Gli autori di I ritmi della vita – Russel Foster, eminente studioso dei ritmi circadiani e Leon Kreitzman, scrittore e giornalista specializzato sull’argomento – ricordano che un tempo, quando un dipendente andava in pensione, il «padrone» (che allora era ancora una vera persona, non un’entità finanziaria impersonale) regalava un bell’orologio; il regalo era simbolo della ritrovata «libertà», della garanzia di poter controllare finalmente il proprio tempo, invece di limitarsi a perderne il meno possibile per arricchire la proprietà. Un tempo gli orologi erano veri e propri status symbol: ricordo che nel romanzo Il buio a Mezzogiorno, di Arthur Koestler, un esponente del PCUS, fedele sino al fanatismo al regime, rivendicava al Grande Partito la gloria di aver messo i proletari nella condizione di possedere un orologio. Oggi, invece, siamo in tanti a farne a meno e a leggere l’ora sul cellulare.
Facciamo bene? Facciamo male? In realtà tutti i figli di Gaia, dai batteri alle piante, dagli insetti agli umani, possiedono orologi biologici regalati cortesemente dall’evoluzione e sincronizzati con il ritmo fondamentale del pianeta, quello circadiano. È grazie ai loro orologi interni che gli animali «sanno» quando riprodursi e le piante quand’è opportuno entrare in quiescenza o fiorire. Senza orologi biologici, invece, le pecore potrebbero figliare in inverno mettendo a rischio la sopravvivenza della prole, le piante produrre gemme quando la temperatura non è ancora abbastanza alta e roditori notturni come i topi uscirebbero troppo presto dalle tane o tarderebbero a rientrare al termine della notte, esponendosi agli attacchi dei predatori diurni.
Ma come fanno i figli di Gaia a «sapere dentro di loro» che ora è, là fuori? Se lo sono chiesto in tanti, il primo a tentare una spiegazione scientifica non fu un biologo bensì un astronomo, Jean-Jacques Ortous de Mairan, studiando l’ormai notissimo ritmo di apertura e chiusura delle foglie di mimosa. Era il 1729, ma soltanto due secoli dopo iniziò la fase pionieristica degli studi sui ritmi biologici.
Fu un lavoro grandioso ma arduo, che Foster e Kreitzman raccontano con grande passione nella prima parte del saggio; la lettura di questi capitoli, molto avvincente per gli addetti ai lavori, potrebbe risultare un po’ ardua per i lettori curiosi ma «generalisti». Poco male, saltare qualche pagina e qualche dettaglio non toglie interesse o comprensione alla lettura.
Grazie a un primo ciclo di ricerche, l’orologio endogeno venne identificato con un nucleo di circa ventimila cellule posizionate sopra il chiasma ottico (il punto, cioé, dove le fibre nervose provenienti dai due occhi si incrociano) che, a sua volta, fornisce all’organismo informazioni sulla durata del giorno regolando la produzione dell’ormone melatonina. A proposito, questo dovrebbe metterci in guardia da un uso improprio ed eccessivo di una sostanza sicuramente naturale ma che ha un ruolo chiave nella regolazione del nostro metabolismo e del nostro comportamento.
Gli studi successivi sulle varie fasi di questo sistema, che ha una ritmicità di circa ventiquattro ore, continuano a rivelare straordinarie somiglianze in tutti i regni dei viventi nonostante l’enorme diversità dei recettori luminosi da una parte e dei processi metabolici e comportamentali controllati dall’altro. Questa consapevolezza ci fa pensare che
La programmazione temporale mediante oscillatori circadiani deve essere importante, altrimenti perché mai sarebbe evoluto un sistema regolare così complesso e diffuso? (Hirschie Johnson).
Probabilmente l’interesse per i ritmi circadiani sarebbe rimasta una «passione» di nicchia e l’occasione per esperimenti elegantissimi (spesso, ahimè, basati su un buon numero di sevizie a carico di esserini indifesi più o meno graziosi) se l’organizzazione produttiva e logistica del mondo occidentale non fosse, nel frattempo, molto cambiata e non si fossero aperte grandi prospettive di utilizzo di tutte queste informazioni. Siamo al principio degli anni Sessanta, e la salute di molti lavoratori nonché la sicurezza loro e quella pubblica corrono rischi nuovi in
un mondo in cui l’attività ventiquattro ore su ventiquattro stava diventano molto più comune in contesti quali le centrali elettriche, i servizi di pubblica utilità, l’elaborazione dati, l’aviazione, l’informazione, le telecomunicazioni, le forze armate e i voli spaziali con equipaggio a bordo.
E in questa nostra società attuale – che allora si stava soltanto profilando e che ora è diventata iperattiva, iperproduttiva, iperconnessa e funziona giorno e notte al 100% – lavoratori come i poliziotti, il personale degli ospedali, i piloti e le persone che lavorano in locali sempre aperti al pubblico (e, in generale tutti coloro che vivono e lavorano sempre in ambienti artificiali) rischiano, oltre allo stress legato ai cambiamenti di turno e alle ovvie difficoltà nel gestire le proprie relazioni sociali, una singolare e – al momento non sappiamo ancora quanto pericolosa – dicotomia tra esperienza visiva ed esperienza della temporalità negli ambienti di lavoro: mentre infatti l’intensità di luce necessaria per la visione è adeguata anche nelle ore notturne, quella necessaria per regolare il sistema circadiano potrebbe non esserlo. Chi vive e lavora di giorno e «fuori» è sottoposto a intensità luminosa che varia tra 5.000 e 100.000 lux, mentre chi sta «dentro» case e uffici riceve luce di intensità variabile tra 50 e 500 lux. Un po’ poco.
Un altro disturbo emerso negli ultimi anni è il jet lag, ossia quell’insieme di disturbi come affaticamento, dolori sparsi per il corpo, problemi di digestione, difficoltà ad addormentarsi e disorientamento provati da chi vola attraverso alcuni fusi orari. Per il personale di volo che continuamente attraversa avanti e indietro numerosi fusi orari il rischio è piuttosto alto: la scansione cerebrale di hostess con almeno cinque anni di servizio ha evidenziato una compromissione nella capacità di pensiero, un aumento significativo dei livelli di cortisolo (l’ormone dello stress) e difetti della funzione cognitiva. D’ora in avanti quindi, salendo in aereo, non auguratevi che vi tocchi un/una pilota con grande esperienza di volo…
Mosé Ben Maimoun (1135-1204) |
Conoscere in maniera approfondita i ritmi circadiani della nostra specie serve poi a diagnosticare e affrontare numerose patologie. Per esempio, la funzionalità delle vie respiratorie nei pazienti asmatici migliora nel pomeriggio, ischemie e ictus si verificano con maggior frequenza tra le 6.00 e le 10.00 del mattino e le crisi asmatiche intorno alle 4.00 del mattino; aumentare la sorveglianza nelle ore a rischio, quindi, potrebbe consentire di intervenire con maggior tempestività, salvando molti pazienti. Molti farmaci e terapie sono più efficaci se somministrati in certe ore della giornata. Queste informazioni erano note fin dall’antichità in altre culture: Maimonide, già nel XII secolo, segnalava l’andamento ritmico delle crisi di asma; inoltre la medicina cinese
riconosce da più di 5000 anni che la dose non può essere isolata dal concetto di tempo. Per un unico malanno, a ore diverse della giornata, in momenti diversi della settimana, del ciclo mestruale o dell’anno, viene regolarmente prescritta una dose completamente diversa di un dato farmaco, oppure un farmaco completamente diverso (Bill Hrushesky, oncologo americano).
Purtroppo, solo il 5% dei medici americani ha dichiarato di avere grande famigliarità con concetti quali la cronobiologia e la cronoterapia. Del resto, come osserva Richard Martin (primario di penumologia):
Se una materia qualsiasi non viene insegnata alla facoltà di medicina e non è enfatizzata durante la formazione dei medici, è molto difficile che poi, nella prassi, i professionisti cambino il proprio approccio […] occorrerebbe uno sforzo concertata da parte di un’istituzione […] che emettesse delle linee guida in materia. Questo non accadrà mai. Perciò sarà un processo lentissimo, sostenuta da centinaia di articoli di ricerca e altra letteratura specializzata.
Ma gli studi sui nostri ritmi circadiani non sono sempre a fin di bene, o meglio di pace: la creazione del «soldato metabolicamente vincente» non è il punto di partenza di romanzi di fantascienza ma un vero progetto dell’Advanced Research Projects Agencydella Difesa degli Stati Uniti, Si tratta di creare «un guerriero in grado di combattere ventiquattro ore al giorno, sette giorni di fila», nella convinzione che:
eliminare la necessità di dormire conservando l’elevato livello di prestazione fisica e cognitiva dell’individuo costituirebbe una svolta fondamentale nel combattimento e nel dispiegamento delle forze (Defence Science Office).
Esercitazioni Usa in Nuovo Messico |
Far combattere la gente per più tempo e con maggiore determinazione è sempre stato l’obiettivo dei capi militari. Un tempo si «potenziavano» i soldati con il vino, la grappa, il suono martellante dei tamburi, le urla e il fanatismo; durante la Seconda guerra mondiale l’esercito giapponese cercò di ottenere supersoldati facendoli marciare fino a 60 ore di seguito, poi sono venute le anfetamine; recentemente (dalla Prima guerra del Golfo) gli eserciti di diversi paesi hanno usato il modafinil che dà, pare, un’autonomia di almeno tre giorni senza effetti collaterali importanti, a differenza delle anfetamine che danno dipendenza, nausea, irritabilità, tachicardia, impotenza, tic e, come effetto rebound, con grande senso di affaticamento e depressione. Chissà, l’ingegneria genetica potrebbe produrre umani con una variante priva di controindicazioni, della Sindrome di Morvan, caratterizzata da grave insonnia (anche alcuni mesi) senza disturbi dell’umore o stanchezza (al modico prezzo di un paio d’ore di allucinazioni sensoriali ogni sera).
Tra pregi maggiori del libro c’è la volontà di allargare il discorso e interrogarsi sui metodi delle scienze e sull’uso che potremo fare delle nuove conoscenze. Uno dei rischi maggiori del pensiero scientifico è frutto proprio di quei metodi induttivo-deduttivi basati sulla sperimentazione che ha consentito lo sviluppo della scienza moderna:
Noi tendiamo a trovare ciò che stiamo cercando. Noi imponiamo alle nostre osservazioni un ordine tale da collocare i dati in un prospettiva teorica ordinata.
Impossibile, durante la lettura non riflettere sul fatto che il nostro modello attuale di società ci spinge a parlare del tempo sempre in termini di mancanza: per quanto la tecnologia ce ne faccia risparmiare, non ne abbiamo mai abbastanza per smaltire un carico di lavoro e attività in perenne aumento. Viviamo sempre più al di fuori dei ritmi naturali, e non pochi di noi sarebbero sedotti dalla possibilità di ridurre la quantità di sonno di cui abbiamo bisogno (ma per la quantità di sogni di cui abbiamo bisogno?).…
Come non concordare con gli autori quando concludono:
Dobbiamo guardare in profondità dentro di noi e decidere se siamo sicuri di aver imboccato una strada che ci permetta di affrontare i temi del tempo con saggezza, e non da stupidi.
Russel Foster, Leon Kreitzman
I ritmi della vita
Longanesi 2007, pp. 368, € 19,60
Trad. I. C. Blum