoli, lungo i quali c’erano locali che mettevano in scena atti ‘carnali’ fra degli animali e dei bambini. Gli uomini e le donne di Napoli erano un popolo diseredato, affamato, disperato, disposto a fare assolutamente tutto per sopravvivere. L’anima della gente era stata stuprata. Era veramente una città senza dio[23].
Note:
1 «La scelta del luogo dove ‘poter vivere in pace e in ricerca’ afferma Renato Miracco, cade su Napoli per un duplice ordine di motivi. Primo il fatto che Napoli nell’Ottocento rappresentava uno dei centri culturali più avanzati d’Europa, e, alla fine del secolo questo veniva rafforzato dal crescente interesse nei confronti dell’antica civiltà greco-latina. E il fervore culturale, di molto affievolitosi all’arrivo di Wilde, era accompagnato dalla presenza del sole […] Secondo ordine di motivi: per tutto il secolo XIX e per buona parte del XX gli esiliati di Sodoma cercavano una nuova patria nel ‘vento del Sud’. » (R. Miracco (a cura di), O. Wilde, Verso il sole. Cronaca del soggiorno napoletano, Colonnese Editore, Napoli 1981, pp. 17-18)
02 L’articolo, intitolato ‘C’è o non c’è’, esce su «Il Mattino» del 7 ottobre 1897 ed è firmato con lo pseudonimo Gibus usato da Matilde Serao per la sua rubrica I mosconi.
3 R. Miracco (a cura di), op. cit., p. 28
4 In una lettera inviata il 28 novembre a Leonard Smithers, Oscar Wilde scrive: «è stato proposto di lasciarmi morire di fame o di gettare il mio cervello in un pisciatoio pubblico Napoletano. Ho sempre incontrato persone dominate dal senso della moralità ma queste erano senza cuore, crudeli, vendicative, stupide e completamente mancanti di qualsivoglia senso di umanità. Le persone morali, come vengono chiamate, sono bestie. Io vorrei avere cinquanta vizi innaturali piuttosto che una virtù. Sono le virtù innaturali che rendono questo mondo, per coloro che soffrono, un prematuro Inferno…» (ibidem, p. 47)
5 G. Gissing, Sulla riva dello Jonio, Cappelli, Bologna 1957 pp. 22-23
6 Ibidem, p. 23
7 Ibidem, pp. 24-25
8 D.H. Lawrence, The Letters, III, a cura di J.T. Boulton e A. Robertson, Cambridge University Press, London 1984. La lettera citata è stata tradotta e riportata nel libro di F. Ramondino e A.F. Müller, op. cit., p. 232
9 N. Lewis, Napoli ’44, Adelphi, Milano 1998, p. 15
10 Ibidem, p. 30
11 Ibidem, p.56
12 Ibidem, pp. 110-111
13 Ibidem, p. 130
14 Ibidem, pp. 187-188
15 Il titolo della raccolta degli scritti di Burns fa riferimento alla Galleria Umberto I inaugurata nel 1890. Allorché l’Amministrazione Comunale decise finalmente di bonificare il quartiere San Ferdinando, si pensò di costruire una galleria, su imitazione di quella di Milano del 1867.
16 J. Horne Burns, La galleria, Garzanti, Milano 1950, p. 273
17 Ibidem, p. 276
18 Ibidem, p. 343
19 Ibidem, p. 344
20 Ibidem, p. 346
21 Ibidem, p. 350
22 R. La Capria, Ultimi viaggi nell’Italia perduta, Avagliano, Cava de’ Tirreni 1999, p. 43
23 J. Huston, Cinque mogli e sessanta film, Editori Riuniti, Roma 1982, p. 135