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    Magazzino

    Napoli nobilissima 1.

    • di Mario Prisco
    • Agosto 31, 2012 a 8:55 am

    Molto di nuovo sul fronte napoletano

    Da Guardia Lombardi on the art

    Con questo articolo diamo inizio a un nuovo itinerario letterario per scrutare dall’interno la realtà partenopea. Se, infatti, come ricorderanno i nostri lettori, nelle quattro precedenti tappe che ci hanno accompagnato nel corso del 2006, ci siamo limitati all’immagine espressa dagli scrittori provenienti dal resto d’Italia e da altre realtà europee e americane, tra la fine dell’Ottocento e il secolo successivo, con questa nuova rubrica sono gli autori napoletani a osservare se stessi e a raccontare non solo il proprio punto di vista sulla città, ma il modo con il quale affrontano il loro impegno letterario.
    Quindi Napoli non più osservata dall’esterno, ma dall’interno allo scopo di sondare in maniera ravvicinata le energie positive presenti nella città, al di là delle problematiche politiche ed economiche che l’attanagliano.
    Sfacciatamente, e di ciò ci perdoneranno i nostri lettori, abbiamo voluto denominare questa rubrica «Napoli nobilissima» prendendo in prestito il titolo di una vecchia rivista fondata nel 1892 per iniziativa della Società storica che raccoglieva molti dei giovani intellettuali della Napoli del periodo1. La rivista si dedicò esclusivamente all’approfondimento della storia dell’arte meridionale e alla storia topografica di Napoli ed ebbe la funzione di illuminare i lettori sul grande patrimonio culturale cittadino, coinvolgendo non solo gli studiosi napoletani, ma anche quelli provenienti da altre realtà.


    Le pubblicazioni proseguirono fino al 1906 e, come poi scrisse Benedetto Croce, la rivista raccolse «un copioso materiale, illustrando quasi completamente ogni luogo della città di Napoli e facendo avanzare gli studi di storia dell’arte meridionale, in particolare sotto l’aspetto della investigazione critico-documentaria»[2].
    «Napoli nobilissima» fu fondata da Benedetto Croce, uno dei suoi massimi promotori, e da un folto gruppo di intellettuali: Carafa, Ceci, Di Giacomo, Schipa e Spinazzola. A essi subentrano e si accostarono, nei suoi quindici anni di vita, diversi e spesso giovani collaboratori che diedero un costante apporto di energia e di novità[3].
    Al di là della funzione che la rivista ebbe nella Napoli del periodo, essa è divenuta nel tempo una sorta di icona con la quale si è soliti accompagnare quella parte elitaria della città che conserva inalterata la voglia di continuare a sostenere una sua crescita culturale. Per questo motivo abbiamo ritenuto opportuno appropriarci di tale titolatura, pur essendo diversi gli obiettivi che naturalmente ci prefiggiamo di raggiungere.
    Oltre a tentare un approccio monografico sui vari scrittori napoletani, che in questa fase sembrano attraversare un momento di decisa effervescenza, il nostro intento è anche quello di soffermarci su eventi, aneddoti e stagioni culturali specifiche che hanno contribuito a rivitalizzare l’immagine della città, sorvolando gli immensi e frettolosi stereotipi che hanno contrassegnato la sua storia e la sua gente. Riteniamo che la letteratura abbia prima di tutto questa funzione giacché, come ci ha insegnato Primo Levi, deve puntare a distruggere i lager culturali che da sempre aleggiano nella mente e nel cuore degli uomini.
    Il nostro Paese è una fucina grandiosa di energia, espressa nei modi più disparati, più imprevedibili e mal si adatta a sopportare immagini stereotipate e ottusamente deterministiche.
    Questa rubrica vuole essere prima di tutto uno spazio dove raccogliere il meglio della creatività e della laboriosità napoletana; vuole essere insomma, una sorta di osservatorio letterario aperto «sul fronte partenopeo», senza tuttavia cadere in nessuna forma di auto-glorificazione. Come avremo modo di analizzare nei prossimi numeri, uno degli elementi penalizzanti che ha fatto molto spesso di Napoli e della sua stessa cultura un fenomeno da baraccone, è stato proprio la tendenza a cadere o nella lusinga dell’auto-glorificazione del proprio modo di essere e di vivere, o quella altrettanto negativa dell’auto-denigrazione: fenomeno inverso, ma egualmente fuorviante e assolutamente detestabile.

    Ogni città ha avuto i suoi grandi interpreti, che hanno saputo spesso cogliere l’anima profonda della gente, delle loro abitudini, del loro approccio ai temi della vita e della morte. Il nostro Paese è la sintesi di immense microculture e anche questo lo rende un luogo unico al mondo. La poliedricità del vasto profilo semantico lo ha fatto diventare espressione di una sorta di multiculturalità ante-litteram. Ma quando il particolarismo si impone sull’elemento macroscopico, fino a perdere il suo aggancio con il generale, allora nascono fenomeni provinciali che rendono le singole culture insignificanti e riduttive. La napoletanità, che a lungo ha dominato la vita culturale partenopea, è stata l’elemento castigante di un modo di sentire che all’origine voleva affidare alla città un maggiore spessore e significato. Quando Raffaele La Capria ha parlato nei suoi libri della perpetuazione della recita della napoletanità come tratto orribile di quella che ha definito la «città irredimibile», ha inteso non offendere, ma difendere la cultura cittadina da una dissennata invadenza provincialistica. E quando ha definito Benedetto Croce un uomo che parlava in dialetto, ma pensava «europeo» si riferiva proprio al ruolo che ogni intellettuale dovrebbe avere nel conservare radici certe, senza altresì perdere mai di vista ciò che lo circonda.
    Se in questa rubrica vogliamo soffermarci maggiormente sulla letteratura degli autori napoletani contemporanei è proprio perché qualche segnale decisamente positivo si intravede all’orizzonte e lascia sperare in un riequilibrio del rapporto con il proprio luogo di origine.
    Se la napoletanità, nella sua espressione negativa, ha retto fino agli anni Sessanta-Settanta, nel periodo successivo è stata respinta fortemente. La tentazione di allontanarsi mentalmente dal proprio luogo di origine, quasi come se occuparsi di ciò che era immediatamente fuori l’uscio di casa fosse un’operazione di vuoto e insopportabile provincialismo, è diventata via via sempre più pronunciata. Più importante era ciò che avveniva altrove, in luoghi distanti centinaia, talvolta migliaia di chilometri dal proprio universo. Del resto, concetti che richiamavano alle proprie radici familiari e culturali erano vecchia poltiglia non meritevole di alcuna attenzione. Era cultura passatista, romantica, priva dell’eccitante conquista del diverso, dell’alternativo. Grazie a ciò è stato possibile avvicinarsi a culture e a mondi nuovi, contribuendo all’accentuazione di un cosmopolitismo che ha portato a conoscere la letteratura, la storia, la musica e ogni altra espressione artistica prodotta in paesi lontani.

    Antonio Franchini

    In nome, però, di questi convincimenti si è attuato uno straniamento spaziale mai avvenuto nelle epoche precedenti. In un riuscitissimo intervento, intitolato «Riapparizione di una città da cui si è lontani», preparato in occasione della celebrazione dei quarant’anni dalla pubblicazione de Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese, Antonio Franchini ha scritto:

    negli anni settanta, quando da ragazzo ho cominciato a leggere, evitavo come la peste tutti i libri – e nella biblioteca di mio padre erano tanti, troppo per me, tutto spazio sprecato – che parlavano di Napoli. Memorie storiche, folcloristiche, linguistiche, gastronomiche, curiosità che andavano dalla più accesa euforia campanilistica ai frutti decorosi dell’erudizione crociana […] Accomunavo tutto nello stesso rifiuto, dal saggio sulle strade di Napoli ai libretti sulle origini della pizza, dall’epopea dei posteggiatori alle leggende sulla Sibilla cumana, dalle canzoni di E.A. Mario al teatro di Eduardo, dal sangue di san Gennaro al gioco del lotto. […] Era la chincaglieria, la paccottiglia, gli articoli da regalo che Napoli produceva prima di Hong Kong e di Taiwan. Era la napoletaneria[4].

    La testimonianza di Franchini raccoglie pienamente lo stato d’animo delle generazioni nate nel dopoguerra che, agognando un mondo nuovo, si erano convinte che il mutamento poteva arrivare solo da luoghi distanti e non concretizzarsi all’interno della propria realtà.
    Le considerazioni di Franchini si ricongiungono tra l’altro a quelle di Raffaele La Capria che, nel 1986, nella prima pagina de L’armonia perduta aveva affermato:

    «un amico, di me più giovane, da Napoli mi scrive: “noi che siamo nati dopo la guerra non abbiamo per Napoli nessuna inclinazione particolare. La viviamo come residenti che la conoscono a fondo, ma la sua sirena non ci addormenta né il suo canto ci toglie la pace. Tra la mia generazione e la tua, nei confronti di Napoli, c’è stata una rottura. Noi, credo, abbiamo saputo servirci della città senza lasciarci prendere da lei. Possiamo starvi lontano senza sentirci per questo esiliati. Insomma la mia generazione ha radici assai meno radicate, qui, che non la tua. Ci sentiamo omologati a un’umanità forse più anonima, ma anche meno chiusa su se stessa e le proprie abitudini. […] A partire dagli anni Sessanta è nata con la mia generazione una vocazione irresistibile a vincere i confini datici dalla città. Abbiamo fatto viaggi lunghissimi e disintossicanti col sacco a pelo, e solo quel peso ci portavamo sulle spalle. Eravamo più leggeri di voi. I vostri viaggi erano partenze col biglietto di ritorno in tasca, perché il vostro cuore cultura e moti dell’anima erano abbarbicati a Posillipo o a Spaccanapoli, a Capri o a Marechiaro. Luoghi che anche noi amiamo moltissimo, ma che non sono il topos della nostra esistenza. Con la sconsideratezza dei giovani abbiamo rifiutato questi luoghi, ovvero tutta la cultura di cui erano impregnati. Era una cancellazione, un rifiuto, che veniva d’istinto, come s’uccide il padre almeno una volta nella vita. Ci siamo fatti altri padri negli anni che hanno preceduto il ’68, ed erano gli antagonisti naturali della ‘napoletanità’. Ingiustamente forse, abbiamo nutrito la stessa avversione per Scarfoglio e Croce, per Ferdinando Russo e Francesco De Sanctis, accomunandoli nel rifiuto. Avevamo torto, ma fu questo che ci aiutò a non ‘farci suonare’, come tu dici, dalla napoletanità”»[5].

    Le parole del personaggio lacapriano sono illuminanti, raccogliendo pienamente lo stato d’animo che aleggiava nei giovani napoletani, politicamente impegnati, degli anni Settanta-Ottanta. Poi, il tempo, l’inevitabile smobilitazione dei decenni successivi, il crollo delle certezze politiche connesse al sogno di trasformazione, ha riportato costoro nel mondo presente, costringendoli a rivalutare, in un riordino tra passato, presente e futuro, l’importanza e l’enorme significato di occuparsi nuovamente di quello che avveniva sotto i propri occhi. Per molti Napoli è ridiventata importante, è risorta, riabilitando senza enfasi un legame ancestrale esistente con la propria terra e con la propria gente.
    Questa rivisitazione delle precedenti certezze è però avvenuta anche per un altro motivo. Tra la fine degli anni Settanta e per buona parte del decennio successivo, sono stati numerosi i giovani napoletani che per un motivo o per un altro hanno lasciato la propria città e ciò ha sollecitato un recupero nostalgico della propria realtà originaria. Ecco, per dirla ancora con Franchini, la città è riapparsa, il fossato del tempo ha in qualche modo annullato ciò che di negativo o di restrittivo Napoli aveva fino ad allora significato. Guardando la città da lontano qualcosa è sembrato ricomporsi, divenendo meno orribile e principalmente più sostenibile. «Napoli da lontano», utilizzando il titolo di un famoso libro di Gianni Infusino[6], si è forse depurata della sua difficile quotidianità, risorgendo spontaneamente dall’enorme scrigno nel quale era stata rinchiusa.


    È chiaro, però, che questa Napoli non era, ne poteva essere uguale a quella raccontata in precedenza. Era una città deprivata del mito della napoletanità, del folclore, tanto gaudenti, quanto improduttivi e insignificanti. Era invece la città delle radici personali, del dialetto, degli odori e degli umori dell’infanzia e dell’adolescenza. Recuperare la memoria era fondamentale per riappropriarsi di se stessi e guardare avanti nel tentativo sempre difficile di mettere in contatto il passato con il futuro.
    Riteniamo che buona parte dell’interesse anche letterario riaccesosi negli ultimi anni su Napoli sia la conseguenza di questo stato d’animo che in misura e con modalità diverse ha coinvolto una parte considerevole dell’ultima generazione di scrittori. Vedremo insieme in che misura, e secondo quali modalità, tutto questo è avvenuto e se questa operazione possa contribuire a migliorare l’immagine della città.

    Note:

    [1] «Napoli nobilissima» era a sua volta l’espressione con la quale si apriva una guida secentesca sulla città.
    [2] B. Croce, «La vita letteraria a Napoli», in B. Croce, La letteratura della Nuova Italia, vol. IV, Laterza, Bari 1947, p. 341
    [3] La rivista sollecitò un grande interesse per i temi locali in tutto il Mezzogiorno. Infatti nel giro di pochi anni nacquero riviste in Puglia, Basilicata, Abruzzo, Sicilia, che furono fondamentali per non disperdere il grande patrimonio culturale che il Meridione aveva accumulato negli anni precedenti all’Unità.
    [4] A. Franchini, «Riapparizione di una città da cui si è lontani», in G. Tortora (a cura di), Il risveglio della ragione, Avagliano, Cava de’ Tirreni 1994, p. 59
    [5] R. La Capria, L’armonia perduta, Rizzoli, Milano 1999, pp. 11-12
    [6] Cfr. G. Infusino, Napoli da lontano, Sen, Napoli 1981

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